Gabriele Romagnoli, GQ giugno 2012, 8 giugno 2012
Il vincitore morale – L’autista che ci porta a Coverciano guarda ne’ retrovisore il passeggero appena salito
Il vincitore morale – L’autista che ci porta a Coverciano guarda ne’ retrovisore il passeggero appena salito. Sorride. Dice: «L’ho vista in tv!». Quello abbassa gli occhi, spera che il discorso vada altrove, non parla. L’autista insiste: «Era nello spot dell’Associazione Tumori Toscana». Il passeggero rialza lo sguardo, ascolta attento mentre l’altro continua: «Fa bene, sa, ad aiutarli. Loro sono davvero bravi, hanno assistito mia mamma. Hanno mandato una sudamericana eccezionale. Grazie. Anche a lei». Finalmente Cesare Prandelli, commissario tecnico della nazionale italiana, sorride. All’autista, del calcio non importava niente. Mentre andavamo a prendere il ct ha detto che per lui esiste solo il rugby e se n’è uscito con una citazione di Oscar Wilde: «Il calcio è uno sport per gentiluomini praticato da barbari, il rugby è uno sport per barbari praticato da gentiluomini». Credo abbia conosciuto e ammesso un’eccezione: Cesare Prandelli è un gentiluomo. Alla lettera: un uomo gentile. E basterebbe questo a qualificarlo per la fase finale. Poi si rivela anche: consapevole dei propri limiti, indulgente, malinconico. Schivo. Entriamo al Centro tecnico della Federazione e oltrepassiamo una sua gigantografia a grandezza naturale. Senza voltarmi, chiedo: Che effetto fa? «Ogni volta che la vedo penso di rubarla e portarla via, nasconderla in campagna, sotterrarla». Ci sarebbe anche quella specie di albo appeso dall’altra parte, che comincia con Aleazza e Pozzo e finisce con Prandelli... «Quello non lo guardo mai. Cerco di non prendermi sul serio». E ci riesce? «Credo proprio di sì». Si guarda spesso da fuori? «Sì. E mi stupisco ancora per tutto quel che mi è successo. Anche stamattina: qualcuno ha parcheggiato davanti al mio cancello impedendomi di uscire con lauro. Sono andato a prendere un caffè, son tornato e cera questa ragazza che voleva scusarsi, mi ha riconosciuto e si è emozionata. Mah». Che cosa pensa che apprezzi la gente in lei? «La disponibilità, credo. Ma la considero un dovere. Come fai a negarti? Una volta c’era questo ragazzo in coma, un tifoso della Fiorentina, gli facevano sentire i cori della curva Fiesole per risvegliarlo. Sono venuti a chiedermi di registrare la mia voce. Ho pensato: non servirà. Ma l’ho fatto. Il ragazzo si è svegliato. Non credo per merito mio. Ma comunque: se mi fossi negato?». A che cosa si nega? «Alle interviste e ai servizi fotografici, di solito. Ai programmi televisivi, sempre. Saranno anche bellissimi, ma io non ho niente da vendere». Potrebbe andarci e parlare dei suoi valori. Ha esordito due anni fa con una parola che in Italia manco sta nel dizionario: "meritocrazia". Ma lei pensa di aver meritato la posizione che ha? «Due anni fa dissi che probabilmente mi avevano scelto perché ero l’unico libero. Dopo il girone di qualificazione che abbiamo fatto, forse qualcosa di buono ho dimostrato». Tornei di Viareggio a parte, lei non ha mai vinto niente. Ha paura che succeda? «Sono pronto. Mi creda, sono pronto. E poi, se posso dirlo, si può essere dei vincenti anche senza aver vinto niente. Uno come Mazzone, per esempio, che ha salvato tante squadre, è come se avesse vinto tanti scudetti». Voleva essere Mazzone? «Mi ha insegnato molto. Mi ha fatto cominciare. Poi un giorno mi ha detto: sei bravo, ma ricorda che quelli bravi son bravi soprattutto a farsi comprare i giocatori. Chi sono, quelli bravi? «Quelli che han vinto, o salvato, un po’ dappertutto. Mourinho, Capello. Mourinho sa creare un gruppo. Capello è il più pratico di tutti. Ma, detto questo, bisogna trovarsi al posto giusto. Il momento conta relativamente. Oggi vincono sempre le stesse squadre». Sta dicendo che