Sam Knight, Prospect, Gran Bretagna, L’Internazionale 14/6/2012, 14 giugno 2012
ECCEZIONE POLACCA
Atterrando all’aeroporto di Rzeszów in una giornata limpida, una delle prime cose che saltano agli occhi è il marchio della Zelmer che campeggia sul tetto di una grande fabbrica circondata da ettari di betulle. L’estate scorsa, dopo sessant’anni passati in un labirinto di vecchie oicine nel cuore di questo anonimo centro della Polonia sudorientale, l’azienda si è spostata in un nuovo stabilimento in periferia. Mentre negli ultimi anni le industrie di ogni angolo d’Europa cercavano di tagliare i costi, il primo produttore polacco di aspirapolvere ed elettrodomestici ha lanciato un ambizioso piano di modernizzazione delle linee di produzione per incrementare i proitti e conquistare nuovi mercati in Russia e in Ucraina.
Dalla strada che porta alla sede della Zelmer – un enorme scatolone grigio e azzurro – si vedono le nuove strutture di Rzeszów: il terminal dell’aeroporto, costruito per gli Europei di calcio, il centro commerciale e l’autostrada. Bandiere e manifesti annunciano che Rzeszów è diventata “capitale dell’innovazione”. Uno dei bracci della croce di Malta che campeggia sullo stemma della città è stato trasformato in una avveniristica freccia digitale. A Rzeszów il sogno della prosperità europea è ancora vivo. Capoluogo della provincia della Precarpazia, tra le più povere del paese, la città è determinata a raggiungere il tenore di vita della parte occidentale della Polonia, quella più ricca. Quando si arriva in città si ha l’impressione di essere tornati ai giorni felici che hanno preceduto la crisi economica dell’Unione europea o di essere stati catapultati in una versione un po’ artefatta del futuro. Rzeszów, e tutta la Polonia, sono l’Europa senza la crisi. Nonostante la burocrazia e un’economia fortemente regolamentata, la Polonia oggi è il paese più in forma dell’Unione. Nel 2009 è stato l’unico del blocco dei 27 a non entrare in recessione. Da allora, come amano ripetere i mezzi d’informazione nazionali, la Polonia è diventata un caso unico nel continente. Negli ultimi quattro anni l’economia europea si è contratta dello 0,5 per cento, mentre il pil polacco è cresciuto del 15 per cento. Nonostante i profondi problemi strutturali del mercato del lavoro, la disoccupazione è diminuita, gli emigrati sono tornati e il debito pubblico è rimasto sotto la soglia stabilita dalla costituzione.
Aspirapolvere e frullatori
Nella nuova sede della Zelmer sono in mostra in una vetrina ferri da stiro, forni a microonde e tritacarne dai colori sgargianti. Due dirigenti di poco più di trent’anni mi fanno strada lungo i corridoi ultramoderni dell’edificio. Le luci si accendono e si spengono al nostro passaggio. Nella sala riunioni il direttore inanziario, Piotr Dołęga, e il capo delle relazioni con gli investitori, Agnieszka Grabowska, mi raccontano in uno spigliato inglese aziendale la trasformazione della Zelmer da impresa pubblica in azienda quotata in borsa, con un ruolo di primo piano nell’economia locale (dal 2004 al 2008 il suo fatturato è cresciuto del 50 per cento). Quando chiedo a Dołęga qual è la strategia in questi tempi di grande incertezza, mi risponde senza esitazioni: “Crescita a due cifre ogni anno”.
