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 2012  giugno 08 Venerdì calendario

CONDANNATA ALLA RIVINCITA

E AL RINNOVAMENTO–

Gli Europei di calcio che cominciano non sono mai stati la nostra gara. Arriviamo di solito con una squadra troppo vecchia dopo ottimi mondiali o troppo nuova dopo mondiali pessimi. Così li abbiamo vinti una sola volta, nel ’68, negli stessi giorni in cui gli studenti francesi erano in strada a Parigi aspettando un futuro che non arrivò. Era l’Italia di Facchetti, di Riva e Rivera, del siciliano Anastasi appena acquistato dalla Juve per dare un senso di appartenenza agli operai meridionali della Fiat. Ed erano Europei semplici, con partite sparse per tutto il continente. Le finali si giocarono in Italia con sole quattro squadre. Noi avemmo fortuna nella prima partita contro la Russia. Si giocò a Napoli e finì uno a uno, dopodiché i due capitani, Facchetti e Scesternev, entrarono nella stanza dell’arbitro Tschenscher, tedesco orientale, per la cerimonia del sorteggio. Molto semplice, si tirava in aria una moneta, il vecchio testa o croce. Solo che allora non c’era l’euro, le monete erano tante, prima bisognava scegliere quale. Erano in corsa il rublo, la lira e il franco francese. Scesternev fece scegliere a Facchetti che decise per il franco. Scelse anche la faccia della medaglia, quella con la scritta Liberté. L’arbitro tirò la moneta in aria e come avessero già visto, dentro lo stadio ottantamila tifosi napoletani si misero a gridare sventolando bandiere tricolori. A volte la suggestione aiuta anche le monete. Il mondo pensò che era stato un sorteggio truccato, perché il mondo non cambia mai, adora l’idea dei complotti. In realtà aveva semplicemente scelto bene Facchetti. In finale trovammo la Jugoslavia di uno straordinario campione dimenticato, Dragan Dzajic, ala sinistra, punta unica, tiro e dribbling, oggi varrebbe quanto Cristiano Ronaldo. Gli jugoslavi sono i brasiliani d’Europa, hanno fisico e tecnica, ma raramente reggono la grande partita. In quella prima finale pareggiammo a dieci minuti dalla fine con un tiraccio di Domenghini da fuori area. Si dovette rigiocare 48 ore dopo, questa fu la fortuna. Valcareggi, vecchio apologeta del semplice, cambiò modulo e formazione con la scusa della stanchezza. Entrò la nazionale che sarebbe arrivata fino ai mondiali del Messico, e in mezz’ora vinse il suo unico Europeo. Non vincevamo niente da trent’anni, da quando l’Italia di Pozzo si era confermata campione del mondo in Francia. E non avremmo vinto più niente fino all’82. Ma quelli erano i favolosi anni Sessanta, c’erano state le Coppe dei Campioni di Rocco ed Herrera, avevamo appena inventato un modo di giocare che avrebbe fatto storia. Non sapevamo che gli olandesi ci avevano già superato. Eravamo ricchi e innocenti, sentivamo il futuro sulla pelle. Meritavamo la fortuna che indubbiamente avemmo in quegli Europei.
L’Italia che arriva 44 anni dopo è una squadra nuova, nessuno sa davvero cosa significhi tecnicamente. Noi pensiamo sia forte perché vediamo Pirlo e ci fidiamo di Cassano. Ma la Turchia, per esempio, un Paese importante con un campionato importante, non pensa mai di essere inferiore agli altri. Parte sempre nella convinzione di essere la migliore. Forse noi siamo in quella stessa atmosfera, un po’ incapaci di conoscerci fino in fondo nel momento più atipico degli ultimi cinquant’anni. Per la prima volta poveri, per la prima volta invasi. I due terzi dei nostri giocatori sono stranieri. Per fare l’Italia si può contare su non più di quaranta-cinquanta nomi. Il vantaggio è che per quasi tutti è così. Questo porta a conseguenze estreme, la condanna al rinnovamento e alla rivincita. Questo è anche il senso del torneo che sta per nascere. Una massa di nuovi giovani che arrivano accanto a un popolo di atleti che cerca un’altra occasione. Forse è solo la storia della vita, ma certo stavolta è evidente.

Il mondo che avanza. L’Italia ha due giocatori neri, Balotelli e Ogbonna. Mai successo. Hanno 44 anni in due. Sono un mondo che avanza quando quasi non c’eravamo accorti fosse nato. C’è il giovane Borini, uno strano giocatore che passa gli avversari come fosse una particella elementare, senza dribblarli, solo con la velocità del movimento nello spazio. C’è il piccolo Giovinco, un metro e sessantaquattro, cinque centimetri meno di Messi, la conferma che il calcio è il gioco di chiunque, non serve fisico, non serve altezza, solo saper gestire l’attrezzo alla più alta velocità possibile. C’è questo forte tentativo di rinnovamento che sale da tutto il continente. Perché le nazionali sono le rivincite contro la globalizzazione, l’orgoglio di un’appartenenza in un mondo solo universale. L’Italia spinge forte sulla voglia del nuovo, rispetto ai mondiali di due anni fa Prandelli ha cambiato 14 giocatori su 23. Ma allo stesso modo comanda per tanti il bisogno di rivincita. Da Cassano a Rooney, grande e imperfetto, una macchina che non riesce a trascinare l’Inghilterra. Passando per Cristiano Ronaldo, altro bravo in mezzo ai bravi, non ancora capace di contare da solo. O Ibrahimovic, che con la Svezia non ha il dovere di vincere, ma di fare qualche differenza sì. In fondo gli Europei sono il torneo che può conquistare chiunque, nove vincitori diversi su tredici edizioni, dalla vecchia Urss alla Cecoslovacchia, dalla Danimarca alla Grecia. I danesi, nel ’92 riuscirono a vincere senza nemmeno essersi qualificati. Sostituirono all’ultimo istante la Jugoslavia che si stava spezzando nella guerra. Furono avvertiti dieci giorni prima dell’inizio, erano già tutti in vacanza, molti dalle parti di Rimini. Penso al bisogno di rivincita di Robben, straordinario e disordinato artista a cui il calcio chiede troppo. Avendo il blu di Picasso e il marrone di Rubens, si pensa abbia anche tutti gli altri colori, così stecca sul facile. Con un rigore sbagliato ha perso il campionato tedesco e con un altro ha perso la Champions League. La gente ora lo fischia per strada come fosse un criminale e invece resta uno dei primi cinque attaccanti in Europa. Penso al bisogno di dire qualcosa di vero da parte di Sneijder, di Nasri, del polacco di moda Lewandowski, di Keane, di Giraud, di Torres. Penso a un torneo che in fondo al suo equilibrio certosino e un po’ monotono tornerà a dire la verità sul calcio dei paesi e non su quello delle squadre. Nessuno inventerà niente in Polonia e Ucraina, ma tutti finiranno per raccontare il loro modo moderno di vivere insieme giocando. Mancherà lo spettacolo del mondiale, quel grande teatro di razze e di metodi per interpretare il calcio. Qui potremo divertirci a cercare le differenze nei particolari, non nel quadro d’insieme. Siamo fondamentalmente tutti molto simili, molto vicini, come si conviene a una lunga terra che almeno nel calcio è da tempo una cosa sola.
Mario Sconcerti
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