Andrea Cangioli, GQ giugno 2012, 8 giugno 2012
Per fortuna non ero Robert Redford – Che cosa fa una delle più grandi star del cinema quando arriva in anticipo a un appuntamento? Bussa delicatamente alla porta della stanza dell’hotel di Beverly Hills dov’è atteso e chiede il permesso di entrare, come fosse uno scolaretto
Per fortuna non ero Robert Redford – Che cosa fa una delle più grandi star del cinema quando arriva in anticipo a un appuntamento? Bussa delicatamente alla porta della stanza dell’hotel di Beverly Hills dov’è atteso e chiede il permesso di entrare, come fosse uno scolaretto. Dustin Hoffman ha con sé un grande bicchiere pieno di succo di pomodoro e comincia subito scherzando sul fatto che quello non è un Bloody Mary, come potrebbe sembrare, ma un Virgin Mary, una differenza che lo fa molto ridere. Poi, per i 50 minuti successivi, è un vulcano di aneddoti, pensieri, scherzi, barzellette, a volte irripetibili: un concentrato in ebollizione di comicità surreale, pessimismo cosmico e ironia. Il pretesto per la conversazione è Luck, la serie televisiva prodotta da Hbo sul mondo delle scommesse ippiche. Hoffman è Chester "Ace" Bernstein, un criminale, appena uscito dal carcere federale per reati non meglio identificati, che vuoi prendere il controllo del Santa Anita Racetrack, l’ippodromo nei pressi di Los Angeles immortalato nei racconti di Bukowski, dove tuttora sopravvive una fauna di personaggi a caccia di fortuna, al costo di un dollaro a scommessa. Qualche giorno dopo il nostro incontro, arriva l’annuncio che la serie è stata cancellata mentre si girava la seconda stagione. Il motivo ufficiale è la morte di tre cavalli durante la produzione. Ma non è un mistero che Luck, ideata con grandi ambizioni da un dream team composto, oltre che dallo stesso Hoffman, dal regista e produttore Michael Mann (Miami Vice, Ali, Insider) e dall’autore televisivo David Milch (NYPD, Deadwovd) non abbia avuto il successo commerciale desiderato. Chiamo di nuovo Hoffman, ma lui non si scompone, anzi promette che organizzerà una festa per celebrare la chiusura della serie. Ho pensato che forse, a 74 anni, ha davvero raggiunto una consapevolezza superiore. Oppure che era ancora sotto l’effetto di quel bicchiere di succo di pomodoro... Mister Hoffman, anche lei pensa che la tv è diventata più interessante del cinema? «Ho accettato il progetto di Hbo perché sapevo che ci avrebbe fatto lavorare in piena libertà: nel cinema, non succede più. A Hollywood ci sono comitati per prendere qualsiasi decisione. Quel modo di lavorare ha ucciso la creatività. Il cinema è un’arre morta». Parole grosse... «Il cinema è sempre staro un’arre bastarda, poiché si fonda su ragioni monetarie e su tempi stretti. Bisogna avere tempo anche per poter fallire. Solo in questo modo si può provare a fare il lavoro migliore possibile». Anni fa disse qualcosa di simile a proposito dei registi, e si sparse la voce che fosse difficile lavorare con lei. Qualcuno la definì «un piccoletto americano pestifero». «(Ridacchia) I registi sono parte del problema. Dicono che la scena va bene prima che sia davvero pronta, così risparmiano soldi e fanno contenti i dirigenti degli Studios. Un vero regista non è mai contento, vuoi sempre ottenere qualcosa di meglio». Perché ha cominciato a fare l’attore? «Solo perché credevo che in quel modo nessuno mi avrebbe potuto rompere le scatole costringendomi a fare ciò che non volevo». E oggi, che cosa cerca ancora? I premi, il denaro? «Ha visto il documentario su Bill Cunningham, quel signore anziano che va in giro per New York in bicicletta a fare foto per la rubrica di stile del New York Times? Ecco, lui dice che non vuoi essere pagato dal giornale, perché altrimenti diventerebbe il suo padrone. Dice: "II denaro è la cosa che vale di meno. La potenza del tuo lavoro è il bene più prezioso"». Ha appena finito