Qualche metro sotto di noi, lungo il pavimento grigio dell’oicina, alcune squadre di operai, che guadagnano intorno ai 500 euro al mese, stanno attaccando i tubi lessibili agli aspirapolvere e i piedini di gomma ai frullatori. Lavorano sotto enormi tabelloni elettronici che indicano il numero di pezzi da completare nelle otto ore successive. Nella zona di carico si ammassano bancali di prodotti Zelmer pronti per essere consegnati in Turchia, Svizzera e Ucraina. Il sindaco di Rzeszów, un ex funzionario del Partito comunista di nome Tadeusz Ferenc, è uno dei simboli del dinamismo della città. Prima di essere eletto nel 2003, Ferenc faceva l’amministratore di condominio. Sotto il suo mandato la città è cresciuta enormemente, inglobando i paesi e le zone residenziali circostanti, e si è aggiudicata più inanziamenti europei di qualsiasi altro centro polacco. Dei circa 67 miliardi di euro del fondo di coesione che la Polonia avrà ricevuto alla ine del 2013, gran parte è stata destinata a città come Rzeszów. Prima dell’incontro con Ferenc, una sua collaboratrice mi mostra una presentazione al computer dei lavori di ammodernamento inanziati da Bruxelles. “Nuove infrastrutture, piste ciclabili, fontane”, dice. “Nuovi posti per il tempo libero”. Ma la città non si è arricchita solo con gli aiuti europei. Grazie a una manodopera relativamente a buon mercato (i salari nella regione sono più bassi della media nazionale del 20 per cento), a una serie di sgravi iscali a livello locale e a una popolazione giovane e istruita, Rzeszów è riuscita ad attirare investimenti dal resto del paese e da tutto il mondo. Nestlé, Borg Warner (un’azienda statunitense che produce ricambi per auto) e Valeant Pharmaceuticals hanno tutte una iliale a Rzeszów. L’inarrestabile crescita della città, e della Polonia in generale, è dovuta in buona parte al fatto che l’economia ha ancora ampi margini di sviluppo: i polacchi guadagnano il 47 per cento in meno della media europea. Questo, però, non spiega perché il paese sta crescendo molto più velocemente dei suoi vicini dell’Europa centrorientale né giustiica il dinamismo dell’attività imprenditoriale. Le stime di crescita per il 2012 (il 2,5 per cento, due punti in meno rispetto al 2011) hanno fatto storcere il naso agli analisti a Varsavia, ma sono comunque le più alte di un continente in piena recessione. In parte la risposta sta in un fattore forse ancora più sorprendente di qualsiasi dato economico: la stabilità politica. Per la prima volta dalla caduta del comunismo, alle elezioni dello scorso ottobre gli elettori polacchi hanno confermato il governo uscente. Nonostante il suo gradimento personale fosse in calo, il primo ministro Donald Tusk è riuscito a portare alla vittoria il partito di centrodestra Piattaforma civica mentre la Polonia era impegnata nel diicile compito di presidente di turno dell’Unione europea. Varsavia, che ha guidato l’Ue in uno dei momenti più duri della crisi del debito, ha fatto di tutto per salvare la baracca, invitando perino il segretario al tesoro statunitense Tim Geithner a Poznan per spingere Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a fare scelte più coraggiose. A dicembre, inoltre, la Polonia si è fatta portavoce degli otto stati membri esclusi dall’euro che volevano dire la loro sul nuovo patto iscale. Mentre il primo ministro britannico David Cameron tornava in patria osannato dalla stampa di destra per non aver siglato l’accordo sulle nuove regole in materia di isco, il ministro degli esteri polacco, Radek Sikorski, è volato a Berlino per chiedere alla Germania di assumersi la responsabilità di guidare l’Europa: un appello sorprendente vista la tradizionale inimicizia tra i due paesi. “Sarò probabilmente il primo ministro degli esteri polacco nella storia a dire una cosa del genere, ma la voglio dire”, aveva dichiarato un mese prima Sikorski alla Società tedesca per la politica estera, un importante centro studi di