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 2012  giugno 06 Mercoledì calendario

IL CORAGGIO DEGLI EUROBOND PER CREARE LA «GRANDE EUROPA»

La moneta è un simbolo, una rappresentazione più o meno oggettiva delle performance economiche e sociali, uno strumento di speculazione e un possibile mezzo di regolamentazione mondiale. Il passaggio alla moneta unica è un cambiamento veramente radicale, e ciò contribuisce a farci valutare le attuali difficoltà. Dal 1999 al 2007 i risultati ottenuti dall’Unione economica e monetaria sono stati molto apprezzabili. Il tasso di crescita è stato in media un po’ superiore al 2 per cento, si sono creati 12 milioni di posti di lavoro, si è attuata una maggiore integrazione della zona in materia di investimenti e di scambi commerciali. Ma - come avevo fatto presente invano, già nel 1987 - c’era un anello mancante: la cooperazione. Torno dunque a parlare di "trittico", fatto di competitività, cooperazione, solidarietà. Il polo monetario è costituito dalla Banca centrale europea, con un sistema ben strutturato di banche centrali nazionali. di Jacques Delors Mancava il polo economico. Avevo pertanto proposto, nel 1997, che al patto di stabilità monetaria si affiancasse un patto di coordinamento delle politiche economiche. Ma la mia proposta fu respinta. Ci si accontentò di aggiungere alla definizione di Patto di stabilità la parola "crescita". I politici subiscono davvero il fascino delle parole. In realtà, quello era un patto di stabilità di bilancio puro e semplice: senza coordinamento economico, senza strumenti di incentivo, di cooperazione o di regolamentazione. Da parte mia nel 2000 sono giunto alla conclusione che l’euro protegge, ma non stimola. Perché? Rammentiamoci della strategia di Lisbona del 2000: l’Europa - malgrado i progressi che ho ricordato - non ha acquisito un potenziale di crescita e di innovazione tale da poter permettere di garantire la sua sopravvivenza e il suo ascendente nel mondo, così come esso va trasformandosi. Con un pizzico di cattiveria, avevo anche aggiunto che l’euro protegge perfino le stupidaggini commesse da alcuni paesi. La crisi finanziaria Tutto procede senza gravi incidenti fino al momento in cui subentra la crisi finanziaria internazionale. A quel punto sulla faccia dell’Uem appaiono le prime rughe, dovute per lo più a un eccesso di indebitamento. Ma non si tratta soltanto di indebitamento pubblico: c’è di mezzo anche l’indebitamento privato. La crisi spagnola e quella irlandese sono state la conseguenza degli eccessi dell’indebitamento privato. Quanto alla governance, a partire dal momento in cui si è palesata la crisi, è stata catastrofica. L’Uem è intervenuta troppo tardi e ogni volta che è intervenuta ha fatto sempre troppo poco rispetto all’evolversi della situazione. Ce la si può cavare accusando i mercati e gli speculatori, ma a questo mondo non ci sono soltanto gli speculatori: ci sono anche coloro che gestiscono gli enormi fondi pensionistici o assicurativi. Questi responsabili tengono d’occhio tutti i giorni l’evolversi dei mercati. Gli esperti si chiedono che cosa farà l’Uem, e dalle loro risposte si hanno cinque o sei pareri diversi. Come è possibile che in simili circostanze ci sia un’opinione unica, sicura e realistica, che plachi le paure e disinneschi le speculazioni? Le esigenze di una moneta unica - sottolineate in ogni caso dal rapporto preliminare del comitato di esperti (il cosiddetto "Comitato Delors"), adottato nel 1989 - sono state politicamente e tecnicamente ignorate o sottovalutate. Per essere in grado di reagire in tempo utile e con i mezzi giusti, facendo buon uso della volontà pubblica occorre una delega più ampia della sovranità per coloro che decidono e che eseguono. Ma fino a che punto? E in che misura? E in quali proporzioni, tenuto conto della diversità delle situazioni nazionali e dell’attaccamento ad alcuni diritti acquisiti? Quali strumenti per la convergenza È utile ricordare infatti che nell’Uem non esiste un modello socio-economico unico. Anche l’andamento demografico è diverso da Paese a Paese. Se fossi membro della Commissione, potrei emanare leggi generali per la pensione, valide in ogni Paese? Ovviamente no. Con quali istituzioni complementari si può osservare una certa convergenza delle politiche economiche o la regolamentazione necessaria della moneta e del mercato dell’euro? E con quale schema istituzionale, che risulti più semplice, più efficace, più coerente? Vorrei sintetizzare