Rich Cohen, Vanity Fair n.23 13/6/2012, 13 giugno 2012
Malta. Colline polverose, mare blu, un vento che non smette mai di soffiare. È il terzo assedio di questa isola mediterranea
Malta. Colline polverose, mare blu, un vento che non smette mai di soffiare. È il terzo assedio di questa isola mediterranea. Prima arrivarono i turchi: nel 1565 intasarono le baie con centinaia di navi ma vennero battuti da un pugno di cavalieri che dormivano dentro le armature ed erano disposti a morire per il loro Dio. Poi vennero i nazisti e i fascisti: durante la seconda guerra mondiale bombardarono La Valletta, ma furono battuti dagli inglesi. E ora sbarca la famiglia Jolie-Pitt, arrivata con un esercito di bambini, bambinaie, guardie del corpo, tutti seguiti da paparazzi pronti a fotografare ogni loro manovra. A suo modo anche questa è un’invasione perché Jolie vuol dire sei figli, quelli adottati in rappresentanza delle regioni sconvolte dalle guerre di un mondo impazzito (Maddox dalla Cambogia, Zahara dall’Etiopia, Pax dal Vietnam), e poi i figli naturali che rappresentano il potere della vita (Shiloh, nata a Swakopmund in Namibia, i gemelli Knox e Vivienne, nati in Francia). La famiglia si è accampata a Malta per World War Z, il film post-apocalittico dove Pitt interpreta la parte di un impiegato delle Nazioni Unite, ed è difficile non leggerci una piccola ironia nei confronti di Angelina l’ambasciatrice umanitaria. La incontro al ristorante De Mondion, all’ultimo piano dell’Hotel Xara Palace, a Mdina, un bellissimo paese su una collina al centro dell’isola. Esce dall’ascensore e arriva sul tetto di roccia, dove i tavoli sono apparecchiati con tovaglie di lino bianco, posate d’argento e misteriose forchettine. Il ristorante non ha una bella vista, ma domina la campagna inondata dal sole con la luce violenta di un quadro di Caravaggio, che proprio qui scappò dopo avere ucciso un uomo a Roma. L’email con cui mi è stato dato l’appuntamento includeva messaggi precedenti, in uno dei quali Angelina scriveva a un suo assistente: «Cena presto, 6.30, posto b, tavolo fuori. Xxx». Proprio stamattina il Daily Mail ha pubblicato foto di Pitt e Jolie in questo stesso posto, con il titolo «Appuntamento déjà-vu! Brad Pitt porta Angelina Jolie nello stesso ristorante romantico di Malta dove ha cenato con Jennifer Aniston otto anni fa». Il locale è deserto, svuotato per l’occasione. Solo alcune guardie del corpo. Quando sei una star di questa grandezza una buona parte della vita se ne va in problemi logistici. Angelina mi porta a un tavolo lontano dai camerieri e dallo chef, che in cucina smanetta per prepararci la cena. Poi sprofonda nella sedia e sorride. Il sorriso è quello grande, quello da attrice. Indossa un vestito nero, con una scollatura profonda. Ha senso descrivere il suo corpo? Conoscete i suoi occhi, i suoi denti, le sue labbra deliziosamente piene, le sue lunghe dita e il corpo che è magro e non magro allo stesso tempo. Ordina insalata di aragosta e una fetta di dentice, innaffiata da un Chianti che il cameriere definisce «okay». È a Malta da qualche settimana, le chiedo che cos’ha fatto la sua famiglia. «I bambini hanno imparato la storia dell’isola e hanno visitato le catacombe», mi risponde. «Volevo che avessero un’esperienza completa, quindi li ho fatti andare senza di me». Nel senso che, se ci fosse stata lei, avrebbe disturbato l’esperienza? «Forse. Quindi, per non sbagliare...». Che cos’ha fatto oggi? «Sono stata coi bambini. Di solito abbiamo una lezione di nuoto la mattina per i gemelli, e poi arte. I maschi hanno fatto questa pazzesca pedicure con i pesci. È una di quelle cose di cui non si dovrebbe parlare nelle interviste, eppure... Ci sono pesci qui che mangiano la pelle morta dai piedi. Ho pensato fosse divertente». Non è doloroso? «Per niente: morivano dal ridere, dicevano che faceva il solletico. Gli altri intanto stavano in casa – abbiamo preso in affitto un posto molto bello – a nuotare