Fabio Cavalera, Sette 8/6/2012, 8 giugno 2012
IN IRLANDA
LA COMMEDIA È ALL’ULTIMO ATTO–
«Spinti con le spalle al muro che cosa potevamo scegliere?». Per l’abate Mark Patrick Hederman gli irlandesi hanno ragionato in modo semplice e pragmatico quando, al referendum di settimana scorsa, si sono pronunciati sul patto fiscale europeo. Tormentati dal terrore di precipitare nel caos come la Grecia e dalla paura di sopportare per lungo tempo gli effetti di una durissima austerità, hanno ingoiato il boccone amaro. «Se fosse prevalso l’istinto sono certo che i no all’Europa della signora Merkel avrebbero vinto». Ma i conti con la realtà occorre pure farli. Una bocciatura delle regole sulla finanza pubblica avrebbe comportato l’esclusione dai fondi comunitari e dalle prossime trattative per ossigenare l’economia con nuovi stimoli in mezzo a tanto rigore. Così, col cuore ferito, l’Irlanda ha deciso di non tirarsi la zappa sui piedi.
L’Economist l’ha descritta come “una battaglia fra sentimenti contrastanti”: da un lato c’era la consapevolezza del legame stretto con l’Europa (il 60,2% dell’import-export è con l’Unione dei 27, rivelano i dati di Euromonitor International), dall’altro c’era però l’irritazione per un piano di lacrime e sangue, sostanzialmente imposto da Berlino, che lascia l’ex Tigre Celtica a corto di fiato. La fotografia sociale ci dice e conferma che la disoccupazione viaggia attorno al 14,5% (fonti Euromonitor e Ocse) e fra i giovani è addirittura al 30, che i consumi sono in costante discesa dal 2008 (anche quest’anno meno 1,5), che nel settore pubblico le retribuzioni sono state tagliate del 15% e i posti di lavoro sono calati di 15 mila unità. Che fare?
Presi dal dubbio, nell’urna gli irlandesi hanno virato verso il male minore: il “sì” al “fiscal compact”. E le capitali europee hanno tirato un respiro di sollievo. Tecnicamente il via libera da Dublino non era necessario (basta che il patto riceva l’assenso di 12 dei 17 membri dell’eurogruppo) ma le ricadute di un clamoroso “no”, suggerito dal Sinn Fein di Gerry Adams (ex braccio politico dell’Ira), avrebbero provocato scossoni violenti a livello internazionale. La conclusione è stata che la maggioranza degli irlandesi (quasi il 60% dei votanti) ha tirato il freno a mano.
L’ostacolo referendum, temutissimo alla vigilia, è ora alle spalle, però il caso Irlanda resta una mina vagante per i già precari equilibri dell’Europa. Dublino stenta a risollevarsi: da quattro anni sperimenta una medicina amara di tagli e tasse ma la febbre del malato resta sempre alta. Paul Krugman, il premio Nobel dell’economia, l’ha indicata, l’Irlanda, a esempio del non risolutivo rigore targato Merkel: «Uno scolaretto che applica gli insegnamenti sbagliati». I numeri sono impietosi, nonostante la cura.
Manovre straordinarie. Nel novembre 2010 il governo irlandese (allora guidato dai centristi del Fianna Fail) chiese e ottenne dall’Ue e dal Fondo Monetario Internazionale 85 miliardi di euro per non fallire. In cambio s’impegnò a potare il suo bilancio con una manovra straordinaria da 30 miliardi, che è una cifra spaventosa per un Paese di 4,5 milioni di abitanti: significava drenare il 20% del suo prodotto interno lordo attraverso la riduzione della spesa pubblica e attraverso l’imposizione di una tassazione straordinaria (senza toccare il tributo sugli utili delle aziende, bloccato al 12,5%, per non penalizzare la produzione industriale).
Non c’era altra soluzione, Dublino nel 2010 precipitava e rischiava di portarsi dietro l’Europa. Il debito pubblico che nel 2005 era appena il 27,1% del prodotto interno lordo era in vertiginosa ascesa e toccava il 98,4%. È poi salito nel 2011 al 114,1% e nel 2012 al 121,6. L’obiettivo è stabilizzarlo sul 125% a partire dal 2013 (dati Ocse). Il deficit pubblico, proprio mentre si discuteva il salvataggio, superava il 32% del Pil. Fu concordato di ridurlo al 10,1 nel 2011, all’8,6 nel 2012 e di riportarlo al di sotto del 3 entro il 2015. Servivano e servono interventi drastici. La missione non è compiuta.
