Aldo Grasso, Sette 8/6/2012, 8 giugno 2012
L’ILLUSIONE DEL PESCIVENDOLO
l film Reality di Matteo Garrone, che a Cannes ha ricevuto il Gran Premio della Giuria, pone un bel problema teorico su quell’aspirazione molto diffusa a conquistarsi un po’ di ribalta. Com’è noto, il film racconta di un pescivendolo napoletano, sposato, con tre figli e contornato da una grande famiglia di zii, fratelli e cugini che, spinto dai parenti, si presenta alle selezioni per Il Grande Fratello. Sicuro di essere stato scelto, inizia una dolorosa via Crucis scivolando nell’ossessione e poi nella follia. Si convince di essere “osservato” dalle telecamere e, in attesa della “chiamata”, vende la pescheria, regala le sue cose ai poveri, si chiude in casa incollato a un gigantesco televisore che rimanda immagini del reality che nel frattempo è iniziato senza di lui.
L’uomo qualunque. Atto d’accusa, favola onirica, commedia, grande metafora: qualunque cosa sia il film di Garrone, al centro c’è la grande illusione del pescivendolo, quella di diventare famoso.
Da quando sugli schermi televisivi sono comparsi i primi reality, è stato tutto un susseguirsi di accuse e rimproveri: il reality è trash, stimola comportamenti sbagliati, inebetisce gli spettatori nel voyeurismo più bieco. Il reality, infatti, cerca di traghettare storie di gente comune, di farle uscire dall’anonimato in cui generalmente vivacchiano, di portarle alla ribalta del video e farle esplodere.
Ora, la cosa più curiosa è che l’interprete principale del film di Garrore non è un attore, è un ex detenuto, Aniello Arena. La domanda che uno potrebbe porsi è questa: ma un carcerato che diventa famoso con un film non è esattamente come uno che diventa famoso con un reality? Che differenza c’è?
Saranno famosi. La storia del cinema italiano è piena di attori presi dalla strada, da Zavattini-De Sica a Olmi, a tanti altri registi. Sarebbe interessante che un giorno qualcuno scrivesse la storia di questi “attori presi dalla strada”: in che modo sono diventati famosi, quanti hanno continuato a recitare, che fine hanno fatto gli “sconfitti”, come è stato superato il trauma del passaggio dall’anonimato alla notorietà, che responsabilità hanno avuto i registi.
Mi immagino la risposta: l’attore preso dalla strada non è uguale al concorrente del reality perché la sua redenzione avviene nel nome dell’arte. Ma proprio qui si annida tutto il moralismo e l’ipocrisia di questa presunta differenza. Il povero Pietro Taricone aveva qualcosa in meno di Aniello Arena? E chi stabilisce la patente di artisticità? Uno “spostato” sarà meno spostato se a soffiare è l’aura del cinema?