Denise Pardo, L’Espresso 14/6/2012, 14 giugno 2012
Saltiamo su quella Barca [Articolo su Fabrizio Barca] Anche se lui non ci ha pensato prima - e sarà pure strano, ma così dicono quelli che lo amano e lo seguono - ora la pulce gli sarà entrata nell’orecchio
Saltiamo su quella Barca [Articolo su Fabrizio Barca] Anche se lui non ci ha pensato prima - e sarà pure strano, ma così dicono quelli che lo amano e lo seguono - ora la pulce gli sarà entrata nell’orecchio. La pulce è questa: il leader, lato democratico o lato quel che sarà la futura sinistra, non c’è (o è incerto). Ma c’è Fabrizio Barca che potrebbe essere il leader. Lui non apprezza e si preoccupa: "Queste voci sono un attacco alla funzione che svolgo". Che sia un tipo sincero l’ha dimostrato. Alla trasmissione radio, non sobria, non tecnica ma molto popolare "Un giorno da pecora", a domanda ha risposto pari pari: "Ho votato a sinistra del Pd", e che problema c’è? Alla festa della Repubblica al Quirinale dove si è intrattenuto con il capo dello Stato mandando in delirio le iene pennivendole (conversazione sulla candidatura?) ha dichiarato che bisognava mandare i militari nelle zone del terremoto, non a sfilare alla parata del 2 giugno. "Io non vado. Porto mio padre Luciano che ha 91 anni al mare a mangiare uno spaghetto come si deve", ha raccontato dopo essersi presentato a un gruppo di perfidi cronisti sui quali ha riversato secchiate di charme consapevole: "Vi conosco, vi leggo" e poi subito il tu ricambiato a tutti. Quando, nel 1988 lasciata Banca d’Italia e chiamato da Carlo Azeglio Ciampi, era a capo del Dipartimento delle Politiche di sviluppo al ministero del Tesoro, alfiere della Npr, la Nuova politica regionale, contratti d’area, patti territoriali (famosa la polemica-critica del dalemiano Nicola Rossi e poi l’ammissione da parte sua di un obiettivo mancato) telefonava personalmente ai giovani economisti per annunciare che erano stati scelti e davvero sulla base dei loro curriculum (non faceva lui la selezione). Uno di loro chiese: " Scusi, dottor Barca, ma prima non vuole vedermi in faccia?". " Dice che è il caso?", domandò Barca. " Beh, se io fossi lei, lo farei". Risposta: "Ha ragione, venga". Quattordici anni dopo, da neo ministro ha postato su Twitter, su cui è attivissimo, il bando per la selezione di personale per il suo staff. Barca non è un elefante di partito. Non è un rottamatore, un unto del signore, un figlio di un dio minore e nemmeno una creatura del Web. È uno che crede nella militanza nello Stato, nel valore della competenza. Oltre che nell’orgoglio di essere cresciuto con lo stile di vita dell’aristocrazia rossa e con la sensazione di avere un destino - importante - segnato. "E se fosse Barca l’uomo nuovo del Pd?", ha sibilato con aria insinuante Bruno Vespa al segretario Pd Pier Luigi Bersani. Il leader in pectore è stato generoso ma ha sviato: "Io Fabrizio lo stimo tantissimo, gli voglio anche bene, è persona seria". Un’ottima pagella. Certo non un endorsement. Primo ministro della Coesione territoriale della storia della Repubblica, nato a Torino il giorno della festa della donna e nell’anno, il 1954, in cui ha visto la luce la Rai, Barca è un economista di fama internazionale, ex Fgci, un alto burocrate molto determinato dotato di un carisma ben allenato, il passo di un gran camminatore di montagna, uno fuori dalla politica in senso stretto ma che sostiene "si è politici sempre, anche in casa". Laurea in Scienze Statistiche all’università di Roma, master in Philosophy in economia a Cambridge, sposato con Clarissa Botsford, padre di tre figli (due all’estero, in Sud America e in Inghilterra: "Se l’Italia non migliora stanno bene lì", ha proclamato sollevando un putiferio) direttore generale del ministero dell’Economia, presidente del Comitato delle politiche territoriali dell’Ocse, approda al governo di Mario Monti dopo aver superato come una salamandra il fuoco della convivenza con cinque ministri, a dir poco delle primedonne (oltre a Ciampi, Amato, Visco, Siniscalco e Padoa-Schioppa). E soprattutto dopo aver stretto i denti nelle tre stagioni di Giulio Tremonti (in cui cresce invece Vittorio Grilli) che prima lo esilia in una stanzetta, poi ne fa una sorta di capo segreteria tecnica - per controllarlo meglio da vicino si diceva - senza affidargli nessun compito preciso, salvo chiedergli ogni tanto di reperire quattrini dei fondi strutturali inutilizzati, materia diventata per lui più che un abito su misura una seconda pelle. Al tempo del confino, lega molto con il siciliano Gianfranco Miccichè (feroce critico di Tremonti) che poi lo presenta a Berlusconi, subito dopo la nomina di Barca a direttore generale, nomina respinta per ben tre volte dal Consiglio dei ministri. Motivazione: alto comunismo. Di Barca Miccichè urla "È bravissimo". Ma il rapporto non piacque all’ortodossia di ambedue le parti. Non si sa se Barca