Maurizio Crosetti, la Repubblica 7/6/2012, 7 giugno 2012
LÀ DOVE PERDEMMO SCIREA CAMPIONE DI UN ALTRO CALCIO
Per arrivare fin qui bisogna attraversare una lunghissima pianura di capannoni industriali, cantieri stradali con ruspe e camion, poi soltanto prati. Alla fine di tutta questa strada, che si chiama E67, c´è silenzio e dolore. C´è il ricordo di un uomo buono e della sua morte assurda. Ci sono due croci senza nome, e piccolissimi fiori gialli sull´orlo del fosso. Qui, il 3 settembre 1989, il destino si prese Gaetano Scirea.
E chissà se dipende dal tempo che mica passa e basta, semmai sottolinea le assenze, i vuoti. O forse è proprio che lui, Scirea, sembra quanto di più lontano possa esistere dallo sporco calcio di oggi, o magari è il contrario, è tutto il resto ad essersi spinto a distanze siderali da quella correttezza esemplare (552 partite con la Juve, 78 con la nazionale e mai un´espulsione), da quello stile che non era mai forma, solo vera sostanza, e vita come dev´essere.
Un operaio con un cespuglio di baffi e l´elmetto arancione, quel giorno se lo ricorda bene. «Abito là, nel villaggio», dice indicando un gruppo di casette con l´orto davanti, saranno cinque o sei: il villaggio di Babsk, distretto di Rawa Mazowiecka, settanta chilometri da Varsavia sulla statale per Katowice. «La macchina andò a sbattere contro un furgone, morirono in tre, il quarto si salvò. C´è ancora chi porta i fiori». Lui e i suoi compagni di lavoro stanno costruendo una nuova corsia accanto a quelle dell´incidente, il "Wiadukt WS-75" come sta scritto in un cartello, il viadotto sulla sommità del dosso dove l´asfalto pare infilarsi in cielo sotto uno sbuffo di nuvole bianche. La Polski Fiat 125p sorpassò due camion, ma non riuscì a chiudere la manovra. L´autista, la giovane interprete e Scirea morirono nel rogo, alimentato da quattro taniche di benzina portate di scorta nel bagagliaio, perché allora non era mica facile fare rifornimento nei lunghi tragitti; il quarto passeggero, un dirigente del Gornik Zabrze, la scampò perché venne sbalzato fuori nell´urto. Ora le croci sono solo due, chissà perché. Chissà chi avrà smarrito il segno di questo ricordo.
Sono croci semplici, di legno grezzo. Croci di Cristo, veramente, tenute insieme da quattro chiodi. Il traffico non dà tregua, impossibile non immaginare quel momento, lo sguardo attonito di Gaetano, la sua fine. «Da ventitré anni vivo sperando che avesse almeno perso i sensi, prima dell´incendio». Mariella Scirea non è mai più tornata in Polonia, la sua voce al telefono da Torino è appena più debole del vento che non smette mai di soffiare sui prati. «Lo amano ancora in tanti, in questo tempo di sport malato il suo ricordo è ancora più forte, più necessario. Lo andai a prendere con Anna Zoff per riportarlo in Italia, la bara era enorme, bombata, avevano messo un pizzo di carta per abbellirla, una povera cosa. Sopra, un cuore legato con una catenella e un nome scritto a matita: Gaitano Sarria. Lo caricarono su un furgone blu tutto scassato. Non me lo fecero vedere, io avrei voluto. Nel cortile della chiesetta c´era una campana enorme, appoggiata su un cavalletto di legno, e una madonna nera».
Era domenica pomeriggio, Scirea aveva smesso di giocare da un anno appena. Faceva il vice di Zoff alla Juve, era stato qui per visionare il Gornik, avversario dei bianconeri in Coppa Uefa. Stava rientrando all´aeroporto. Adesso, sulla strada passano un cagnolino bianco e due donne in bicicletta. Guardano le croci. Le ruspe smuovono la terra, e il tempo fa lo stesso con i ricordi. La sua voce pacata, quel tono sempre basso, rispettoso e morbido. Gaetano, in Polonia non ci voleva venire. Aveva dei presentimenti, Boniperti insistette, la sorte ha una strada sola e non si sfugge. Il padre di Gaetano si chiamava Stefano e gli sopravvisse una settimana, poi il cuore si spezzò: lo seppellirono il giorno dopo il suo ragazzo. Invece la mamma Giuditta è ancora viva, insieme ai suoi novant´anni. C´è anche un uomo, Riccardo Scirea, identico a suo padre: ha appena avuto un bimbo, i suoi anni sono trentacinque, uno in meno di papà al quale assomiglia in un modo assoluto, persino inquietante: nel viso, negli occhi, nella timidezza.
«Guardo Riccardo e rivedo mio marito, succede ogni minuto da quel giorno. Lo considero un dono grande: quando gli chiedo di abbracciarmi, mi sembra di sentire il calore di Gaetano. Mi ero fatta l´ingrandimento della fotografia dopo l´incidente, si vede il suo viso reclinato, come se dormisse, e ho ancora il suo orologio tutto bruciato: però, quelle cose adesso non le guardo più, non riesco. Sarebbe bello se la nazionale trovasse il tempo per portare un fiore. Ho appena rivisto in tivù le partite del mondiale ‘82, l´altra sera dopo Italia-Germania ho pensato: ecco, il campionato è finito, adesso Gai ritorna. Ero felice mentre lo pensavo. Mi sono sentita la ragazzina che ero. Quando incontro Dino, e Marco, e Antonio, li vedo come vedo me stessa, cioè invecchiati: Gaetano no, lui sarà sempre giovane. L´ho già detto a Riccardo, ho scelto la foto per quando morirò, ho trent´anni e sono bella, non potrò andare vicino a Gai sembrando sua nonna».