Stefano Lorenzetto, Libero 6/6/2012, 6 giugno 2012
TOSI: «ORA FACCIO LA RIVOLTA FISCALE E FORSE UN FIGLIO»
Che cosa non ha funzionato fra lei e il Senatùr? Perché non vi siete mai presi? «Bella domanda. Ci sono due aspetti. Il primo è che io sono uno spirito libero. Tendo ad ascoltare e a confrontarmi, però sono il sindaco di Verona e quindi alla fine prendo le decisioni in quanto sindaco di Verona e prendo quelle più utili alla città. Se il partito ha un’idea ma la città ne ha un’altra, io devo assecondare la seconda. Ora è evidente che in un partito si preferiscono gli allineati agli spiriti liberi. Il secondo aspetto è che, avendo tanto da fare, non bazzico la segreteria federale di Milano, come fanno invece altri, sistematicamente, solo per ingraziarsi il capo. Io sono uno che lavora sul territorio e vado a rompere le scatole agli organi superiori solo se è indispensabile. Questo ti fa percepire come più distante dal movimento. Inoltre, come dice il proverbio? Dagli amici mi guardi Iddio, che ai nemici ci penso io. Se non sei molto presente nelle stanze centrali del movimento, qualcuno che ne approfitta per metterti in cattiva luce con Bossi c’è sempre. Nel mio caso è accaduto. Ma io me ne fotto. Tanto, alla fine, i conti tornano sempre. Chi si comporta bene e fa il suo dovere, non deve temere nulla. Come diceva Seneca, il tempo scopre la verità». IL CICLONE GIUDIZIARIO Si aspettava il ciclone giudiziario che s’è abbattuto sulla famiglia Bossi per le spese private sostenute utilizzando i rimborsi elettorali versati dallo Stato alla Lega? «In queste dimensioni e con queste modalità, no. Che la gestione familistica del partito prima o poi esplodesse, sì. Iosono fra i pochi che hanno avuto la temerarietà di uscire allo scoperto e di andare allo scontro frontale, ma in tanti non ne potevano davvero più, anche fra quelli che facevano finta di non vedere. Era evidente che Bossi subiva le pressioni quotidiane del clan che gli stava intorno». (...) «Questi s’erano convinti che il partito fosse cosa loro. Ma il potere vero era concentrato nelle mani di Manuela Marrone e Rosi Mauro, che comandavano scavalcando il Consiglio federale. Quello che decidevano, diventava legge. Se Bossi non avesse avuto problemi di salute, non avrebbe mai candidato suo figlio, mai. Sapeva benissimo che era un errore madornale. Non è in questo modo che si fa carriera nella Lega». La moglie ha pensato a una successione di tipo dinastico. «Voglio mettermi per un attimo nei panni di Manuela Marrone. Lei non è il capo del partito, anche se si comportava come se lo fosse. È la mamma di Renzo Bossi, un ragazzo di 23 anni. Più che comprensibile, dal punto di vista umano,che una madre aspiri a una carriera prestigiosa per il figlio. Sarebbe anormale il contrario. Le va dato atto d’aver fatto candidare il Trota non a Varese, bensì a Brescia, fuori dal territorio d’origine, e senza pretendere che venisse inserito nel listino bloccato, quindi costringendolo ad andare a raccogliersi le preferenze. Sarà stato aiutato dal cognome che porta, non dico di no. Ma ha dovuto battere da cima a fondo la provincia bresciana». LA RIVOLTA FISCALE È favorevole alla rivolta fiscale che l’onorevole Luciano Cagnin, capogruppo della Lega nella commissione industria del Senato, ha suggerito agli imprenditori del Nordest strangolati dalle tasse? «La rivolta fiscale puoi sostenerla con senso di responsabilità quando le conseguenze non ricadono sull’imprenditore o sul cittadino. Esemplifico. Un decreto legge del governo Monti ha stabilito che ciascun ente locale versi alla tesoreria statale il 50 per cento delle disponibilità liquide esigibili depositate presso il sistema bancario comunale. Che già mi pare un’idea fuori dalla grazia di Dio. Restano escluse dall’applicazione della norma, quindi non devono essere riversate allo Stato, le disponibilità degli enti qualora provenienti da operazioni di mutui, prestiti o altre forme di indebitamento. Pertanto il Comune di Verona, avendo effettuato tutti i regolari pagamenti ai creditori, non ha provveduto ad alcun versamento presso la Banca d’Italia, in quanto le somme sul proprio conto di tesoreria erano appunto rappresentate esclusivamente dai fondi derivanti da operazioni di mutui, prestiti o altre forme di indebitamento. In futuro, a garanzia dei cittadini contro l’ingiustizia di questo decreto governativo, io mi dichiaro pronto ad aprire fin d’ora un conto corrente diverso, intestato al Comune, nel quale far confluire l’eventuale liquidità. E così quei soldi resterebbero a Verona anziché finire a Roma. Ne ho già parlato con i miei uffici, è una decisione tecnicamente fattibile ed è legittima. Però lo faccio io, Flavio Tosi, in veste di sindaco, assumendomi tutte le responsabilità del caso, non solo politiche ma anche davanti alla legge. Mi sono spiegato? Ma dire ai cittadini di non pagare l’Imu significa mandarli allo sbaraglio ». L’ERETICO FA PACE CON IL COLLE Ma lei condivideva le sparate di Bossi sui fucili pronti a sparare, sul celodurismo, su Roma ladrona? «Io sono molto pragmatico. La demagogia non è nel mio stile. Evito di