Berlino. “Oggi la potenza della Germania mi fa meno paura del suo immobilismo”. Contro il debito Per la prima volta Varsavia sembra avere piena iducia nella sua forza e nella sua capacità d’inluenza. Parlando della crisi europea con i leader politici polacchi si ha la sensazione di un composto cordoglio verso il resto d’Europa. Quando chiedo al ministro delle inanze Jacek Rostowski se si è mai vantato con i suoi colleghi europei dei successi dell’economia polacca, mi risponde testualmente: “Mai, mai, mai. Mai e poi mai. Mai dire ‘siamo i più bravi d’Europa’ o cose del genere. Non siamo mai sgarbati con gli altri paesi. Mai e poi mai”. L’uicio di Rostowski si trova al secondo piano del ministero delle inanze, a Varsavia. L’ingresso principale dell’ediicio è bloccato per i lavori di costruzione di una nuova linea della metropolitana. Rostowski, che è cresciuto in Gran Bretagna, ha studiato a Oxford e parla inglese come un collezionista di libri d’antiquariato, mi spiega sommariamente in che modo la Polonia è riuscita a evitare la recessione. Niente di rivoluzionario: banche prudenti, nessuna bolla immobiliare (la Polonia ha una popolazione di 38 milioni di persone, più o meno come la Spagna, ma negli ultimi anni ha costruito un quarto degli alloggi degli spagnoli), una moneta lessibile (lo zloty), intensi scambi commerciali con la Germania (che acquista il 25 per cento delle esportazioni polacche) e un grande mercato interno. Tuttavia, come dice Rostowski, “la Polonia non è l’unica ad avere questi punti di forza”. Qual è allora il segreto del successo? Messo alle strette, Rostowski ammette che c’è stata una buona dose di fortuna: il governo precedente ha abbassato le tasse e ha aumentato la spesa pubblica appena prima dello scoppio della crisi, dando così un forte stimolo all’economia. I polacchi, inoltre, sembrano abituati a tirare la cinghia. Mentre in Europa occidentale la gente fa i conti con i primi tagli alla spesa pubblica da trent’anni a questa parte, tutti i polacchi che hanno più di 25 anni ricordano almeno tre periodi di austerità: la “terapia d’urto” dei primi anni novanta, le conseguenze della crisi inanziaria russa del 1998 e la politica di tagli e alti tassi di interesse che ha permesso a Varsavia di entrare nell’Unione nel 2004. Quando chiedo ai lavoratori polacchi come ha fatto il loro paese a evitare la recessione, scrollano le spalle con aria incredula e mi parlano dell’aria di costante cambiamento che si respira da vent’anni. “Qui c’è sempre una crisi nuova”, dicono. E non hanno tutti i torti. Anche ora che le casse dello stato sono piene, il governo sta varando una riforma previdenziale fortemente impopolare: l’età della pensione sarà innalzata a 67 anni, anche se l’aspettativa di vita maschile in Polonia è di 72 anni. E i contributi pubblici per i funerali saranno tagliati. Se c’è un simbolo vivente di questo interminabile processo di riforme è il professor Leszek Balcerowicz. Seguace delle idee liberiste della scuola di Chicago, Balcerowicz è stato il ministro delle inanze che ha gestito l’improvvisa transizione al capitalismo nel 1989. In un solo pomeriggio dell’ottobre di 23 anni fa, insieme ai suoi collaboratori (tra cui un giovane Jacek Rostowski), varò le dieci leggi che avrebbero dato una nuova struttura all’economia polacca. Nel 1998 Balcerowicz è tornato al governo per tirare fuori la Polonia dalle secche della crisi finanziaria russa, stabilendo un limite costituzionale per l’indebitamento pubblico. Poi, nel 2001, è stato nominato alla guida della banca nazionale. Tre anni dopo l’Economist scriveva che grazie alla sua semplice presenza – il cosiddetto “efetto Balcero wicz” – la Polonia riusciva a inanziarsi sui mercati internazionali a condizioni vantaggiose, risparmiando circa un miliardo di euro all’anno. Oggi Balcerowicz insegna alla Warsaw school of economics, dove dirige un centro studi, scrive articoli per i giornali polacchi e ricorda continuamente