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 2012  giugno 07 Giovedì calendario

L’INVENTORE DEL FUTURO

«Nulla si sa, tutto s’immagina», diceva Federico Fellini. E nessuno, nella letteratura americana del Novecento, ha messo l’immaginazione al potere più di Ray Bradbury, morto ieri a Los Angeles all’età di 91 anni. È giusto che, molto fellinianamente, la vita del Bradbury scrittore sia cominciata in un circo di paese. Quando nel 1932 il piccolo Ray, dieci anni, incontrò alla fiera di Waukegan, Illinois, il mago Mr. Electrico, che ogni giorno si faceva mettere sulla sedia elettrica sopravvivendo — tra le grida del pubblico pagante — a scariche immani, con le scintille che gli uscivano dalle orecchie. E poi con la bacchetta dava l’investitura di mago (ad alto voltaggio) a un bambino tra il pubblico. Quel giorno, era estate, toccò a Ray: Mr. Electrico lo toccò, «mi si rizzarono i capelli sulla testa, e capii che la mia vita in quel momento era cambiata per sempre». Pochi giorni dopo i suoi genitori, inseguiti dalla povertà della Grande Depressione, trasferirono la famiglia in Arizona in cerca di lavoro e regalarono al piccolo Ray una macchina per scrivere giocattolo. Lui si sedette al tavolo della cucina e immaginò una storia. «Da quel momento — spiegò Bradbury esattamente settant’anni dopo — non ho più smesso di scrivere».
Dalla prima rivistina autopubblicata, neppure ventenne, a Los Angeles, dove faceva il giornalaio al mattino, il lettore voracissimo e autodidatta al pomeriggio alla biblioteca municipale, lo scrittore di notte, fino alle prime storie di fantascienza, e poi Cronache marziane, Fahrenheit 451, L’Uomo illustrato, La morte è un affare solitario. Storie di fantascienza, di delitti, di misteri, di baseball, della sua infanzia tra i prati dell’Illinois: sogni del futuro prossimo «che arrivò qualche anno dopo, io credevo che ci mettesse decenni»: ha immaginato (inventato?) il televisore a schermo piatto (in Fahrenheit 451), il miniregistratore walkman (per stessa ammissione di un ingegnere della Sony negli anni 70), l’auricolare bluetooth. I tatuaggi interattivi de L’Uomo illustrato che prefigurano la nanotecnologia. Ha capito negli anni 40 che il futuro sarebbe stato fatto di auto velocissime, «killer più pericolosi della bomba atomica, basta vedere il numero delle vittime»; appena vide la prima tv in bianco a nero a sette pollici, poco dopo la guerra, capì che l’era dei media martellanti e invasivi 24 ore su 24 sarebbe arrivata di lì a poco e i libri avrebbero perso automaticamente milioni di lettori; capì vedendo una pubblicità dell’aspirina anni 40 che dietro l’angolo c’era l’abuso legale di farmaci per reggere lo stress di questo mondo nuovo. Capì da quella tv sarebbe uscita una cultura popolare «piena di sesso e violenza, e musica a alto volume».
Perché forse la bacchetta magica di Mr. Electrico oltre al dono della scrittura gli aveva dato quello della profezia; ma più che restare inascoltato come Cassandra finì catalogato come scrittore di cose impossibili, quando in realtà — proprio come J. G. Ballard, così diverso da lui nei mezzi ma così simile nei fini — Bradbury seppe raccontare il nostro presente e pensare il nostro futuro. Lui non amava i critici — «quei tizi che mi vogliono sempre spiegare di che cosa parlano i miei libri» — e anche per questo i premi del salotto buono letterario americano gli sono sfuggiti. Ma chi lo ammirava — e lo amava, perché Bradbury è uno di quegli scrittori che si amano come i bambini amano i campioni di baseball o di calcio — gli ha dedicato un cratere lunare, un asteroide, e — la cosa che gli fece più piacere — un parco nella natia Waukegan, Illinois.
Gli anni del tramonto non ebbero pietà: prima (1999) un ictus lo ridusse su una sedia a rotelle e gli paralizzò una mano, costringendolo a dettare i suoi scritti a una delle adorate figlie (anche quando lei si trasferì in Arizona; lunghe telefonate, poi lei che invia tramite fax la stesura per le correzioni). E un male crudele gli portò via l’adorata moglie Marguerite (2003). Ci fu tempo per gli ultimi onori ufficiali — quasi fuori tempo massimo: la stella sul marciapiede di Hollywood, nel 2004 la Medaglia presidenziale, massima onorificenza civile americana, e nel 2007 un premio Pulitzer speciale alla carriera perché qualcuno si rese conto che non poteva lasciar morire uno dei massimi scrittori americani del dopoguerra senza neppure un premio letterario di serie A. Pulitzer che lui accolse indossando una cravatta con le zucche ghignanti di Halloween e con un sorriso beffardo, la sensazione che «quello che pensano gli altri poi conta fino a un certo punto, sia quando ti dicono che sei un cretino sia quando dicono che sei un genio», e il pensiero al prossimo libro da scrivere (dettare), al prossimo futuro da immaginare. Ai premi preferiva le lettere dei lettori alle quali rispose di suo pugno (l’autore di questo articolo può testimoniarlo) finché la salute glielo permise, poi con lettere dettate personalmente. Allegando la sua foto autografata, il vecchio ritratto sorridente, in bianco e nero, con in braccio l’amato gattone Tigger.
Ci fu anche tempo, negli anni del crepuscolo, per una piccola polemica con il regista Michael Moore — «quel coglione», lo definì sapidamente Bradbury — e il suo documentario Fahrenheit 9/11 su Bush, troppo simile — senza permesso — al titolo del libro di Bradbury (e del film poi girato da Truffaut). Moore telefonò per scusarsi un po’ furbescamente, «la campagna pubblicitaria è già stata lanciata, le copie del film stampate, troppo tardi per cambiare il titolo, la prego di perdonarmi Mr. Bradbury», e un sintetico «bravo coglione» rimbombò dall’altra parte del telefono prima del «clic».
Ieri gli ha reso omaggio anche Obama, presidente da Bradbury poco amato per la rinuncia alle missioni spaziali: «Ray ha cambiato la società e allargato i nostri orizzonti, e capiva che la nostra immaginazione può essere usata per una migliore comprensione reciproca, come veicolo di cambiamento, e espressione dei nostri valori più preziosi». A Bradbury non dispiaceva pensare che la morte l’avrebbe raggiunto prima che potessimo arrivare su Marte, «tanto succederà sicuramente, con o senza di me davanti alla televisione a seguire lo sbarco sulla Cnn».
Ma quando la prima missione arriverà sul Pianeta rosso, mai immaginato da nessuno con la precisione — e la poesia — di Ray Bradbury, sarebbe bello se uno degli astronauti — americani, europei, cinesi, poco importa — si ricordasse di portare con sé il libro dello scrittore che ha fatto nascere quel Pianeta rosso nell’immaginazione del mondo. Il libro con in quarta di copertina la foto dell’ex ragazzo dell’Illinois che sorride felice, con in braccio il gatto Tigger, finalmente su Marte.
Matteo Persivale