Massimo M. Veronese, Il Giornale, 08 giugno 2012, 8 giugno 2012
KIM E IL BOMBARDAMENTO:
la più famosa foto di guerra ha compiuto quarant’anni
8 giugno 1972: un gruppo di bimbi fugge da un bombardamento aereo. Il fotografo Nick Ut ferma l’immagine di una ragazzina nuda e in lacrime e la consegna alla Storia
Kim non aveva mai visto un aereo così da vicino. Arrivava dalla Statale, volava a bassa quota, lasciò cadere qualcosa che illuminò di curiosità i suoi occhi di bambina, come delle palline colorate che la inseguivano rimbalzando.
Nick la vide sbucare dai cespugli. Gli correva incontro senza vestiti addosso, con le braccia aperte. Scattò. Il mirino della sua Nikkon si riempì di sfumature color zafferano, fuoco, sangue tramonto. Bellissimo. Poi cominciò a tremare con violenza. Non aveva mai visto tanto orrore in vita sua. Il capitano John Plummer cercava i risultati del baseball sul Stars e Stripes, ma sotto il titolo «Una bomba sull’obiettivo sbagliato» vide la foto di Kim. Il napalm le aveva divorato la schiena fino ai polmoni, il fianco sinistro fino al torace, la nuca fino all’attaccatura dei capelli e tutto il braccio sinistro. Lui lo sapeva bene: la gelatina incendiaria del napalm fa presa su qualunque cosa tocchi, brucia a lungo a temperature di 1200 gradi, fonde i corpi come cera, provoca un dolore oltre ogni immaginazione. Come essere scorticati vivi. Kim aveva solo nove anni. John guardò il soldato al suo fianco e disse solo: «Sono io che ho ordinato quel bombardamento...» La bambina e la foto s’incontrarono per sbaglio sulla strada per Trang Bang, 40 chilometri da Saigon, e da allora nè l’una nè l’altra hanno mai smesso di correre. Dicono che ci sono immagini che parlano da sole, ma qui è diverso. Questa è una foto che urla, «una foto che non ti dà pace» secondo il due volte premio Pulitzer Horst Faas. L’urlo di Munch che si fa carne che brucia.
Pensare che quel fagottino terrorizzato, nel suo villaggio, era famosa soprattutto per il sorriso. E per quel nome, Kim Phuc, che significa «felicità dorata». Gli americani che frequentavano il suo villaggio la chiamavano «Mai», un gioco di parole che voleva dire «America bella». Quella corsa incontro al cielo ha cambiato il modo di vedere la guerra, una corsa che continuerà nei secoli e la ritroverà per sempre bambina, ma ferma in un mondo che non cambia mai, una corsa che l’ha vista sbucare di nuovo nuda e indifesa da una scuola dell’Ossezia, Beslan duemila e quattro. Ma intanto nel tempo la bambina si staccava, fuggiva lungo un’altra strada, con la sensazione addosso di far parte di qualcosa di grande ma di avere sempre qualcosa a metà. In fuga dal destino, «là ci sono i bambini che muoiono» dissero i medici ai suoi che la cercavano dopo le bombe l’ospedale Cho Bay, in fuga dal dolore, quattordici mesi d’ospedale, 17 interventi di plastica, il 35 per cento del corpo ricostruito con trapianti di pelle, dagli incubi atroci che attraversavano le sue notti, in fuga dalla religione di famiglia, il caodaismo, fino nelle braccia del cristianesimo «meglio che ti sposi un comunista che un cristiano», in fuga dalla rovina economica in cui il comunismo gettò la sua famiglia di ristoratori,
in fuga dalla propaganda di regime che la usò senza pietà fino alla fuga quella vera in Canada, durante il viaggio di nozze per chiedere asilo politico in uno scalo tecnico di mezzo tra Mosca e Cuba. Kim Phuc ha incontrato nel corso di un programma alla Bbc Christopher Wain, il giornalista della Itn che contribuì a salvarle la vita 40 anni fa. L’ultima volta che Chris aveva visto Kim, la bambina giaceva in un letto di ospedale con gran parte del corpo ustionato da un attacco al napalm delle truppe sudvietnamite, alleate degli americani, contro il suo villaggio. Era l’8 giugno del 1972 ed era in Vietnam da sette settimana per la rete Itn. In fuga dalle bombe che le avevano bruciato vestiti e pelle, Kim e altri bambini incontrarono Chris e la sua equipe. Lui le gettò acqua sul corpo mentre i suoi operatori riprendevano. Quelle immagini terribili furono mandate in onda, diventarono il volto della guerra, fecero il giro del mondo.
Con Chris e gli altri c’era anche il fotografo vietnamita Nick Ut, che scattò l’immagine diventata simbolo, denuncia e leggenda. Piangeva. Molti anni dopo, con il suo stesso sorriso di bambina, ha abbracciato anche Plummer, anzi oggi il reverendo Plummer, durante un raduno di veterani del Vietnam: «Mi dispiace, mi dispiace così tanto...» riuscì appena a dirle. «É tutto a posto: ti perdono, John, ti perdono...». Kim, la «Bambina della foto» come si intitola la sua biografia, oggi vive in Canada, si è sposata l’11 settembre, ha chiamato uno dei figli Binh, «Pace», e creato una fondazione che aiuta le vittime della guerra.
É molto più di una fotografia: «La mia vita è un simbolo d’amore, di speranza e di perdono».