di girare un film come regista, Quartet, che sarà distribuito da Harvey Weinstein. Il primo di una serie? «Penso sempre che il lavoro che sto facendo è quello che porrà fine alla mia carriera. Sono amico di Gene Hackman da cinquant’anni, abbiamo fatto insieme la gavetta. Gene non smetteva mai di lavorare, non voleva mai tornare a casa. Una sera, finite le riprese di La giuria, siamo un po’ brilli, e mi dice: "Dusry, quando finisce un film, hai anche tu la sensazione che non troverai più lavoro?". Quando per i primi 10-15 anni sei un attore disoccupato e, come è accaduto a lui, ti arrangi facendo il cameriere o il traslocatore, non importa quanto successo hai: avrai sempre la sensazione che non ti daranno più un altro lavoro». Alla fine, Hackman si è ritirato. «Perché in quel modo non lo avrebbero potuto licenziare!». Che cosa pensa quando si rivede? «Non mi rivedo, è troppo doloroso. Quando recito, mi lascio andare in un terreno che è quello del non sapere, del non avere controllo». Non crede dunque alla teoria che la recitazione abbia un effetto terapeutico? «Se non fosse stato per mia moglie, mi sarei ridotto peggio del mio amico David Milch, che le racconterà di essere stato un giocatore d’azzardo e un eroinomane (Hoffman ha dichiarato in passato che da giovane ha avuto una dipendenza dal Demerol, un analgesico oppioide, ndr). I demoni non si esorcizzano con un film, puoi solo imparare a farli bruciare a fuoco lento». Ha mai avuto problemi col gioco o magari le è venuta la tentazione girando Luck? «No. Ma fare cinema è come essere un giocatore d’azzardo professionista. Faccio film da quarant’anni e non ho mai capito in anticipo chi o cosa avrebbe avuto successo. Non è mai un successo totale: si vince se si fa il punteggio migliore, come in un | torneo. Quando inizi un progetto, sai che può essere un fallimento». Qual è stata la sua più grande botta di fortuna? «Il laureato. In quel momento ero disperato, avrei fatto qualsiasi cosa, non trovavo lavoro come attore. Cercavano un ventunenne biondo, alto, occhi azzurri, un tipo alla Robert Redford, e vanno a prendere me, uno sfigato trentenne, bassino, inesperto. Quando il regista mi ha scelto, gli dicevano tutti che era impazzito...». Si è pentito di aver rifiutato il ruolo di Gandhi, che ha dato invece grande popolarità a Ben Kingsiey? «Mai. Non feci Gandhi per fare Tootsie e anche perché l’idea in sé era ridicola. Richard Attenborough aveva bisogno di me per attirare finanziamenti, me lo disse apertamente. Gli chiesi: "Quindi io dovrei essere l’unico con la faccia dipinta di marrone in una folla di veri indiani, mentre giriamo in India?" Lui disse: "Esatto". Risposi solo "Arrivederci"». Che cosa la rende felice in questo momento della vita? «Sono felice perché faccio quello che amo. Il segreto è lo stesso che serve per far funzionare una relazione: a volte capita di arrabbiarsi, a volte di essere depressi, ma non puoi mai permetterti di annoiarti. Posso tornare al discorso sulla fortuna?». Certo, la ascolto. «Siamo tutti sulla stessa barca, e sappiamo solo che dobbiamo morire rutti, no? L’unica fortuna è quella di svegliarsi la mattina e sapere di avere posticipato la morte ancora per un po’. Ma quanto tempo perdiamo ogni giorno? (ride) Mia moglie dice che la sua ragione di vivere è cercare di evitare che io combini qualche pasticcio o che mi capiti qualche guaio, perché è inevitabile che ogni giorno me ne capiti una. Fortuna vuoi dire afferrare il momento, e non lasciare che ti fottano». C’è il tempo per un’alra domanda. Gli chiedo: Mister Hoffman, lei è sempre così in vena di filosofia? Lui mi guarda dritto negli occhi. Sembra arrabbiato. Poi si alza. Dall’iPhone fa partire una musichetta da vaudeville e si lancia in un balletto. «E un pezzo dal film che ho appena finito di dirigere», mi spiega. Poi mi da una pacca sulla spalla e se ne va.