Luca Sciortino, Panorama 13/6/2012, 13 giugno 2012
Chi ha rubato il cervello di Einstein – Alla mostra «Brains: the mind as matter», della Wellcome Collection di Londra, la gente vi si affolla come fosse la reliquia di un santo
Chi ha rubato il cervello di Einstein – Alla mostra «Brains: the mind as matter», della Wellcome Collection di Londra, la gente vi si affolla come fosse la reliquia di un santo. Del resto, quella non è materia cerebrale qualunque. È quella che ha prodotto una delle più grandi rivoluzioni della storia del pensiero, sovvertendo le più radicate concezioni dell’universo. A questo simbolo della genialità la targhetta della mostra non rende giustizia: «a slice of Einstein’s brain», una fettina del cervello di Einstein. Vicende alterne l’hanno tenuta nascosta per 57 anni, quelli che vanno dalla morte del padre della Relatività a oggi, un arco di tempo in cui gli scienziati hanno sezionato, analizzato, pensato, in un gioco continuo di congetture e confutazioni. In ballo, il tentativo di decifrare il segreto del genio. Un mistero da risolvere, tanto più che domande come: «Cos’è il talento?», «Dove risiede?» rimandano a una delle questioni insolute della conoscenza: come i prodotti invisibili della mente siano connessi alla struttura fisica del cervello. Data la difficoltà della questione, ogni scienziato avrebbe voluto che il cervello di Einstein fosse rimasto in un laboratorio per essere analizzato da cima a fondo. Il grande fisico, invece, per scoraggiare gli idolatri, aveva chiesto che i suoi resti fossero cremati e sparsi al vento. La storia si è incaricata di deludere sia l’uno sia gli altri. La sera del 17 aprile 1955, a 76 anni, Einstein fu portato all’ospedale di Princeton, dove morì di aneurisma aortico. Un esame autoptìco non sarebbe stato necessario, ma per Thomas Haivey, l’anatomopatologo che era di turno, l’occasione era imperdibile. Fece l’autopsia e si trovò di fronte alla pepita d’oro della neurologia. La tentazione era irresistibile. Non era permesso prenderlo per sé, ma in nome della scienza perché non violare la regola? Il furto venne alla luce qualche giorno dopo mandando su tutte le furie Hans Albert, figlio di Einstein, il quale si convinse ad accettare l’increscioso episodio in cambio di una promessa: quel cervello sarebbe stato usato solo nell’interesse della scienza. La caccia al segreto del talento era cominciata. Quando la notizia si sparse il direttore dell’ospedale di Princeton intimò a Harvey di cedere la refurtiva. Quest’ultimo, però, il cervello se lo teneva stretto. Il suo superiore lo fece espellere dall’ordine degli anatomopatologi e a quel punto Harvey sentì di dover cedere. Consegnare tutto il cervello però era troppo. Lo portò all’ospedale di Filadelfia, lo fece affettare in un centinaio di parti e ne consegnò alcune a Harry Zimmerman, il medico di Einstein. Poi tirò un respiro di sollievo: aveva ancora fette in abbondanza ben conservate in un vaso colmo di formalina. In quegli anni, un neuroscienziato dell’Università della California, Marian Diamond, venne a conoscenza dell’esistenza di porzioni del cervello di Einstein e ne chiese qualcuna a Harvey. Questi pensò che in fondo non gli costava poi tanto cederne una manciata, e così Diamond nel 1985 potè pubblicare su Experimental Neurology il suo studio: nell’area della corteccia cerebrale numero 39 di Brodmann il cervello di Einstein differiva da quello di un campione di 11 cervelli di 64enni nel rapporto tra cellule gliali e neuroni. Einstein aveva sviluppato un alto numero di cellule gliali rispetto ai neuroni, suggerì Diamond, come conseguenza di maggiori stimoli intellettuali. Eureka? Non proprio. Fu un gioco da ragazzi per i colleghi criticare lo studio: campione troppo piccolo, stato del tessuto non ottimale e pur sempre quello di un 76enne; e il dubbio che le cellule gliali fossero più numerose dei neuroni solo a causa di una rapida moria di questi ultimi. Nel frattempo Harvey divorziò dalla moglie (anche lei aveva reclamato il possesso delle reliquie) e parti con la sua parte di cervello in un barattolo per il Kansas, dove fece amicizia con il poeta William Burroughs. Forse fu l’effetto delle bevute con l’amico, fatto sta che Harvey cedette fettine ad altri ricercatori. Dopotutto, non doveva tenere fede alla promessa fatta a Einstein junior? Agli inizi degli anni Novanta, quando Harvey ritornò a Princeton, un ricercatore dell’Osaka bioscience institute, in Giappone, mise in connessione i risultati di Diamond con il fatto che Einstein iniziò a parlare dopo i tre anni mostrando un comportamento dislessico. Il conteggio delle cellule di Diamond rivelava in effetti una lesione nell’area del linguaggio, poi guarita: altro che tante cellule gliali, il bambino Einstein aveva una regione della corteccia compromessa. Se i genitori lo avessero saputo, lo avrebbero certo distolto dalla carriera accademica. La caccia al segreto di Einstein era in fase di stallo. Finché nel 1996, su Neuroscience Letters, apparve un articolo di Britt Anderson, dell’Università dell’Alabama, che esaminava porzioni dell’area 9 di Brodmann. Questa volta emergeva che Einstein aveva un cervello piuttosto piccolo ma di peso nella media, e che la corteccia cerebrale era più sottile ma con un impacchettamento più serrato dei neuroni. E allora dov’era localizzato il suo talento? Anderson suggerì che quell’impacchettamento doveva tradursi in un’economia del processo mentale del grande fisico. Una tesi che comunque non diceva molto sul suo genio. Nel 1997 la vicenda del cervello di Einstein sfiorò la farsa. A Harvey venne in mente di incontrare Evelyn, la nipote di Einstein, in California e il giornalista scientifico Michael Paterniti, che aveva fiutato la storia, si offrì di accompagnarlo. 