e dipingere. E a giocare con la tartaruga». Arriva il vino e cominciamo a parlare della cosa più importante, In the Land Of Blood And Honey, il film del suo debutto alla regia, una love story ambientata nell’inferno dell’assedio di Sarajevo, vent’anni fa. Le chiedo se c’è uno specifico episodio che ha scatenato la sua curiosità, che l’ha fatta sedere al computer, che l’ha motivata a scrivere. «Avevo l’influenza», dice. «Per due giorni ho dovuto stare separata dai figli. Ero nella soffitta di una casa in Francia, isolata, a camminare avanti e indietro. Non guardo la Tv e non avevo nulla da leggere: così ho cominciato a scrivere». Il suo interesse per la guerra – per quello che succede alla gente comune in tempi terribili – risale almeno al 2000, quando andò in Cambogia a girare Lara Croft. Lì vide per la prima volta le conseguenze di un conflitto, gli uomini e le donne mutilati dalle mine dei Khmer Rossi, le mani, le braccia e le gambe troncate. «Ho capito che c’erano molte cose, nel mondo, di cui ignoravo l’esistenza, e ho deciso di imparare. Ho comprato libri su ogni argomento: le regioni geografiche, le organizzazioni non governative, gli organismi internazionali. Quando ho aperto a caso una pagina sull’esodo dal Ruanda, mi sono bloccata. Non avevo nessuna conoscenza del problema dei profughi. Ho chiamato le Nazioni Unite. Ho detto: “Non mi conoscete, ma mi piacerebbe andare in Sierra Leone. Mi pagherò le spese se mi lasciate dormire nei vostri campi”. Prima ho viaggiato con loro per due anni, poi ho iniziato a impegnarmi sul serio». Risale a quel tempo l’adozione del figlio più grande – Maddox, un orfano cambogiano, vittima indiretta dei Khmer Rossi – e l’inizio dell’attività umanitaria che fa da sfondo a In the Land Of Blood And Honey. Il film racconta una storia d’amore che inizia in pace e finisce in orrore. «La gente giudicherà da sola: io credo che, se fai un buon film, il pubblico esce dalla sala discutendo». Osserva la campagna. Il sole è calato, i bicchieri di vino sono vuoti, il vento soffia, le stelle luccicano come lanterne gialle. «C’è un modo di dire», continua. «“Se non ti spaventa, non vale la pena farlo”. Credo sia molto vero. Mi piace stare a casa coi miei figli. Mi piacciono le cose semplici e mi domando perché non posso godermele e vivere tranquilla. Ma non sarei felice, non sentirei che la mia vita ha molto valore». Le chiedo se l’esperienza alla regia cambierà il suo modo di lavorare come attrice. Ride: «Brad pensa che mi trasformerò in un incubo. Che sarò impaziente con i registi. Cosa che, peraltro, già sono». La raggiungo al telefono, qualche giorno più tardi. Ha lasciato Malta: adesso è a Londra. Mi ha detto che non vede molti film. «Mmm mmm» di assenso. E che, quando ci prova, spesso si addormenta. Nuovo «mmm mmm» di assenso. Ma i film di Brad li guarda? «Da quando stiamo assieme, ho visto tutti quelli che hanno richiesto la nostra presenza alla prima». Il suo preferito? «Penso sia L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford. Ma vede, quando vivi con un artista quello che rispetti non è il prodotto finale: è il processo che ha portato a quel prodotto. So che in quel film Brad si è preso dei rischi, si è battuto per quello in cui crede. Quando ha subito pressioni non ha ceduto, e ha fatto un film bellissimo». Sento una voce sullo sfondo. Credo sia Shiloh che chiede un cerotto. «Va bene, tesoro, va bene, va bene». Le chiedo se crescere dei figli le ha fatto cambiare idea sui propri genitori. Penso alla relazione burrascosa con suo padre, Jon Voight, ma lei mi parla solo della madre Marcheline Bertrand, morta nel 2007. «Avere dei figli me la fa rispettare ancora di più, perché essere una mamma single, come era lei, dev’essere dura. È bello parlare alla persona con cui stai dividendo questa esperienza, ridere di qualcosa che i bambini hanno combinato. Ti guardi negli occhi e sai che tutto andrà bene. Penso sia difficile, per un genitore solo, non