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 2012  giugno 05 Martedì calendario

LA PARALISI INTELLETTUALE EUROPEA

La crisi del debito pubblico in Europa, ancora aperta, è stata anticipata da quella del debito privato negli Stati Uniti. Si potrebbe pensare a queste esplosioni di panico finanziario come a eventi gemelli, non fosse che fra le molte differenze ce n’è anche una che non ha molto attratto l’attenzione: la crisi americana ha già prodotto una serie di saggi e ricostruzioni che vanno ben oltre la pura cronaca dei fatti; molti di quei libri americani su Lehman o sul crollo dei mutui subprime approfondiscono i motivi dei protagonisti principali, scavano nelle cause meno superficiali degli eventi, ripensano alla teoria economica che dovrebbe spiegare ciò che è avvenuto e, spesso, non riesce a farlo.
In Europa no. La crisi è già vecchia di due anni e mezzo, ma non ha ancora generato un libro che cerchi di definire cosa è successo in un modo che sia, se non accettato, almeno discusso oltre i confini di ogni singolo Paese. Forse dipende dalle difficoltà — istituzionali, politiche — che oggi hanno gli europei a reagire come fecero gli americani all’inizio del 2009: tagliare le perdite, cauterizzare le ferite, cospargere di liquidità il sistema e cercare di ripartire. In Europa continua a mancare la parola fine, lieta o meno, e poiché voltare pagina sembra impossibile (per ora), le vecchie nazioni europee sono entrate come in una condizione di insicurezza cronica.
Anche per questo arriva con perfetta scelta di tempo la traduzione di uno dei classici della letteratura sulla crisi americana. L’ha scritto l’indiano Raghuram Rajan, professore di Finanza all’Università di Chicago ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale. In Italia, dove è uscito da Einaudi, è stato intitolato Terremoti finanziari. Come le fratture nascoste minacciano ancora l’economia globale (pp. 432, 21). La traduzione del titolo rinuncia a rendere l’originale in inglese che punta sul concetto centrale del saggio, Fault Lines, «Linee di faglia». L’idea di fondo di Rajan è che la grande crisi finanziaria occidentale sia stata prodotta appunto dalla frattura di placche tettoniche profonde dopo lunghe tensioni sotterranee. Le linee di faglia sono nella distribuzione sempre più sbilanciata del reddito nelle società avanzate, in quella del risparmio e dell’indebitamento fra queste ultime e le economie emergenti, e nella crescita abnorme del settore finanziario nell’intermediare gli squilibri fra eccesso di debito a Occidente e eccesso di risparmio a Oriente.
Con il rigore del ragionamento, Rajan mostra come negli Stati Uniti il debito (in primo luogo immobiliare) abbia progressivamente sostituito le carenze del welfare, mentre crescevano le distanze fra i redditi e fra i livelli di istruzione dei diversi ceti sociali. Gli incentivi creati dalle amministrazioni di Bill Clinton e George W. Bush a comprare casa, anche per chi non se lo poteva permettere, sono stati assecondati dalla deliberata disattenzione della Federal Reserve. Fino a quando il tessuto del debito si è strappato.
Rajan ha completato di recente la sua analisi, con un richiamo alla crisi europea in «Foreign Affairs». Ma già l’edizione italiana di Terremoti finanziari soddisfa molte delle domande di un lettore europeo, grazie al contributo di Franco Debenedetti. Nella sua prefazione, Debenedetti si chiede quali siano le «linee di faglia» — nell’interpretazione di Rajan — nell’area euro e in Italia. Con rigore, il manager-editorialista ne indica alcune che vanno oltre la pura contabilità del debito. Linea di faglia è «il disegno e il finanziamento del welfare» per molte delle democrazie occidentali, ricorda Debenedetti.
Che poi passa a mettere a fuoco, con un’amarezza che traspare solo fra le righe, quelle più propriamente nazionali. Fra queste ci sono le contraddizioni della nostra democrazia, voluta dopo il Ventennio con un premier debole in una pluralità di poteri che ha contribuito a generare un’amministrazione statale enorme e ostruzionista. «Bisogna rivedere il rapporto fra lo Stato e i cittadini», osserva Debenedetti. A suo parere, affidarsi ai tecnici può forse aiutare ma non basta: essi, scrive, «non risolvono — e forse aggravano — il problema del rinnovamento delle classi dirigenti, perché evitano la competizione per il consenso da cui scaturiscono modelli nuovi».
Federico Fubini