1 due affittarono un’enorme Buick Skylark, un’automobile da film poliziesco, e si misero in viaggio con le porzioni del cervello in un contenitore a chiusura ermetica riposto in una sacca da viaggio. Così, il giovane Paterniti e l’84enne Harvey attraversarono il New Jersey e l’Ohio, passarono per Kansas City, Los Alamos e Las Vegas, e raggiunsero Berkeley in California dove incontrarono Evelyn. Dopo i primi convenevoli, Harvey, ormai stanco, la buttò lì: «Signora, io vorrei farle dono di questi preziosi resti...». Neanche per sogno: Evelyn | rifiutò. Non solo. Al momento di congedarsi, | quando Harvey dimenticò il contenitore, lei glielo fece notare: il cervello del nonno proprio non lo voleva. Stufo di tutto, Harvey depositò definitivamente i reperti al dipartimento di patologia di Princeton. Nel 1999, Sandra Witelson, della McMaster University di Hamilton, nell’Ontario, pub- blicò un articolo su Lancet. Ora l’attenzione della scienza si spostava sulle foto scattate da Harvey durante l’autopsia. Witelson notò che la «scissura di Silvio», il solco che divide i lobi parietali e frontali da quello temporale, s’interrompeva in un punto. Così un’altra congettura: l’anomalia era il risultato di un rapido sviluppo del lobo parietale la cui parte inferiore è responsabile della capacità di visualizzare il movimento di oggetti nello spazio e del pensiero logico-matematico, le doti del fisico teorico. Era la tanto attesa soluzione dell’enigma? Si trattava pur sempre di uno studio su fotografie. Come notarono i critici, l’anomalia poteva essere un semplice segno sulla corteccia. Nel 2009 un articolo su Medicai Hypotheses ribaltava il vecchio studio di Diamond: il valore ridotto del rapporto tra neuroni e cellule gliali era il segno di autismo. Restava solo un’ipotesi. L’odissea del cervello del genio intanto non si fermava. Negli anni Sessanta Harvey aveva dato un set di fette a William Ehrich, neurologo dell’ospedale di Filadelfia. Quando Ehrich morì, la vedova le passò alla neuroioga Lucy Adams, che decise di donarle al Miitter Museum di Filadelfia. Qualche mese fa, Marius Kwint, «senior lecturer» di cultura visuale all’Università di Portsmouth e curatore della mostra, ha ricevuto due fette del cervello proprio dal Mütter Museum di Filadelfia. Non potevano mancare tra i 150 pezzi di un’inizitiva il cui scopo, dice Kwint, «è spiegare non il cervello ma cosa gli esseri umani hanno fatto ai cervelli umani». Kwint ha messo a disposizione di Panorama i dettagli della storia e alcune note dello studioso Brian Burrell. Una delle recensioni di Burrell portava il nome di un’italiana, Marina Bentivoglio, neurologa all’Università di Verona. Raggiunta telefonicamente, ha esordito dicendo: «Non credo che ricerche anatomiche che si limitano ad analizzare singole sezioni possano risolvere l’enigma». I limiti sono molteplici: il cervello trafugato aveva subito le alterazioni della vecchiaia; studi neuroanatomici di sezioni sottili richiedono tempo e risorse; infine è necessario un campione costituito da un numero enorme di cervelli. Secondo Bentivoglio, «la conclusione significativa è semmai che un individuo con un danno nell’area del linguaggio abbia poi sviluppato talenti particolari». Fine della storia? Assolutamente no: «La possibilità di sapere di più può arrivare da diversi tipi di ricerche: brain imagining per visualizzare l’attivazione di aree del cervello in compiti specifici; la genetica e i nuovi studi sulle proteine e sugli effetti dell’ambiente sul dna». La caccia al segreto del talento, dunque, è ancora aperta. Il punto di partenza con- diviso è che il cervello di un genio non è quello di una persona più intelligente delle altre; semmai quello di una persona dotata di particolari abilità nell’eseguire compiti precisi. Howard Gardner, psicologo di Harvard, ha sviluppato una «teoria delle intelligenze multiple»; intelligenza linguistica, musicale, spaziale, logicomatematica, corporeo-cinestetica... Sebbene, secondo Gardner, Einstein fosse dota- to di un’intelligenza spaziale e logico-matematica eccezionalmente sviluppate, il suo successo derivò dall’integrazione delle sue abilità cognitive con la capacità di porsi domande originali e con certe convinzioni riguardo a come l’universo deve essere descritta. Einstein si ostinò tutta la vita a conte- stare l’assolutezza del tempo e dello spazio (immaginava di cavalcare un raggio di luce cercando di indovinare le conseguenze). Nel libro Formae Mentis Gardner ha concluso che il suo genio «risiede nell’audacia di avere concepito il problema, nella tenacia nel perseguirlo e nella sottigliezza con cui ne valutò la connessione con gli interrogativi più basilari sulla struttura dell’universo». Lo storico della scienza Geraid Holton ha aggiunto che per il padre della Relatività è stata cruciale la fede in un valore di riferimento, il convincimento che devono esserci leggi semplici che unificano i vari fenomeni. È stato questo complesso di fattori a produrre la grande rivoluzione della teoria della Relatività. Se anche la scienza identificherà le abilità cognitive e il loro rapporto con la struttura del cervello, il successo di coloro che a posteriori chiamiamo «geni» resterà sempre un fenomeno imponderabile.