Dublino oggi vuole liberarsi in fretta dalla condizione di “vigilato speciale” sottoposto al regime dettato dall’Europa della cancelliera Merkel. Ma occorrono due condizioni perché ciò avvenga. Uno: che l’austerità con qualche correttivo continui a mordere. Due: che il nuovo governo di Enda Kenny (un’insolita coalizione fra il centrodestra del Fine Gael e il centrosinistra laburista che ha vinto le elezioni nel 2011) rinegozi il percorso di riduzione del deficit e il costo del debito, i tassi che si pagano sui prestiti ottenuti da Ue e Fondo Monetario, un vero e proprio macigno che pesa sui conti.
La cura giusta. Il sentiero è pieno di tornanti in salita. «Prescrivere la riduzione del deficit per accomodare gli squilibri della nostra economia è come prescrivere la chemioterapia a un malato di cuore». Il pensiero del professor David McWilliams, università di Dublino, è condiviso da molti.
Dal 2008 gli irlandesi stringono la cinghia. Hanno accettato (sono stati i primi) l’austerità senza protestare e con la speranza di riprendere il cammino della crescita. Poco alla volta i sogni si sono infranti. Oggi vorrebbero che il vangelo della severità venisse riformulato. Hanno votato “sì” al referendum però appena un paio di mesi fa una famiglia su due (805 mila su 1 milione e 600 mila) si è rifiutata di pagare una tassa straordinaria di 100 euro sulla proprietà. «Quel boicottaggio è stato un duro colpo all’autorità morale dell’esecutivo». Così sostiene Elaine Byrne,
professore del Trinity College di Dublino. Lo sciopero fiscale ha lasciato il segno. Il messaggio è chiaro: va bene la politica del rigore ma adesso è ora di battere altre strade. Resta da chiedersi: è possibile?
Quello dell’Irlanda è un capitolo da manuale sulla crisi che si è aperta in Europa. Dal 1988 al 1999 il Paese ha seguito, fra alti e bassi ciclici, un percorso di sviluppo forte ma controllato. Il boom, quello che poi l’avrebbe definita come la Tigre Celtica, è avvenuto fra il 2000 e il 2008. Il Pil saliva a ritmi cinesi (quasi il 10% annuo) e il reddito pro capite era divenuto il secondo in Europa dopo il Lussemburgo. Le aspettative di ricchezza e il cinismo hanno gonfiato a dismisura la bolla. Le famiglie solleticate dall’idea di comperare una casa pur non avendone le risorse si indebitavano. Le banche concedevano crediti senza garanzie e come prestigiatori in malafede li trasformavano in titoli negoziabili: il rischio si spostava sul mercato. I “pifferai immobiliari” cementificavano confidando nel rialzo della domanda e dei prezzi. Una catena di illusioni e di imbrogli, zero controlli.
Bomba a orologeria. Il simbolo di questa abbuffata è nella contea settentrionale di Leitrim: qui, fra il 2006 e il 2009, sono state costruite 2.495 case a fronte di una domanda per 588. In tre anni l’offerta ha superato la domanda del 401%. Adesso sono scheletri in mezzo alle campagne. In tutta l’Irlanda sono 300 mila gli edifici abbandonati. L’overdose di mattone, una spirale perversa. E non poteva che finire male. Una volta che i prezzi delle case sono cominciati a scendere e le famiglie non hanno onorato i debiti, le banche irlandesi (la Anglo-Irish in testa) sono saltate. Il governo, nell’autunno 2008, per salvarle e nazionalizzarle ha investito 100 miliardi di euro. Conseguenza inevitabile ne è stata che la crisi finanziaria, provocata dall’eccesso di debito privato, si è trasformata in una crisi del debito sovrano, del debito pubblico. Dublino non ha avuto altra scelta che allargare i cordoni della sua spesa e, a sua volta, indebitarsi per impedire che gli istituti di credito si disintegrassero.
Una tragedia in tre atti. Il primo: quello della folle corsa alla casa, al mutuo, alle speculazioni immobiliari e alle furbizie bancarie. Il secondo: lo Stato che tampona il buco e, per soccorrere le banche, manda in tilt i suoi conti. Il terzo: l’Europa che impone la nuova linea di austerità con tagli feroci alle spese e tagli al lavoro.
Quale sarà il quarto atto? L’Irish Fiscal Advisory Council, un organo di controllo indipendente, stima che siano necessari nuovi interventi pari a 400 milioni di euro per abbassare il deficit di bilancio all’8,6% del Pil nel 2012. Il che significa sforbiciare ancora. Gli irlandesi non ne possono più: hanno votato sì al patto fiscale per necessità e per calcolo. Ma questa Europa tutta rigore a loro piace sempre meno. Lo dimostra la circostanza che un elettore su due ha disertato l’urna referendaria. Chiedono di rinegoziare gli accordi con le Ue. I segnali da Berlino sono pessimi. È una bomba a orologeria.
Fabio Cavalera
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