Sergio Rizzo, Corriere della Sera 7/6/2012, 7 giugno 2012
È davvero bizzarro un Paese nel quale si pensa di risolvere ogni problema creando una nuova authority
È davvero bizzarro un Paese nel quale si pensa di risolvere ogni problema creando una nuova authority. L’ultima in ordine di apparizione è l’organismo indipendente che Camera e Senato dovranno costituire per sorvegliare le pubbliche finanze, previsto dalla legge costituzionale con cui è stato introdotto il pareggio di bilancio. Non bastava la Corte dei Conti, cui la nostra Carta fondamentale assegna quel compito? Per non parlare della Ragioneria generale, considerato il gendarme dell’Erario. E senza considerare che ciascuno dei due rami del Parlamento ha già una propria struttura dedicata all’esame dei bilanci. Il tutto mentre lo Stato ha una vaga idea del perimetro della spesa pubblica, conosce a malapena il numero di stipendi pagati dai contribuenti e ignora perfino quanto guadagnano i suoi alti burocrati: al punto da dover chiedere a loro stessi, per poter applicare il tetto alle buste paga, di dichiarare la reale retribuzione percepita. In compenso, sappiamo con certezza come saranno individuati i membri di questa ennesima authority. Dopo aver visto che cosa è successo con il Garante delle comunicazioni non ci facciamo illusioni. Sia chiaro: nessuno ce l’ha con i singoli. Non con Antonio Martusciello, ex dipendente di Silvio Berlusconi ed ex onorevole azzurro sbalzato fuori ancora giovane dai ranghi più elevati del partito, che non poteva certo ritrovarsi, a soli 50 anni, nella penosa condizione di baby pensionato del Parlamento. Né con Antonio Preto, ex capo di gabinetto del commissario europeo Antonio Tajani e autore di saggi insieme all’ex ministro Renato Brunetta. Ma neanche con Francesco Posteraro, vice segretario generale di Montecitorio sponsorizzato da Pier Ferdinando Casini, che potrà sommare alla lautissima pensione della Camera anche i 260 mila euro dello stipendio da commissario Agcom. E neppure con Maurizio Dècina, considerato superesperto del settore, indicato dal Partito democratico. Ce l’abbiamo con chi li ha scelti, per il modo in cui l’ha fatto. Attendersi che questi partiti rinunciassero alle loro prerogative, magari designando i componenti dell’authority con bandi pubblici europei, era forse troppo. Ma è pacifico che quei 90 curriculum arrivati in Parlamento per la selezione delle candidature nessuno di chi ha avuto voce in capitolo li ha mai aperti. Nemmeno nel Pd. Tutto era stato già deciso nelle trattative interne e con gli altri leader di partito: sfogliando non le note caratteristiche dei candidati, ma il caro vecchio manuale Cencelli in base al quale nella prima Repubblica i partiti si dividevano le nomine nelle aziende pubbliche. Con l’obiettivo non secondario, concedendo a Casini la seconda poltrona dell’Agcom teoricamente di spettanza democratica, di spianare la strada per un posto all’Autorità della privacy al primario dermatologo Antonello Soro, l’ex capogruppo democratico che aveva dovuto liberare quella poltrona per Dario Franceschini. E gli altri, ovvio, non sono stati a guardare. La Lega ha piazzato alla Privacy Giovanna Bianchi Clerici, consigliere Rai. Mentre il partito di Silvio Berlusconi è stato soddisfatto con Augusta Iannini, capo dell’ufficio legislativo della Giustizia prima con Angelino Alfano e poi con Paola Severino, incidentalmente consorte del conduttore di «Porta a Porta», Bruno Vespa. La sceneggiata penosa dei curriculum, quella almeno ce la potevano risparmiare.