avere nessuno con cui condividere queste cose. Ma ci sono anche gli aspetti positivi. Non avere un altro genitore mi ha avvicinato a mia madre e a mio fratello. Di notte stavamo a letto a guardare la Tv. Mia madre, per me, era come una sorella». Di marina cappa e isabella mazzitelli claudio bisio sandra bonzi «Come se la mamma fosse fuggita di casa» Sposarsi non per il matrimonio, ma per dare una stabilità e una sicurezza ai figli, o al compagno. Succede a tanti, nell’Italia dove le coppie di fatto non hanno diritti, ed è successo a Sandra Bonzi, fresca autrice per Rizzoli di Stress & the City – libro smaccatamente autobiografico su una classica famiglia 2+2+1 (cane) –, moglie di Claudio Bisio. Una moglie tardiva. «Sì: ci siamo sposati nel 2003, ma stavamo insieme da dieci anni e avevamo già Alice, che è del ’96, e Federico, che è del ’98». Matrimonio con i figli paggetti? «Paggetti è una parola grossa: Alice ha portato le fedi ed era arrabbiatissima perché non avevo l’abito bianco, e Federico ha lanciato il riso. Forse lui era il più emozionato, ma tutti e due hanno talmente gradito la festa, per semplice che fosse, che ci hanno chiesto: “Vero che lo rifate?”». A giudicare dal tempo che ci avete messo, non eravate molto interessati a quel pezzo di carta. «No, anzi: temevamo che portasse anche un po’ “sfiga”. Non sono superstiziosa, ma le cose erano andate così bene fino ad allora… E poi, sia per me che per Claudio, due figli sono più che sufficienti a dimostrarsi amore e impegno reciproco». Poi però l’avete fatto: perché? «Per motivi pratici. Un amico notaio ci disse che secondo lui la nostra situazione era pericolosa. Io avevo la residenza a Bolzano, diciamo per motivi affettivi: è lì che sono nata e cresciuta, lì che vive ancora una parte della mia famiglia, lì che sento le mie radici. Per questo non l’avevo spostata, nonostante qualche piccolo disagio burocratico. Quando però Alice ha compiuto 3 anni abbiamo scoperto che, mentre per le coppie sposate fa fede la residenza del nucleo familiare, nel nostro caso la residenza dei figli “segue” quella della madre. Ecco perché non mi era arrivato il modulo d’iscrizione alla materna dal Comune di Milano: lei, come me, risultava residente a Bolzano». Che cosa avete fatto? «La cosa più semplice sarebbe stata sposarsi, oppure spostare la mia residenza. Noi invece siamo andati dal giudice tutelare che, poverino, proprio non capiva: “Ricapitoliamo, voi siete separati e suo marito non paga gli alimenti…”. Un pasticcio: dal punto di vista burocratico, in assenza di matrimonio o di mio cambio di residenza, l’unico modo di far risultare i bambini residenti a Milano, la città del padre, era affidarli a lui, più o meno come se io fossi andata via di casa. Situazione che sarebbe stata molto rischiosa, però, se a Claudio fosse successo qualcosa di grave. Certamente si sarebbe chiarito alla svelta come stavano davvero le cose, ma meglio evitare, no? Anche perché invece, se fossimo stati sposati, una mia diversa residenza non sarebbe stata un problema». Quindi, nozze? «Sì. Però non esiste, non è giusto, ma perché? Che cosa cambia la burocrazia nella nostra vita, nella nostra relazione? Non deve incidere, e difatti non ha inciso». L’obiezione che si fa a chi convivendo reclama gli stessi diritti dei coniugi è: allora sposatevi. «Non devono esserci discriminazioni tra cittadini, però. E più in generale: io non impongo la mia visione a nessuno, ma voglio essere lasciata libera di scegliere. Chiedo rispetto. Non è che poi le coppie sposate siano più durature, no? Anzi, i problemi di mancata tutela delle mogli che nascono dalla separazione a volte sono enormi, e i giudici non riescono a risolverli più di tanto». michele placido federica vincenti «Pensando al figlio, e aspettando il divorzio» Tre almeno, ma spesso di più, sono gli anni che dividono la separazione dal divorzio. Può capitare così che una donna e un uomo intenzionati comunque a sposarsi siano