l’allenatore ha un peso limitato? «Ne sono assolutamente convinto. L’ultimo a fare un golpe è stato Bagnoli con il Verona». Ora sarebbe possibile? «Ne dubito». Lei in che cosa è bravo? «So dare un gioco». Mi tolga una curiosità. Dicono che quando un allenatore azzecca le sostituzioni ha saputo leggere la partita. Non sarà che ha sbagliato la formazione? «È possibile. A volte i cambi sono figli della disperazione, li fai di pancia e non di testa. E lo vedi. Invece non bisogna farsi coinvolgere emotivamente, ragionare. Comunque, se fai cambi presto, è un’ammissione di colpa». Me ne tolga un’altra. Lei all’Atalanta, nelle giovanili, creò una specie di "cantera", tirò fuori Tacchinardi, Morfeo e compagnia bella. Allora non occorre necessariamente l’aria di mare di Barcellona per riuscirci, è possibile anche qui... «Certo». E perché non si fa? «Nella Struttura del calcio c’è un anello debole. I dirigenti. Sono il vero problema. Non hanno pazienza, non hanno visione. Il calcio non è una fabbrica, non può produrre a ciclo continuo. Bisogna saper aspettare, investire meno, aspettare di più». Anche quando la persona che aspetti non arriva mai, si perde, fa sciocchezze? «Ho capito dove vuole arrivare e la risposta è sì. Se hai un talento, qualcuno che può fare la differenza, hai il dovere di aspettarlo. Per te, per lui, per la squadra, per la riuscita del progetto». Vale anche nella vita? Si ha l’obbligo di aspettare, non so, un figlio che va fuori di testa, una donna che ti tormenta l’esistenza? «Sì». Senza se e sema ma? «Sì». Ha sempre avuto la pazienza necessaria? «Credo di sì. Provo a guardarmi da fuori e rispondere: sì. A volte gli altri se ne sono andati, si è perso il feeling, hanno cominciato a guardarmi diversamente perché ero uno conosciuto, come se contasse qualcosa. A volte non sei tu che cambi, sono gli altri a voler pensare che sei cambiato, non so perché. Quando torno al mio paese capita che vada al mercato e sento dire: "Ma l’è lù?", "L’è lù, l’è lù". Certo che sono io. E chi dovrei essere?». Chi sono i suoi amici, quelli veri? Che cosa fanno nella vita? «Quelli di Orzinuovi. Uno è un ambulante di formaggi. Uno fa il rappresentante di dolciumi. Uno lavora in banca. Poi ci sono un grossista, un architetto, un veterinario». Qual è stata la sua "sliding door"? A che punto ha svoltato? «È successo a sedici anni. È stata la morte di mio padre. Io pensavo che mi avrebbe chiuso le altre porte. Sono andato lì, lui era agli ultimi, e ho detto che ero pronto a prendere il suo posto, a entrare nell’attività di famiglia. Lui ha preso un gran respiro e ha detto: no. Poi ha detto: continua a sognare, non voglio che tu segua la mia strada, prendi la tua». E se invece di un sogno era un’illusione? «Ci ho pensato, sa. Per anni. Ho capito che potevo farcela, che ero davvero un calciatore solo quando sono arrivato all’Atalanta. E di anni dalla morte di mio padre ne erano passati cinque». Di essere un allenatore l’ha capito più in fretta? «Mica tanto, ho cominciato per caso, ero rotto e non volevo rubare uno stipendio. Forse è stato proprio Mazzone a convincermi». Ci sono stati presidenti che hanno provato a convincerla a mettere in campo una formazione? «Be’, c’era Stefano Tanzi, al Parma, che aveva un fissazione. Voleva vedere insieme Adriano e Gilardino. Tenga conto che cerano pure Mutu e Nakata. Continuavo a spiegargli che non aveva senso, che anziché raddoppiare la potenza dell’attacco in quel modo l’avremmo dimezzata. Niente, lui s’immaginava che quei due in coppia potessero fare chissà che. Così una volta li ho messi in campo, in una partita in casa con l’Empoli. Finì zero a zero, praticamente non tirammo in porta». Raccontano storie di grande umanità tra lei e Stefano Tanzi, nell’anno del crac Parmalat, con la salvezza raggiunta mentre la società affondava... «Guardi, lui