al paese l’importanza della prudenza iscale. È molto critico verso Rostowski, accusato di essere troppo morbido, e verso i paesi che spendono soldi che non hanno. La sua missione è costruire una solida maggioranza antistatalista e conservatrice in materia di politica iscale, fortemente contraria all’allargamento del settore pubblico. L’attuale crisi del debito nei paesi dell’Europa del sud non fa che rafforzare la sua campagna per la liberalizzazione dell’economia in Polonia. “I greci hanno reso un pessimo servizio a se stessi”, dice, “ma un ottimo servizio agli altri paesi. Sono un caso da manuale”. Non tutti però sono d’accordo con le sue posizioni, a partire dai conservatori del partito Diritto e giustizia, che con i gemelli Lech e Jarosław Kaczyński ha guidato il paese dal 2005 al 2007 (Lech è rimasto presidente della repubblica ino alla morte, avvenuta nell’aprile del 2010 nel disastro aereo di Smolensk, in cui sono rimasti uccisi 88 tra generali, imprenditori e politici polacchi). Diritto e giustizia, che oggi è all’opposizione, ha cavalcato la crisi dell’Europa per sollevare dubbi sulla marcia della Polonia verso l’economia di mercato e l’integrazione completa nell’Unione. Sfruttando i tradizionali timori polacchi verso la Germania, a dicembre il partito è riuscito a portare migliaia di persone in piazza a Varsavia per protestare contro ogni ulteriore riduzione della sovranità nazionale. La Polonia si è uicialmente impegnata a entrare nell’euro nel 2015. Ma Diritto e giustizia attinge anche alle paure legate a un’economia sempre più aperta. Secondo le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), le disparità di reddito in Polonia sono più alte che in Svizzera, e 25 polacchi su cento hanno contratti a termine, la percentuale più alta dell’Ue. I giovani polacchi – 300mila dei quali nei prossimi tre anni potrebbero emigrare in Germania in seguito all’allentamento delle restrizioni sui permessi di lavoro – li chiamano contratti smiec, spazzatura. Il miracolo polacco non funziona per tutti. Ryszard Petru, economista della PricewaterhouseCoopers, descrive in questi termini la sida del governo: per continuare a galleggiare in un’Europa in crisi, la Polonia dovrà avviare un nuovo ciclo di riforme economiche (innalzamento dell’età della pensione, privatizzazione del settore energetico e un’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro) e convincere allo stesso tempo l’opinione pubblica che non c’è nulla da temere. “Oggi siamo al sicuro”, sostiene Petru. “Ma c’è sempre il rischio che qualche scaltro populista possa andare al potere”. Se succedesse, il paese rischierebbe di scivolare nuovamente verso le ossessioni nazionaliste e omofobe che hanno caratterizzato l’era dei Kaczyński e che hanno rischiato di far deragliare l’intero progetto. Jaroslaw Kaczyński, leader di Diritto e giustizia, racconta Petru, “non sa l’inglese. Non ha un conto in banca. Non guida l’auto. Fa ridere ed è piuttosto primitivo. Ma se in Polonia venisse fuori un leader come Victor Orbán (il primo ministro populista ungherese) potrebbe anche arrivare al potere. È questa la mia paura”. Un altro timore è che la completa integrazione nell’Unione, euro compreso, possa portare la Polonia a fare la stessa ine dei paesi che oggi guarda dall’alto in basso. A Varsavia ho appuntamento con Robert, un ex soldato che si guadagna da vivere vendendo mutui e prodotti inanziari per la Open Finance, la più grande società polacca di consulenza finanziaria. Robert spiega che grazie alle stesse tecniche applicate alle economie occidentali oggi in disgrazia, è riuscito a vendere prodotti inanziari a lungo termine – soggetti a forti oscillazioni – a tanti risparmiatori polacchi ignari dei rischi che hanno scelto di correre. “Pensano che tra quindici anni saranno ricchi o riusciranno a ripagare il mutuo. Ma non andrà così”, dice Robert. “I miei colleghi lo sanno, ma nessuno ne parla. In Polonia sarà come negli Stati Uniti. La regola è vendere, vendere, vendere: vendere sempre più prodotti scadenti a persone che non ne hanno bisogno. Oggi siamo un’eccezione positiva nell’Ue. Ma tra qualche anno non sarà più così”. Prima di lasciare il bar dove ci siamo incontrati, Robert si abbandona ai ricordi. “In passato eravamo un paese diverso. Sono cresciuto in un vecchio caseggiato popolare. C’erano solo famiglie povere. Ricordo che per le scale ci salutavamo e ci aiutavamo a vicenda. Oggi non sappiamo neanche chi ci abita vicino. Siamo sempre più occidentali, vero?”