costretti ad aspettare, e vivano come coppia di fatto, quindi in assenza delle tutele riservate a chi è coniugato. Da tempo si discute, con diverse proposte di legge, sulla possibilità di abbreviare l’iter, limitando il periodo di separazione da 3 a 1 anno, ma per il momento nulla è ancora cambiato. Fra le persone che hanno dovuto aspettare che arrivasse il divorzio per sposare la nuova compagna, c’è Michele Placido. L’attore e regista, che al Mercato dell’ultimo Festival di Cannes ha presentato il film che ha appena girato in Francia, Le Guetteur, sposerà il 14 agosto in seconde nozze Federica Vincenti, sua compagna da una decina d’anni e mamma del suo ultimo figlio, Gabriele. Separato da una quindicina d’anni, solo 3-4 anni fa, quando insieme hanno pensato che sarebbe stato bello sposarsi, Placido ha avviato le pratiche del divorzio. «E adesso che ci sono le carte è naturale che ci sposiamo», dice. Quindi, lei crede al matrimonio. «Io non sono né favorevole né contrario al matrimonio, nel senso che trovo giusto che ognuno faccia come desidera. Ma per quello che mi riguarda: se decido di sposarmi, significa che ci credo». Quali sono i vantaggi dello sposarsi? «Il matrimonio è un meccanismo di riconoscimento di una storia d’amore». Riconoscimento da parte di chi? «Un riconoscimento pubblico alla coppia, ma anche una forma di affetto. Mi sembra giusto farlo con una donna che mi ha dedicato dieci anni della sua vita, e mi sembra giusto anche nei confronti di nostro figlio». Sarà una cerimonia civile, visto che lei è già stato sposato? «Non so ancora. Potrebbe poi anche esserci un annullamento». E come si svolgerà? «Sarà anche l’occasione per fare una bellissima festa, e riunire quel giorno intorno a noi tanti amici». Di Andrea Annaratone Fanatismo [fa-na-tì-smo]: entusiasmo esagerato che assume forme di esaltazione e di mania». Chi fanatico non è ha a disposizione diversi modi per capire che cosa possa spingere orde di fanatici da tutto il globo a drenarsi finanziariamente, rovinarsi i nervi e rischiare la salute per andare a vedere un solo concerto. Uno dei più efficaci: assistere alla prima data di un tour mondiale di Madonna. Tel Aviv, mercoledì 30 maggio 2012, Ore 11 Il Big Day è arrivato: poche ore ci dividono – me, e le decine di migliaia di persone accorse da tutto il mondo in Israele – dalla prima e si spera imperdibile data del nuovo tour di Madonna. 53 anni, 12 album, 9 tour di cui 8 «mondiali» e una scelta, quella di Tel Aviv, che non è casuale: è nota la sua devozione alla Kabbalah, l’antico misticismo ebraico. Nell’epoca di Twitter e Facebook è davvero arduo riuscire a evitare tutte le notizie che trapelano: ricordo quando, anche a tour iniziato da tempo, bastava tenersi alla larga da Ciao 2001 e Rockstar per arrivare al concerto nell’ignoranza più totale. Nei giorni scorsi è stata Madonna stessa a postare sul suo profilo Facebook decine di immagini delle prove, con tanto di scenografie e costumi finali. Girando per le strade alla ricerca di qualche segno dell’evento, rimango colpito dalle contraddizioni di questa città: palazzi di cemento armato, privi di gusto estetico e il più delle volte in pessimo stato, ma anche un’atmosfera rassicurante e rilassata. I giovani sono tantissimi, ovunque: sul lungomare fanno sport e in città affollano i bar, dove bevono e ridono come in una qualunque metropoli europea. Forse anche di più. Da queste parti è più facile incontrare una ragazza in costume a spasso sul lungomare che un ebreo ortodosso. Ore 22 Caricato dell’energia positiva di Tel Aviv, parto dopo cena per una perlustrazione del Ramat Gan Stadium. Molti dei concerti di Madonna cui ho assistito sono stati anticipati da interminabili attese di fronte ai cancelli, sotto il sole cocente o diluvi scroscianti. Stasera l’aria è tiepida e voglio andare a vedere che piega prenderanno le cose. A diverse centinaia di metri di distanza, sento arrivare le note di Open Your Heart: mi guardo in