Stella Prudente, Sette 8/6/2012, 8 giugno 2012
IL VOTO DEGLI EMIGRATI
COSTA 25 MILIONI DI EURO–
Melbourne. 12 giugno 2011. Trentacinque anni passati a costruire villette nella terra dei canguri, e Graziano Scapinello viene chiamato a esprimere un parere sulla privatizzazione dell’acqua qui in Italia. Per la precisione, il quesito referendario riguarda “modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica - abrogazione”. Lui che raggiunse l’Australia subito dopo la guerra per fuggire la fame di Piombino Dese. E delle sue origini ha conservato solo gli echi del dialetto istriano da cui inciampa continuamente nell’inglese. Non sa nemmeno se adesso ci sono i semafori, dov’è nato. E lo chiede con insistenza al delegato di partito a caccia di voti fra le migliaia di padovani australiani.
Grazie all’incessante, decennale battaglia legislativa dell’ormai defunto Mirko Tremaglia, questo 75enne semi-analfabeta e altri quattro milioni di “cittadini italiani” sparsi per il mondo hanno una vera e propria anagrafe; una riforma costituzionale che garantisce loro una Circoscrizione autonoma; il potere di eleggere per corrispondenza sei senatori e dodici deputati nel Parlamento italiano. I referendum sono compresi nel pacchetto: per quelli dell’anno scorso le schede valide nella cosiddetta Area Estero sono state 692.870 con una spesa di circa 20 milioni di euro, in gran parte destinati a stampa e spedizioni. Quasi 30 euro per ogni voto.
Della Legge 459/2001 si parlò però soprattutto in occasione delle politiche del 2006, quando Prodi vinse sul filo di lana conquistando proprio grazie al voto degli italiani all’estero un’esigua maggioranza al Senato. Le polemiche e le indagini della magistratura sui presunti brogli e la compravendita di voti non hanno mai prodotto una vera e propria riforma di un sistema elettorale che ha, come minimo, notevoli margini di miglioramento. Soprattutto perché alle prossime elezioni, attese nel 2013, per cui Viminale e Farnesina si aspettano un costo di circa 26 milioni, si dovrà aggiungere il voto per il rinnovo dei Comites, ossia gli organismi delegati dalle comunità italiane all’estero ai rapporti con ambasciate e consolati. Soltanto l’elezione di questi comitati costa allo Stato mediamente 12 milioni di euro, e la prossima è prevista entro il 31 dicembre di quest’anno (già in ritardo di tre-quattro anni rispetto alla scadenza). La prima speranza da contribuenti, a questo punto, è che il governo riesca ad accorpare le prossime legislative e il voto per i Comites evitandoci così di pagare 38 milioni per la tutela di questo sacrosanto diritto per gli emigrati.
Che poi, anche sul diritto di voto per tutti gli italiani nel mondo – in base allo ius sanguinis hanno cittadinanza anche quelli di terza o quarta generazione – c’è chi è pronto a discutere: sostenendo che così si passa direttamente dal principio “no taxation without representation”, che portò all’indipendenza degli Stati Uniti d’America, al paradosso costituzionale della “no taxation WITH representation”, voto per il Parlamento italiano ma pago le tasse altrove. È comunque ormai diffusa la convinzione che serva almeno una riforma, non solo per tagliare i costi ma soprattutto per contenere il rischio di brogli. In Parlamento sembrano tutti d’accordo. Le uniche voci contro si levano dai banchi degli eletti nella Circoscrizione Estero.
L’Anagrafe degli elettori. Il primo nodo si chiama Aire o Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, che dà origine alla lista dei potenziali elettori. Facciamo che un giovane ingegnere lasci Napoli alla volta di Buenos Aires e comunichi al municipio partenopeo l’indirizzo di un collega come primo recapito estero. L’anagrafe prende nota del trasferimento e lo riferisce a sua volta al consolato in Argentina. Da lì, per ogni scadenza elettorale, partiranno prima una cartolina con l’annuncio delle consultazioni e poi le schede con cui l’ingegnere dovrebbe votare. Destinazione: la casa del collega. A meno che l’ingegnere non si ricordi di aggiornare il suo indirizzo con una comunicazione alla sede consolare, cosa che non avviene quasi mai. Si è calcolato che ogni anno, per nascite, decessi e trasferimenti di connazionali sbadati, il 10% circa dell’Aire diventa obsoleto. Visto che l’anagrafe
è stata perlopiù messa a regime nel 2006, e poi riaggiornata nel 2008, bene che vada per il 2013 si rischiano un 30-40% di spedizioni a vuoto. N.B. ogni plico elettorale pesa in media 3 etti con relative spese-sprechi postali.
