Sergio Luciano, ItaliaOggi 6/6/2012, 6 giugno 2012
IL DEFAULT NON RISOLVE I PROBLEMI
Macchè Bengodi: fare default non risolve i problemi di un paese. Adottare il modello Argentina non sarebbe una soluzione per la Grecia o per la Spagna. Chi guarda a Buenos Aires come a una prova della «virtù» del fallimento (che il paese sudamericano visse nel 2001) e che potrebbe essere oggi vissuto anche da Atene e da Madrid, è fuori strada.
In realtà, l’economia Argentina è in un buco nero e non si è affatto giovata del crack. «Le cose laggiù purtroppo vanno male: per la prima volta nella loro storia, l’anno prossimo gli argentini dovranno importare perfino bestiame», dice Victor Uckmar, decano dei tributaristi italiani, che da vent’anni ha studio (oltre che a Genova, Roma e Milano) anche a Buenos Aires e considera l’Argentina come la sua seconda patria e vi trascorre, in una bellissima fazenda, lunghi periodi dell’anno.
Domanda. Quindi, professore, non è vero che aver rifiutato il rimborso dei debiti e ridato spazio all’inflazione abbia aiutato l’economia argentina?
Risposta. Assolutamente no. Dal 2001 in poi, il Paese non ha più potuto ottenere alcun prestito dall’estero, neanche dal Fondo monetario o dalla Banca mondiale. Tutti i rapporti finanziari dello Stato, delle imprese e dei privati con controparti straniere sono saltati. E se ne sono giovati solo pochi speculatori che, nell’imminenza del default, scommisero contro il peso investendo in dollari e lucrandoci.
D. Ma l’inflazione non ha rappresentato un aiuto oggettivo per le casse pubbliche, svalutando il debito?
R. Intanto le statistiche ufficiali parlano di un 10 per cento di inflazione ma quella reale è sul 20-25 per cento, troppo alta per generare qualunque effetto virtuoso. La crisi ha devastato i ceti meno abbienti. Le famiglie oltre la soglia di povertà si calcola siano il 40 per cento. Il governo ha cercato di gestire la situazione varando un plan de trabaco, un piano per il lavoro, che si traduce però unicamente, di fatto, nel pagare un assegno statale mensile ai disoccupati, di poco inferiore a quello pagato a chi lavora, e che purtroppo molti preferiscono a uno stipendio vero e proprio, quand’anche riescano ad ottenerlo. Il tutto ha innescato un diffuso clientelismo politico... E pensare che fino al ’99, col governo di Cavallo, l’economia argentina stava imboccando finalmente la strada dello sviluppo sano.
D. Ma in concreto il governo cos’ha fatto, dopo il default?
R. Ha varato una legge economica di emergenza, tuttora in vigore, che ha bloccato tutte le tariffe pubbliche, con gravissime conseguenze pratiche sull’efficienza dei servizi, e ha introdotto una serie di sussidi sociali e produttivi, intensificando a tutti i livelli l’intervento dello Stato nell’economia. Ma i mercati finanziari continuano a non voler accettare il «rischio sovrano» di Buenos Aires.
D. I rapporti internazionali restano quindi tesissimi?
R. Fatalmente sì, basti pensare che l’Unione europea ha deciso di deferire l’Argentina davanti al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, per comportamenti illeciti. E che gli Stati Uniti, per rappresaglia contro il protezionismo argentino, hanno escluso i prodotti del paese dal sistema di favore che continua a riconoscere invece, a livello doganale, agli altri Stati sudamericani e la Spagna ha appena annunciato che non importerà più biodiesel argentino.
D. Ma allora la tanto sbandierata ripresa dell’economia?
R. Nominalmente il prodotto interno lordo è salito, ma a fronte di un’inflazione devastante. Basti pensare alla soja, che dai 125 dollari alla tonnellata del 2011 è passata nel 2009 a quota 500. Insomma, una ripresa fittizia. Non a caso il governo è intervenuto sull’Istituto di statistica nazionale Ndec, molto serio, costringendolo a dimezzare artificiosamente le rilevazioni oggettive sull’inflazione.
D. Quindi, nonostante il default, il debito estero continua a essere un problema?
R. Sì, anche a prescindere dai 20 miliardi di dollari di contenzioso ancora aperto, il debito estero soggetto a moratoria pesa per 30 miliardi di dollari, che vengono pagati all’8%. Senza possibilità di collocare nuovi titoli per rimborsare i vecchi.