. Pressione A Rzeszów di questo tipo di nostalgia non c’è traccia. E nessuno sembra nemmeno troppo preoccupato che una parte dell’identità polacca possa andare perduta in questa grande transizione. Ma parlando con i lavoratori, alla Zelmer e in altre aziende, si ha la sensazioni che nonostante la crescita le condizioni di vita per molti siano ancora troppo instabili. In un paese noto a livello internazionale per il basso costo della sua manodopera, è strano sentir parlare della paura di essere tagliati fuori dalla globalizzazione. “La Polonia non ha una vera forza economica. Ha solo le persone”, dice un manager di un’azienda aeronautica canadese che ha sede fuori città. “L’azienda può tranquillamente prendere questo impianto e spostarlo in Ucraina, in Bulgaria o in Romania. E noi polacchi potremmo ritrovarci a mani vuote da un giorno all’altro”. Per farmi un’idea di come è cambiato il rapporto con il lavoro in Polonia, vado a visitare la vecchia fabbrica della Zelmer al centro di Rzeszów. All’inizio degli anni ottanta, quando era ancora in mano pubblica, l’azienda dava lavoro a quattromila persone ed esportava elettrodomestici in Unione Sovietica. Agnieszka Grabowska, che mi ha già mostrato il nuovo stabilimento, mi fa strada in mezzo ai magazzini abbandonati. I residui delle vecchie linee di produzione sparsi in giro ricordano le spoglie di una campagna militare inita decine di anni fa. È stato doloroso per gli operai lasciare la vecchia sede, ammette Grabowska. “Era come una piccola città: tutti si erano abituati a questo tipo di vita e di lavoro”, dice. Ma poi sembra perdere la pazienza. “Non voglio dire che siano degli stupidi, ma di certo non capiscono niente di commercio”. La trasformazione era necessaria, altrimenti, spiega Grabowska, nel 2005 la Zelmer avrebbe chiuso. Il giorno seguente vado a trovare una famiglia che nel corso degli anni ha dato diversi lavoratori alla Zelmer. È il pranzo del sabato e la tavola è imbandita con costolette di maiale, purè, crauti e liquore alla ciliegia fatto in casa. A tavola ci sono tre generazioni. Si parla di come la Polonia è cambiata. Anche i più anziani – che spesso rimpiangono la sicurezza dei tempi del comunismo – sono d’accordo sul fatto che il paese non era mai stato ricco come oggi. “Prima stavamo sotto Mosca, ora sotto Bruxelles!”, dice Czesław, il padre, che ha una sessantina d’anni. Tutti ridono. Dopo pranzo arriva una delle iglie di Czesław, che lavora nella nuova fabbrica della Zelmer e guadagna 1.150 zloty (circa 280 euro) al mese. Ha fatto il turno di notte e ha i capelli ancora bagnati per la doccia. Ha portato con sé il iglio di sei anni e racconta di quanto sia faticoso lavorare alle nuove linee produttive dell’azienda. “Siamo controllatissimi”, spiega. “Ci sono telecamere dappertutto”. La ragazza è preoccupata che alla ine anche Rzeszów possa essere risucchiata dalla crisi europea: la Zelmer sta chiedendo agli operai di prendersi delle ferie extra e si dice che per qualche mese potrebbero fermare la produzione di aspirapolvere. I lavoratori a termine vengono mandati via. “E stanno anche pensando di licenziare qualcuno”, osserva pensierosa. Il suo tono, però, non è sconsolato. È sabato. Intorno a lei c’è la sua famiglia. Il suo paese è sempre più ricco e lei ha un lavoro. Eppure, per descrivere i diversi aspetti della sua vita continua a usare la stessa parola: presja, pressione.