giro per capire da dove arrivi la musica, e impiego un paio di minuti per rendermi conto che è proprio lei, Madonna, a meno di 24 ore dall’inizio ufficiale del tour, impegnata nella prova finale. È difficile spiegare fino a che punto la ex Material Girl sia puntigliosa e quanto chieda a se stessa (e a chi lavora con lei). Alcuni ragazzi intenzionati a passare la notte allo stadio mi raccontano che stasera la prova si sta svolgendo completamente dal vivo, ma che ieri – come accade prima dell’inizio di ogni tour – ha fatto una cosa che mi lascia sempre a bocca aperta: una sosia sul palco, con band e ballerini al completo, e lei che assisteva allo show da spettatrice. Riuscire a toccare le transenne e avere la possibilità di strapparle uno sguardo durante la prima data del tour è anche questo: vedere la concentrazione totale che nasconde dietro un sorriso teso, dietro ogni movimento. Mi aggiro a ridosso del perimetro dello stadio, accompagnato dalle note di Vogue, Express Yourself e Like A Prayer, fino a trovare quello che stavo cercando: su una collinetta un centinaio di fan, con lo sguardo fisso oltre un muro basso. Mi intrufolo nel gruppo e osservo i loro sorrisi. Non capisco i commenti, parlano lingue che non sempre riconosco, sono russi, francesi, brasiliani, ma in un attimo sono uno di loro. Conosco Shay e Avi, di Tel Aviv: il primo, 29 anni, ha viaggiato in Europa e negli Stati Uniti per seguirla negli ultimi due tour. Avi, che di anni ne ha 36, mi racconta, invece, di quando a 17 rischiò l’arresto per essersi infilato nell’hotel dove la cantante stava riposando per la data israeliana del Girlie Show: arrivato a pochi passi dalla sua suite, venne bloccato dalle guardie del corpo, e solo il fatto di essere minorenne gli risparmiò una nottata al commissariato. Delvin, 30 anni, make-up artist da Porto Rico, ha visto Madonna 26 volte live e ha un progetto ambizioso: infrangere a ogni nuovo tour il record di date viste in quello precedente (dell’ultimo, Sticky & Sweet, ha assistito a dodici serate). Per sua madre, lui ufficialmente è a Parigi per uno stage. La signora non immagina che il figlio tra poco dormirà per terra in attesa del Grande Evento. Riconosco la passione di questi ragazzi: tante volte anch’io sono stato al loro posto. Ma da qualche anno preferisco concedermi un costoso biglietto del Golden Ring, arrivare un paio di ore prima dell’inizio e stare a qualche metro da lei, piuttosto che passare dodici ore in una sfiancante fila e vivere il traumatico momento dell’apertura dei cancelli (ressa, urla, pianti, svenimenti) e la corsa che segue. Stasera, però, le cose andranno diversamente. Stasera sono qui come giornalista. Giovedì 31 maggio 2012 Ore 17 Dopo 40 minuti nel traffico caotico, arrivo al Ramat Gan Stadium. Mi colpisce subito il dispiego di forze dell’ordine. Militari e polizia presidiano ogni spiraglio. Ognuno col proprio biglietto ha un percorso obbligato. Entro nella tenda allestita per la stampa internazionale: ad attendermi sushi, champagne e leccornie di ogni tipo. Riesco a bere solo un bicchiere d’acqua perché la mia testa è già dentro, non riesco a pensare ad altro. Mi siedo nella tribuna giornalisti. Istintivamente scelgo la sedia più centrale, quella più in basso, per essere anche di pochi metri più vicino al palco. Comincio a pensare che sarà un’agonia vederla da così lontano: io che ho sempre lottato per arrivare il più vicino possibile, io che a Parigi ero nella «fossa» inserita nel palco e che l’ho vista ballare a mezzo metro da me. Sì, questa sera sarà un’esperienza nuova: stringerò i denti e mi godrò lo spettacolo nel suo complesso. Ma non sono molto convinto. Ore 21.35 Dopo una falsa partenza – luci spente e riaccese nel giro di pochi secondi – lo show ha inizio. Abituato ai concerti italiani e francesi, sono stupito dall’aplomb del pubblico israeliano: pochi cori, qualche applauso, niente più. Il brusio del pubblico viene però squarciato da un boato