Massimo Nava, Corriere della Sera 06/06/2012, 6 giugno 2012
ADDIO AD ANTOINE BERNHEIM, IL SIGNORE FRANCESE DI TRIESTE - È
morto a Parigi, l’altra notte, nel sonno, l’ex banchiere francese Antoine Bernheim, presidente onorario delle Generali, dopo esser stato presidente della compagnia di Trieste tra il 2002 e il 2010 e precedentemente tra il 1995 e il 1999. Aveva 87 anni. Bernheim è stato una figura chiave del capitalismo e della finanza francesi, partner di Lazard dal 1967 al 2005, mentore di imprenditori come Bernard Arnault, François Pinault e Vincent Bolloré. Fu insignito di numerose onorificenze francesi e italiane, tra cui quella di commendatore dell’Ordine delle Arti e delle lettere (2006), Gran Croce della Legion d’Onore (2007) e Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana (2008). «Ogni volta che leggo necrologi sui giornali, trovo nomi di persone che conosco e mi stupisco di non trovarci il mio. Si vede che lassù non mi vogliono...». Questa era una battuta ricorrente di Antoine Bernheim, seguita da una visione talvolta stravagante della vita, del lavoro, del potere, dei soldi, considerati un «mezzo», ma mai abbastanza per ritenersi ricco. «Se non mi vogliono in cielo, perché dovrei smettere di lavorare. La pensione è l’anticamera della morte. Se non fai funzionare i neuroni, ci si rincoglionisce...».
Ho avuto numerose occasioni di raccogliere le sue confidenze, nell’ufficio di Generali, Boulevard Haussmann, a Parigi, con il proposito di un libro di memorie che non si fece mai, vuoi perché Bernheim oscillava fra narcisismo e basso profilo («La mia vita non interessa a nessuno»), vuoi per dettagli contrattuali che sarebbe inelegante rispolverare. Sui segreti delle grandi fortune di Francia — in particolare gli imperi di Bernard Arnault, François Pinault e Vincent Bolloré —, cui aveva contribuito come banchiere d’affari, abbondava di retroscena, attribuendosi il merito di avere inventato le «holding a cascata» che avevano consentito scalate, acquisizioni e costituzioni di grandi società ramificate in diversi settori. E sulle vicende che lo portarono per due volte alla testa di Generali — e come Napoleone, due volte nella polvere — era un fiume in piena di risentimento e amarezza.
Volentieri si apriva al ricordo doloroso della sua infanzia, segnata dalla deportazione di entrambi i genitori nel campo di concentramento di Birkenau e dal coraggioso impegno per mettere in salvo amici e conoscenti della comunità ebraica di Grenoble. Ricordava che sua madre non aveva voluto che fosse circonciso: «Condizione che mi salvò la vita durante retate e perquisizioni, quando i nazisti ci facevano abbassare i pantaloni».
«La mia età — raccontava a proposito della seconda defenestrazione da Generali, nell’aprile di due anni fa — è stata solo un pretesto per farmi fuori. Si voleva a tutti i costi che Generali tornasse in mani italiane. Hanno vinto gli uomini di Mediobanca. Anche il mio amico Vincent Bolloré non ha fatto nulla per difendermi. Parlo poco l’italiano, ma ho inventato una parola nella vostra lingua, la mediocrazia, il regno dei mediocri».
Poi confessava che l’idea di svegliarsi senza nulla da fare gli era insopportabile più della perdita del potere, peraltro mitigata da ricca e contestata buonuscita, da lui considerata «limitata e comunque dovuta». Da allora si era chiuso nel modesto studio privato — un divano, una scrivania, la tv e qualche libro — lontano da salotti parigini, cerimonie ufficiali e avvenimenti mondani che lo avevano visto onnipresente. «Mio padre non può stare solo. Ha l’ossessione della morte», raccontava il figlio primogenito, recentemente scomparso.