abbia le stimmate per un’ascensione così altolocata come quella di una premiership (di certo corre per la poltrona di prossimo ministro dell’Economia, lo profetizzò per lui Bersani) ma a volte quando il karma politico s’incarica di fare quello che gli uomini politici non vogliono fare, spunta il nome di uno con le sue caratteristiche, vedi il Professore di Bologna. E in effetti nel mezzo del grillismo, del montezemolismo, delle liste civiche e civetta, dell’anti-politica e della vetero politica, Barca potrebbe essere un "Romano Prodi numero due", secondo Angelo Rovati, miglior amico dell’ex premier (così ha detto al "Foglio" in un pezzo di Claudio Cerasa) con il sostegno di Mario Monti, la stima di Carlo Azeglio Ciampi, la considerazione di Giorgio Napolitano, suo grande fan e vecchio amico del padre Luciano, partigiano, ex senatore Pci, direttore dell’"Unità" e di "Rinascita" molto vicino a Enrico Berlinguer. Sullo sfondo di una politica spettrale e spesso tremebonda, chi ha lavorato con Barca gli riconosce la capacità di prendersi le responsabilità ("Prima sbrigavo pratiche e dicevo "si dovrebbe.., sarebbe consigliabile..", ora decido") e di esercitare la leadership: a un economista saccente che gli contestava la linea ricordò che lui era il capo e dunque si faceva come diceva lui. Fu proprio Barca la mattina dopo la conferenza stampa di Monti e Fornero per il varo della riforma del lavoro e dell’articolo 18, a sollevare in diretta tv il problema dei problemi, ovvero il confine tra licenziamento per motivi economici e licenziamento discriminatorio. Proseguì dopo in Consiglio dei ministri: "In genere parliamo due minuti, oggi parlerò venti", esordì e giù a srotolare tutto quello che non andava e a fare lui la lezione da vero comunista alla professoressa Fornero. Che da allora non lo considera il suo amico del cuore. In un momento in cui la sinistra è così incerta ed errante da non voler nemmeno riassumersi in una definizione, il ministro ha provato a rispondere a Claudio Sabelli Fioretti sulla questione: "Essere di sinistra vuol dire dare peso tra crescita e inclusione sociale, all’inclusione sociale cioè garantire a tutti di avere accesso ai servizi fondamentali". In un certo senso il suo ministero è anche questo. "La coesione territoriale è un metodo", ha spiegato, "un modo di produrre e incrementare servizi e sviluppo sul territorio". Appena nominato, Roberto Calderoli ha deplorato la scelta a causa del suo notorio meridionalismo. "Sarà il ministro del Mezzogiorno?", gli ha chiesto Emilio Carelli. "Ma no, sarò anche il ministro della Valle d’Aosta", ha ironizzato Barca che ama citare una frase di Nenni sul potere: "Sono entrato nella stanza dei bottoni, ma i bottoni non ci sono, raccontava Pietro. Invece, no, i bottoni ci sono". Lui li sta pigiando tutti e fino in fondo. Al ministero lo guardano indecisi se sia un civil servant indefesso o semplicemente un ossesso con l’obiettivo di usare al massimo il trampolino caduto dal cielo. È riuscito a ridurre i tempi di disbrigo delle pratiche: prima ci volevano nove mesi di attesa e 14 passaggi Cipe, oggi ne bastano sei. Ha varato in pochissimo tempo un Piano di azione coesione, cioè la riprogrammazione della spesa dei fondi strutturali: 3,7 miliardi che ha destinato nella fase uno all’istruzione, all’occupazione, alla formazione. Nella fase due, ha scovato altri 2, 3 miliardi per l’edilizia scolastica, l’assistenza agli anziani, l’imprenditoria giovanile, la rete ferroviaria. Per Mario Monti è l’unico fronte da proporre per la crescita. Barca non solo non chiede. Può dare. Intanto il ministro non perde un talk show, "L’infedele" o "Agorà", non rifiuta un invito: giorni fa ha passato più di tre ore alla Fondazione Brodolini (che si occupa di lavoro) senza mai guardare il telefonino. Chi c’era ha notato la passione, l’attenzione, il prendere appunti, "sì lei mi ha convinto", "ora ricordo ci siamo già incontrati...". Permettendosi persino una battuta: "Di grilli ne abbiamo già troppi". E tutti a domandarsi: si riferiva al Movimento o al vice ministro? Da febbraio gira in lungo e in largo il Sud per conoscere il territorio, confrontarsi con i rappresentanti locali e con la società civile e controllare l’effettivo impiego dei finanziamenti. Sarà anche il preludio a una campagna elettorale? Ora è alla quinta tappa, la Sardegna: Cagliari, Porto Torres, Sassari. Spesso al fianco, ha il suo vero alter ego. È Paolo Caputo, il vice capo di gabinetto: un esperto di programmi di assistenza e sviluppo, tsunami, Darfur, Sudan (si racconta che abbia contribuito a costruire letteralmente con le sue mani una scuola a Kabul). Se davvero Barca sarà chiamato alla sfida con la esse maiuscola, nella tempesta del centrosinistra uno come Caputo che ha coordinato l’emergenza tsunami potrà essergli più che utile, sarà fondamentale. E non si potrà dire che Barca non ci aveva pensato. n