Le schede oltretutto partono senza ricevuta di ritorno, quindi chi intercetta la busta spedita dal consolato all’ingegnere napoletano può votare al posto suo oppure vendersi la scheda al miglior offerente. I parlamentari incaricati del monitoraggio delle operazioni di voto nel 2006 denunciarono, soprattutto per il Sudamerica, un vero e proprio mercato all’ingrosso in cui “un sacco dell’immondizia pieno di schede valeva 100 euro” come ricorda il sindaco di Verbania Marco Zacchera che, prima di lasciare Montecitorio, pochi mesi fa era presidente col Pdl del Comitato parlamentare italiani nel mondo. E in effetti numerosi furono i casi pittoreschi di cui si parlò, nel 2006, in occasione dello spoglio delle schede a Castelnuovo di Porto, che fu per l’Unione prodiana un po’ come la Florida della prima elezione di George W. Bush. Qualcuno ricorderà le foto scattate in un garage di Liegi con montagne di schede evidentemente “deviate” dall’ordinario circuito di corrispondenza. O ancora la curiosa costante di una croce segnata a pennarello arancione sempre sullo stesso nome, decine e decine di volte in un sacco di buste provenienti dal Nord America. E ancora, una partita sospetta di schede per la Camera stampate in due tonalità diverse: il tipografo statunitense era imparentato con una candidata del centrosinistra.
La stampa delle schede. Sì, perché dopo l’Aire la “seconda criticità”, come la chiamano ormai i diplomatici, del voto degli italiani nel mondo è la stampa delle schede elettorali che al momento deve avvenire all’estero sotto responsabilità dei consolati. «L’attuale procedura basata sulla corrispondenza è macchinosa, costosa e palesemente insicura» commenta Enrico De Agostini, presidente del sindacato diplomatici (S.N.D.M.A.E.). «Razionalizzarne le spese», aggiunge, «significherebbe anche liberare le nostre ambasciate e i nostri consolati da compiti che sottraggono importanti risorse umane e finanziarie al sostegno delle imprese, ai contatti politici, alla promozione della cultura italiana». La crisi economica potrebbe essere un’ottima occasione per modernizzare. Gli inglesi, per dire, chiedono a chi vive all’estero, e vuole votare, di “registrarsi” online o per corrispondenza. Potrà partecipare all’esercizio elettorale solo chi è stato iscritto ai registri elettorali in patria negli ultimi quindici anni. I francesi hanno inaugurato il voto online per i connazionali espatriati proprio con le elezioni politiche di questi giorni. Da noi, invece, il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica racconta di un Parlamento paralizzato, sia sulla riforma dei Comites che su qualsiasi altro tipo di modifica del voto all’estero. «L’amara verità», osserva il senatore, «è che, pur difendendo il diritto di voto e nel massimo rispetto per Tremaglia, nei fatti, per le modalità di voto e per i meccanismi che ha messo in moto questo sistema non può più andare avanti così com’è. Servono scienza e coscienza da parte del governo, dei partiti e degli italiani eletti all’estero».
Voto “informatizzato”. Alle Camere le proposte non mancano: per razionalizzare l’Aire, rendere obbligatoria l’iscrizione al voto, ridurre il numero di parlamentari, eliminare le preferenze o anche soltanto informatizzare il voto. Oltre alla crisi, dovrebbero spingere in questa direzione anche gli scandali che negli anni hanno travolto alcuni “eletti”: non ultimi quelli dei senatori Di Girolamo, coinvolto in un’inchiesta di corruzione e riciclaggio, e “Cacho” Caselli che rivendicò pubblicamente la poltrona di sottosegretario per aver sostenuto Berlusconi nel voto su Ruby... «Il problema», ammette Mantica, «è che si vanno sempre a intaccare questioni molto complesse che si chiamano patronati, distacchi sindacali, aree di consenso. E quello che emerge, alla fine, è che votano all’estero soprattutto gli italiani che non si sono saputi inserire nelle loro nuove realtà». Per l’esponente del Pdl, insomma, «fa di più per gli italiani d’Australia un italo-australiano che diventa ministro lì, magari con la delega per la cultura o l’integrazione, di un senatore che dall’Australia viene a Roma due volte al mese facendosi venti ore d’aereo andata e ritorno». Esempio calzante e attuale: la giovane neo-ministra della cultura francese Aurélie Filippetti, il cui nonno italiano emigrò per andare a lavorare in miniera. «Il ministro parla perfettamente la nostra lingua, rivendica con orgoglio le sue origini», fa notare Mantica, «verrebbe da chiederle: Madame, lei nella sua vita ha mai votato per i Comites o per un referendum in Italia?».
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