«Non mi ritengo una persona insostituibile, i cimiteri sono pieni di gente insostituibile, ma mi sono sentito umiliato, costretto a farmi da parte con manovre dietro le quinte che nulla c’entravano con il bene della Compagnia. Mi hanno considerato un approfittatore, il che mi ha fatto ancora più male. Ma si sa, l’Italia è il Paese di Borgia e Machiavelli. La regola è il tradimento. Bisogna guardarsi sempre alle spalle. Fu così anche la prima volta, con la congiura di Maranghi, il quale a onor del vero, comprese più tardi di aver fatto un errore e cercò di riconciliarsi con me. Anche Cuccia riconobbe l’errore, ma ormai la frittata era fatta».
Nonostante le amarezze, Bernheim amava profondamente l’Italia, Venezia, Trieste, Milano, Roma, la Sardegna. «Il mio rapporto di amicizia con il vostro popolo cominciò durante l’occupazione fascista di Grenoble. Le autorità francesi consegnavano gli ebrei ai nazisti, ma gli ufficiali italiani facevano di tutto per proteggerli e lasciarli scappare. Purtroppo, mio padre non riuscì a salvarsi. Venne arrestato. Mia madre andò al comando della Gestapo per chiedere notizie e non tornò più. Oltre al dolore, il dubbio che avrebbero potuto salvarsi mi ha tormentato tutta la vita».
Bernheim ripeteva spesso un’altra battuta: «La gratitudine non è un sentimento, bensì una malattia dei cani, non trasmissibile agli esseri umani». Immagine cruda, cinica, però rivelatrice della solitudine del personaggio e della sua idea del prossimo. Era schivo, sospettoso, riservatissimo, salvo commuoversi fino alle lacrime nel ricordare l’olocausto e il destino della sua famiglia. Tradiva anche timidezza e — nonostante successi, conoscenze altolocate, relazioni politiche e finanziarie a livello internazionale — un incessante bisogno di riconoscenza pubblica. Avarizia e attaccamento al denaro gli avevano appiccicato addosso l’immagine di un Arpagone del nostro tempo, anche se il suo rapporto con i soldi sarebbe più spiegabile con un trattato di psicoanalisi. Bernheim confidava di non sapere che farsene del denaro, salvo l’immenso piacere di moltiplicarlo con gli strumenti del capitalismo finanziario che sapeva maneggiare da quando era entrato alla banca d’affari Lazard, dopo le prime esperienze nel commercio e nell’immobiliare. «Nessuna cassaforte segue un funerale», diceva.
«Per creare un grande patrimonio è inevitabile derogare qualche regola, salvo inventare qualche cosa di geniale dal nulla, come nel caso di Microsoft. Non si possono fare soldi con gli affari rispettando sempre l’etica. Non mi reputo un maestro di morale, ma ho sempre cercato di avere delle regole. Sono convinto che il capitalismo senza regole porti al disastro e all’anarchia come sta avvenendo di questi tempi. Non credo sia possibile seguire contemporaneamente i propri affari e quelli degli altri. Per questo non sono diventato ricco».
«Non so che cosa voglia dire il tempo libero, avendone pochissimo. Faccio qualche weekend a Venezia, gioco ancora a golf, ma sono un pessimo giocatore e partecipo a qualche torneo di bridge che serve a tenere allenata la mente. La più grande soddisfazione è stata battere Bill Gates».
«La mia vita è stata una continua battaglia — diceva — e ho voglia di combattere ancora. Per questo non mi piacciono i bilanci».
Nonostante rapporti di amicizia con alti prelati, fra i quali i cardinali Lustiger e Scola, era rimasto agnostico. «I miei amici cardinali non mi hanno mai dato risposte entusiasmanti. La fede è la più grande ricchezza della vita, ma non è concessa a tutti. Continuo a pormi delle domande e credo che la religione cattolica sia un po’ meglio delle altre. Contiene quel genere di aspettative che si chiama speranza. In che cosa non so. Io ho attese, non ho la speranza».
Massimo Nava