parlare di cose irrealizzabili, anche quando si presterebbero a diventare argomenti propagandistici formidabili. Per demonizzarmi, gli avversari interni della Lega dicevano che ero un eretico perché non inneggiavo alla secessione, perché facevo esporre il tricolore, perché avevo osato invitare il capo dello Stato a uno spettacolo operistico in Arena. Dimenticandosi che sono stati loro a dire per anni: “Giorgio Napolitano è una persona perbene e un punto di riferimento, Giorgio Napolitano è amico nostro”. Io almeno, appena eletto, ho evitato di esporre il suo ritratto ufficiale nel mio ufficio,ho appeso al muro la foto di Sandro Pertini. Ma adesso che ho cambiato la mia idea sul capo dello Stato e che ho imparato ad apprezzarne le qualità, non è che tolgo di nuovo il ritratto e torno a parlar male di Napolitano solo perché la Lega è passata all’opposizione». Che impressione ha ricavato incontrando il capo dello Stato? «M’è piaciuto. Ho visto un galantuomo d’altri tempi, per di più molto affabile. Abbiamo conversato a ruota libera, anche dei suoi predecessori. Invidiava molto lo stato di salute di Oscar Luigi Scalfaro, che aveva già superato i 90 anni. “Lui si mantiene sano perché ha sempre camminato molto”, mi ha detto». Avete conversato anche di politica? «Sì». E vi siete trovati d’accordo? «Be’, sono rimasto spiazzato da una domanda che il presidente mi ha posto a bruciapelo mentre eravamo sotto gli arcovoli dell’Arena, in attesa di entrare in platea per l’inizio della Traviata: “Ma perché voi leghisti non riproponete la questione del Senato federale, che vi siete un po’ lasciati scappare di mano? Il Senato delle regioni è una proposta importante” ». IL SINDACO CON LA PISTOLA Riceve tante minacce? «Il giusto. Ma non ci do peso. L’ultima lettera, contenente due proiettili calibro 9 che sono stati presi in consegna dal Ris di Parma, mi è stata recapitata per farmi desistere dal progetto del traforo delle Torricelle. Mi spediscono gli avvertimenti mafiosi in municipio e anche a casa, segno che sanno dove abito. Il fatto più grave mi capitò quand’ero segretario provinciale della Lega e consigliere comunale. Un vero e proprio attentato. Mi bucarono il serbatoio della mia Alfa 75, parcheggiata in strada, confidando nel fatto che fosse semivuoto, perché l’auto era dotata anche di impianto Gpl. Durante la marcia, la benzina, ondeggiando, sarebbe fuoriuscita; col calore del tubo di scarico, che passa vicino al serbatoio, avrebbe potuto prendere fuoco e l’auto sarebbe esplosa. Per fortuna avevo appena fatto il pieno e così mi accorsi della pozzanghera di carburante che s’era formata sotto le ruote. Comunque ho chiesto alle autorità preposte di non potenziare ulteriormente le misure di protezione: non voglio che altro personale sia distolto dalle mansioni di sicurezza al servizio della cittadinanza. So anche difendermi da solo». E come? «Ho il porto d’armi. Possiedo tre pistole. Una Magnum 45 che mi è stata regalata, una Browning 9x21 e una Beretta 6,35 che posso portarmi dietro perché è piccola, sembra un giocattolino. Per strada non le userei mai. Ma se mi ritrovassi un aggressore in casa, sì». COME DA VINCI Che cosa sognava di fare da grande quand’era bambino? «L’inventore. Ho ancora un album con i disegni a matita delle più strampalate macchine a vapore. Fra l’altro scrivevo a rovescio ». Scrittura speculare. Come Leonardo da Vinci. «Sì, ma mica lo sapevo che Leonardo da Vinci scriveva così. A me era venuto naturale fin dall’inizio. Poi mi sono corretto. Ho cominciato a scrivere a 4 anni. M’insegnò mia sorella Barbara, che frequentava la prima elementare. A 5 sapevo già leggere ». GALEOTTO FU L’ASSESSORE In che modo conobbe sua moglie Stefania Villanova? «In giunta regionale. Stefania è nata a Thiene. Per consolidata tradizione, gli amministratori pubblici si scelgono collaboratori del loro territorio. Lei era la segretaria di Marino Finozzi, leghista, assessore alle Attività produttive, originario dello stesso paese del Vicentino. La prima volta che l’ho vista è stata all’uscita da una riunione che si teneva in sala Pedenin, a Palazzo Balbi. La segreteria dell’assessorato alle Attività produttive è ubicata lì accanto. I nostri sguardi si sono incrociati, questione di un attimo. Io chiesi subito a Finozzi chi fosse quella ragazza bionda e lei a sua volta si fece spiegare da Finozzi chi fosse quel politico atletico». Galeotto fu Finozzi. «Da quel momento ogni tanto io passavo casualmente dalla segreteria di Finozzi e lei altrettanto casualmente veniva nel mio ufficio a chiedermi qualche informazione ». IL FIGLIO CHE VERRÀ Ha sacrificato la paternità alla politica? «Be’, sacrificato... Non ho mica 80 anni». Ma sua moglie ne ha 43. «Al giorno d’oggi non è un’età impossibile per fare un figlio. Del resto, un bambino ha il diritto di vedersi accanto suo padre nei primi anni di vita». Appunto, mi sta confermando che per la politica ha rinunciato alla paternità. «Ho rinunciato finora. Mi auguro che il secondo mandato da sindaco sia meno travolgente del primo e di avere più tempo per me, per noi». E per un figlio? «Ci pensiamo».