questo punto che è veramente decisivo. La crisi internazionale non è finita. Neppure la crisi della zona euro è conclusa. E mentre scrivo anche i mercati e la speculazione sono in agguato. Oggi il tasso dei rendimenti in Spagna, i prestiti di Stato, continuano ad aumentare, tanto che il tasso tedesco è notevolmente inferiore. Insomma, non c’è nulla di regolato. Alcuni continuano a operare le speculazioni che ci assillano. Ma non serve a nulla lanciarci in futili discussioni. Occorre trovare le risposte giuste. A mio parere, le si può trovare in una riflessione a uno stesso tempo istituzionale ed economica su quello che l’Uem potrebbe essere. C’è un punto che avevo sottovalutato nel rapporto del 1989, come pure nel mio operato di presidente della Commissione. Non avevo tenuto sufficientemente conto di quanto un mercato unico con una moneta unica avrebbe inasprito così tanto le divergenze tra gli Stati membri. E tutto ciò, nonostante l’entità considerevole agli aiuti per la coesione economica e sociale. Si potrebbe dire, in certa qual misura, che è tutta colpa degli Stati in difficoltà. Occorre porre rimedio a questa frattura nello spirito della coesione economica e sociale, ma farlo con i mezzi specifici per i paesi della zona euro, in quanto non si può parlare di competitività, secondo dati identici, per Grecia, Spagna, Germania e così via. Come si può pretendere che Grecia e Spagna adottino il modello tedesco, un modello storico che si basa per altro sulle grandi qualità del popolo tedesco e su alcuni principi fondanti del punto di vista dell’amministrazione e della dinamica economica? Se si vuole continuare a convivere, è indispensabile dar prova di coraggio, a uno stesso tempo istituzionale e amministrativo, dal punto di vista economico, e ammettere che si tratta di un’unione che evolve verso una certa convergenza pur tenendo conto di talune differenze. In altri termini, all’interno dell’Uem si rende necessario uno sforzo particolare di cooperazione e aiuto, nello stesso spirito della coesione sociale ed economica, messa in atto per dar vita al mercato unico. Si consideri per esempio la riluttanza della Finlandia a fare un gesto di solidarietà senza contropartita nei confronti della Grecia. Ma anche in altri paesi possiamo constatare riserve della medesima natura. Si tratta quindi di un problema più generale, in quanto assistiamo a un ritorno al nazionalismo rampante, che fa comodo alle leadership che così riescono ad abbindolare le opinioni pubbliche e al contempo sottovalutano i vantaggi dell’Unione. Lo ripeto spesso: l’Europa ormai può scegliere soltanto tra due opzioni, la sopravvivenza o il declino. I problemi dell’euro hanno tenuto in secondo piano tutti gli altri problemi europei, per esempio le prospettive di bilancio, l’ambiente, i problemi delle politiche di vicinato, i nuovi possibili allargamenti. Si impone dunque un riequilibrio di ogni cosa, a prescindere da quanto sia grave la crisi dell’euro. La via della cooperazione rafforzata Ma va affrontato anche un altro ambito della governance: la differenziazione. Integrazione differenziata non è sinonimo di Europa a più velocità. È soltanto la constatazione che in un dato momento alcuni Paesi andranno più avanti nella sovranità condivisa, in modo tale da trascinare tutta la compagine europea, sempre nel rispetto delle regole dell’Unione a Ventisette. In questo non c’è nulla di nuovo: gli accordi di Schengen e l’euro sono esempi di integrazione differenziata. Ora vi è inoltre una base istituzionale: ovvero la cooperazione rafforzata che era già prevista nel trattato di Amsterdam. La cooperazione rafforzata permette a un gruppo di Paesi di infondere dinamismo nella costruzione europea. Il primo atto di coraggio dell’Uem, pertanto, sarebbe quello di farne veramente una cooperazione rafforzata, nel senso istituzionale del termine. Questa visione e questo metodo non sono ancora accettati da tutti i paesi membri, tra i quali in qualche caso anche i più importanti. Si tratta di un problema grave per l’Europa. Secondo me, e per semplificare, nei dieci anni a venire si prospettano come possibili due strade, strettamente interconnesse tra loro: la "grande Europa" - in quanto nuovi allargamenti sono pur sempre auspicabili e possibili - e la collaborazione rafforzata dell’Uem. Questa visione è a uno stesso tempo ambiziosa e modesta. È ambiziosa perché aspirerebbe a fare dell’Europa allargata una sorta di punto di riferimento per qualsiasi tentativo di organizzazione