quando un enorme turibolo comincia a oscillare sul palco, e io mi sento fuori posto in mezzo a decine di giornalisti annoiati. Una cattedrale gotica si staglia sui megaschermi. Non finisce di stupirmi la sua vitalità, la sua voglia di essere la migliore: e si prende anche la soddisfazione di inserire un paio di strofe di Born This Way di Lady Gaga all’interno di Express Yourself, nel caso qualcuno non si fosse accorto di quanto siano simili. She’s Not Me, urla. I fan lo hanno sempre saputo: There’s only one Queen, and that’s Madonna! *Andrea Annaratone, milanese, 40 anni. Dal 2001, dai tempi del Drowned World Tour, ha visto Madonna a Milano, Roma, Parigi, Londra, Barcellona, Cardiff, New York e Tel Aviv. Nel 2000 pure alla Brixton Academy di Londra, e agli Mtv Europe Music Awards del ’98. Di Angelo Bruni «Sotto le mie unghie di leone c’è solo pelle bianca». Paul scuote la matassa di treccine rasta tenute con cura estrema, e ride di gusto. «Sarò stato con almeno una quarantina di donne, tutte muzungu, donne bianche. A me piace così». Come molti altri, lui e il suo amico James passano le giornate tra la spiaggia di Silver Sand, i lavoretti nei villaggi vacanze, qualche safari per i turisti o a fare il caddie nei campi da golf della costa keniota. Ma il vero obiettivo è conquistare una sugar mama che risolva tutti i loro problemi. Che, come è noto, sono solo problemi di soldi. Se al Festival di Cannes ha dato scandalo Paradise: Love – il film di Ulrich Seidl su una cinquantenne austriaca che va in Kenya alla ricerca di giovani neri con cui fare sesso –, lungo le bianche coste dell’Oceano Indiano quella storia è assoluta normalità. Tra Diani, Watamu e Malindi sono decine e decine i giovani neri che pattugliano spiagge, pub e discoteche lanciando sguardi languidi a più o meno attempate turiste. «Non è solo un lavoro: per noi è la speranza di cambiare vita». Paul è uno di loro, con i suoi amici ha scelto come «ufficio» un bar sulla strada principale alla periferia di Malindi. Camicia aperta su muscoli spessi e veri, occhi che ridono e lingua sciolta, arriva da uno dei minuscoli villaggi di capanne fatte di fango e foglie di palma sparpagliati lungo la costa. Con lui vivevano sette fratelli e cinque sorelle («Mio padre ha avuto due mogli»). Paul ha studiato poco, ma conversa tranquillamente in inglese, francese, italiano, e naturalmente swaili. Per lui le parole «sfruttamento», «vergogna» e «amore» non hanno alcun senso. Vivere per il sesso o fare sesso per vivere è la stessa cosa. «Voi non capite, o fate finta di non capire. Per noi c’è la fame. E quando sei giovane non puoi nemmeno andare con una ragazza del tuo villaggio, la famiglia lo sa subito e ti chiede molti soldi solo se la frequenti. I genitori di lei vanno dai tuoi e dicono: “Tuo figlio è responsabile di tutto quello che succede a mia figlia, e se la vuole sposare deve pagarmi tutto quello che ho speso per il suo mantenimento. Si paga in capre o mucche, l’equivalente di mille, duemila euro, dipende se ha studiato o no. Ma chi li ha tutti quei soldi? Allora andiamo con le muzungu: almeno pagano loro». È così che ha iniziato? «Io sono fortunato: sono bello! Anzi, ero bello perché ormai adesso sono vecchio, ho già 32 anni. Ma quando ne avevo 23, e mi sono sposato con una francese, ero bellissimo. Mi chiamavano “il modello”». Si è sposato con una bianca? «Sì, aveva 24 anni più di me. Sono andato a vivere in Francia con lei. Ci sono stato quattro anni. Un inferno». Non era innamorato? «Non è mai amore. Noi facciamo l’amore: trombiamo. Se per amore intende quello per la famiglia, i parenti, allora sì. Andando con le donne bianche mettiamo a posto tutta la nostra famiglia, a volte per sempre. Questo per me è amore». E non importa come è lei: bella o brutta, simpatica o antipatica, intelligente o stupida? «Non importa nulla. Giovane o no, grassa o magra, guardi solo quanti soldi puoi fare. E speri. Io sono stato anche con donne