era una persona che a me piaceva e sono convinto non solo che non avesse responsabilità, ma che non sapesse niente di quel che succedeva in Parmalat fino a due settimane dal crollo. Mi ricordo che venne al campo con gli occhi pieni di lacrime. Scuoteva la testa e diceva: non abbiamo più i soldi per pagarvi. Si vergognava. Lo portai nello spogliatoio e gli dissi che non era un problema, che avremmo continuato gratis, che ero sicuro di parlare per tutta la squadra. I soldi, a quel punto, non contavano più. Mi guardò incredulo. Immagino che nel suo mondo fosse diverso. Lui è staro coinvolto e io ho imparato che non bisogna mai coinvolgere un figlio. Mai». Mai renderli figli di papa? «Mio figlio fa il preparatore, ma io non è che...». Non intendevo papà così, pensavo a quelli che hanno le industrie, il potere e danno ai figli lo stesso destino e perfino lo stesso nome, più o meno... «Non so, forse ci sono cose difficili da evitare». Era evitabile il divorzio con Della Valle, quel tipo di divorzio? «Alla Fiorentina ho avuto quattro anni e mezzo straordinari». E l’ultimo mezzo? «Meno. Io ci tenevo davvero a vincere lì, perché se vinci a Firenze è una cosa straordinaria. E avevamo il gruppo, il progetto, quelle cose che fanno la differenza. A gennaio, dopo quattro anni e mezzo appunto, eravamo ancora in corsa per tutto: qualificati in Champions e in Coppa Italia, messi bene in campionato. Vado e chiedo due rinforzi, non due fuoriclasse, due giocatori italiani di medio livello, affidabili. Invece me ne comprano cinque, tutti stranieri, che non avevo chiesto. Il problema è che a quel punto anche il gruppo capisce che il progetto non c’è più, e molla. L’allenatore perde credibilità e rutto finisce». Ma non potevate lasciarvi meglio? «Credo che a Della Valle abbiano detto cose non vere su di me e che se ne sia convinto. Ci siamo anche parlati, ho provato a spiegare, ma non è servito». Si chiude una porta, si apre un portone? «Sono qui, in nazionale: stiamo a vedere». Lei fa questa impressione, a me e ad altri: come se fosse una specie di Mario Monti del calcio. «Sa che me l’hanno detto in tanti?». E si è chiesto perché? «Non lo so. Sono un tecnico...». ... e uno perbene. «Anche, credo». E proverà a farci fare una bella figura in Europa, vincendo. «Proverò, ma se lo ricordi: non solo i vincitori hanno vinto». Me lo scrivo sul taccuino e provo a crederci. L’auto si ferma davanti al luogo dove faremo il servizio fotografico. Per alleviarne il peso al ct, gli ho fatto una sorpresa. Glielo dico e mi guarda sospettoso: «Odio le carrambate». Ma questa è un vecchio amico, Claudio, conosciuto a Zanzibar, quando quello gestiva un resort e Prandelli andava a inaugurare asili benefici di cui non si fa mai vanto. Si abbracciano, scambiano ricordi. Tre frasi e Zanzibar è Orzinuovi sul mare: tavolate di sera, il pesce, gli amici. Claudio, nella vita precedente l’Africa, addestrava Jack Russell. Il ct gli ha telefonato per farsene consigliare uno. Quando sento queste storie penso all’attacco del terminale libro (Liù, biografia morale di un cane) di uno che amava il calcio, Edmondo Borselli: «E mica l’ho voluto io, il cane». Dietro c’è sempre una donna, un amore. Più il cane è piccolo, più l’amore è grande, o si sforza di esserlo. Non dico niente. Claudio ha portato il suo Jack Russell. Prandelli dice: «Allora prendo anche il mio». Torna dopo venti minuti con un cucciolo bianco, chiamato inevitabilmente Nero. Si va a cambiare, riappare con il cane in braccio, l’effetto lo vedete. Ho incontrato Lippi prima del Mondiale 2006. Mi parlava di barche, diceva: mal che vada mi resta il mare. Poi s’è preso la coppa. Se c’è un potere scaramantico nelle ricorrenze sarei veramente felice di darlo a quest’uomo, qualunque peso attribuisca alle vittorie, al suo cane, e alle ragioni per cui l’ha preso con sé.