nel mondo o su scala mondiale. Ci fu infatti un momento in cui l’Associazione delle nazioni dell’Asia sud-orientale (Asean) ci chiese di spiegare quello che voleva dire «collaborazione» in Europa. E così l’Unione del Maghreb arabo, e l’esperienza di Mercosur. Mi pare quindi che la "grande Europa" sia anche un modo per testimoniare - nel momento stesso in cui tutti parlano di regolamentazione mondiale - la necessità di tali regole mondiali e di dire: «Eccoci qui, noi siamo riusciti con gli Stati sovrani a dar vita a un’unione che consente di vivere meglio, di essere più efficaci e di capirci tra noi, rispettando il primato della legalità». Altro elemento essenziale per il progresso è chiarire le competenze. Il grande rimprovero che ho mosso al Trattato di Lisbona è quello di non aver distinto in modo chiaro tra le competenze europee e le competenze nazionali. Anche se cercano di convincermi dell’utilità delle competenze condivise, resto persuaso che occorra limitarne l’ambito, se non altro perché i cittadini capiscano chi fa cosa . Infine, io accordo una notevole importanza al "voler vivere insieme", con le indispensabili politiche di accompagnamento del mercato comune, pietra angolare dell’edificio europeo. Non si deve considerare tale volontà semplicemente in termini economici, o in termini di scambio o ancora in termini commerciali. Accettare l’interdipendenza significa costruire uno dei pilasti del nostro "voler agire insieme", premessa indispensabile del nostro "voler vivere insieme". Per ritornare dunque a quella che io chiamo la "grande Europa", che aspira ad altri allargamenti, ne ho una visione anche modesta perché non si tratta di passare a un federalismo classico, che del resto non sarebbe neppure accettato. D’altronde, questa grande Europa non pretende di governare il mondo, anche se abbiamo un passato glorioso. Mi riferisco a Vaclav Havel, che ha tradotto meglio di chiunque altro questa visione di un’Europa forte e influente. Egli spiega che l’Europa non deve più avere l’idea o la nostalgia di dominare il mondo, bensì l’ambizione di essere d’esempio e di mostrare la strada verso la pace e una maggiore comprensione tra i popoli. Che bello un ideale di questo tipo per la grande Europa. La leva degli eurobond Per l’Uem occorre un’integrazione rafforzata sul piano fiscale e in certi ambiti sociali, ma con le riserve da me già espresse in relazione al rispetto di talune diversità. Noi dobbiamo creare gli strumenti ad hoc che ci consentano di conseguire una maggiore cooperazione e una maggiore solidarietà: un fondo di regolamentazione congiunturale, un programma di aiuti all’innovazione e allo sviluppo sostenibile, strumenti finanziari come gli eurobond. Un sapiente e ragionevole uso degli eurobond consentirebbe di contribuire al finanziamento di progetti comuni e darebbe vita a un mercato delle assunzioni ed erogazioni dei prestiti che rafforzi il ruolo internazionale dell’euro. Per quanto riguarda l’efficacia, però, mi vedo costretto a ribadire una volta di più l’importanza del voto a maggioranza qualificata. A questo proposito vorrei citare Tommaso Padoa Schioppa - uno dei miei maestri, purtroppo scomparso -, che diceva che «la paralisi provocata dal diritto di veto non è un’imperfezione dell’Unione, ma semplicemente una mancanza di unione. La capacità di prendere una decisione - e questo è il paradosso di qualsiasi unione - esiste soltanto quando si è capaci di decidere anche se si è in disaccordo». Queste parole sono fondamentali per riflettere sul nuovo contesto istituzionale dell’Uem, lasciando alla Commissione il diritto di iniziativa. Nelle due ipotesi prospettate, io sono favorevole a un maggiore federalismo. Per la grande Europa, una Federazione di Stati-nazione, e per chi appartiene all’Uem, un’integrazione più avanzata, che comprenda a uno stesso tempo quella economica, quella monetaria e una parte di quella sociale. Come realizzare questo equilibrio tra regole e politica? Anche l’Uem, infatti, ha bisogno di regole. Senza maggiore federalismo, però, come riuscire a dar vita a una maggiore cooperazione, una maggiore solidarietà, una maggiore coerenza, una maggiore semplicità, una maggiore trasparenza? In conclusione, per garantire il futuro dell’Uem è indispensabile un po’ di coraggio istituzionale, economico e politico. Il cambiamento monetario è più radicale di qualsiasi altro. I nostri dirigenti ne sono consapevoli. Ma avranno la forza politica di farlo? (Traduzione di Anna Bissanti)