fantastiche, modelle. Un giorno camminavo sulla spiaggia con una veramente bella e mi ha fermato Briatore. Credeva fosse sua moglie, invece era solo una che le assomigliava». Non ha paura delle malattie? Usa il preservativo? «A noi neri non piace, ma se devi, ok. Però non sempre le donne bianche lo pretendono. Le giovani sì, tutte, ma più sono avanti con gli anni meno lo chiedono. A molte non importa nulla». C’è una tecnica di conquista? «I ragazzi stanno sulla spiaggia, aspettano che le donne vadano a camminare per – come dite voi italiani? – “attaccar bottone”. Oppure in discoteca: noi balliamo bene. Per me è più facile, sono animatore in un club vacanze e non devo fare niente, sono loro che vengono da me. Io so scherzare, so ridere, porto un po’ di vita. Poi non mi drogo, non bevo, non faccio fare brutte figure. Molte stanno con me per questo». Solo italiane? «Noooo: tedesche, austriache, francesi, spagnole e – certo – anche italiane». C’è differenza? «Molta. Le peggiori sono le tedesche. Con loro non puoi mai chiedere soldi o parlare del futuro, se no ti cacciano e si mettono con il tuo amico. Devi aspettare che siano loro a pagarti da mangiare, per il bere non c’è problema, bevono sempre. E devi anche aspettare che decidano di darti qualche soldo. Con le italiane è diverso, sono splendide, gentili. E fanno la prova: stanno a vedere se sei con loro solo per soldi o se invece perché ti piacciono almeno un po’. Allora si innamorano. Tra di noi c’è un modo di dire: alle italiane non devi mai rubare niente, basta chiedere». C’è qualcuno che ruba? «Adesso sono arrivati sulla costa quelli di Nairobi, hanno portato eroina e cocaina. Molti si drogano, così vanno con le straniere, si fanno pagare tutto, le portano fuori a ballare o scopare e intanto avvertono gli amici di andare a svuotare le loro case. Rubano tutto, soldi e gioielli, poi le mandano via». Ma lei che si era «sistemato», che era riuscito persino a farsi sposare da una muzungu, perché poi ha rinunciato a tutto? «Lei era ricchissima: aveva quattro farmacie in Francia. Era arrivata qui nel 2003, come turista: due settimane in villaggio vacanze. Mi ha visto, ci siamo stati simpatici e si è subito innamorata. Ci siamo dati solo qualche bacio. È rientrata in Francia, ma una settimana dopo è tornata, ha affittato una villa, si è fermata tre settimane. Amore no, ma scopare tanto. Alla fine mi ha lasciato cinquemila euro. Non avevo mai visto così tanti soldi. Ero felice. Quando è tornata in Francia mi ha mandato altri seimila euro per fare il passaporto e pagare il viaggio. Ma qui è difficile farsi fare il visto per l’Europa, passava troppo tempo. Allora è tornata e ha detto: “Sposiamoci”. Ok, ho risposto. Matrimonio in Kenya e in Francia». E dove siete andati ad abitare? «Sulla Costa Azzurra. Per quattro anni: una vita d’inferno. Mi chiudeva in casa, non mi lasciava andare da nessuna parte. Quando mi sono iscritto a una palestra, il giorno dopo ha attrezzato una stanza dell’appartamento: “Così puoi allenarti in casa”, mi ha detto. Sono andato due volte in discoteca con amici e lei ha comprato un megaimpianto stereo, “così puoi ballare con i tuoi amici a casa”. Sempre così. A un certo punto non ce l’ho fatta più. Ero ricco ma vivevo in prigione». Come ne è uscito? «Una colletta tra amici, e per un certo tempo ho fatto il muratore. Quando ho raccolto i soldi per l’aereo, me ne sono tornato a casa. Il divorzio l’ho avuto solo tre mesi fa. Lei non voleva darmelo... Ho speso tremila euro per divorziare». E adesso? «Ho una fidanzata di Milano. È giovane, bella e non è neanche ricca. Secondo me, è amore. Tra un po’ arriva». Così si risistema, fa dei figli... «Ma io ho già quattro figli! Sono bellissimi. La più grande ha 12 anni, il più piccolo 3». Chi è la madre? «Una bella ragazza di Kilifi, una Giriama». Ma allora la storia del «leone che ha sotto le unghie solo pelle bianca» è una grande balla! «Che cosa c’entra? Questa è la mia famiglia». Rich Cohen