Sergio Rizzo, Corriere della Sera 05/06/2012, 5 giugno 2012
STOP (L’ENNESIMO) ALLA CESSIONE DELLE CASERME —
Ci provano inutilmente dal 1992. Ogni volta c’è una scusa per non vendere le caserme inutilizzate. Adesso il motivo, spiega un lancio dell’agenzia Radiocor, è la «mancanza di un piano definito di valorizzazione». Di conseguenza la gara per la cessione di un blocco di caserme del valore di un miliardo 325 milioni, che sarebbe dovuta partire concretamente entro la fine di maggio con la lettera d’invito alle società immobiliari già preselezionate, è stata congelata per almeno sei mesi.
Una dozzina d’anni fa l’ex ministro Vincenzo Visco, come sempre ricordiamo, puntò il dito contro il ministero della Difesa. «Non collabora», sentenziò. Non sappiamo se la situazione sia sempre la stessa, ma di sicuro le difficoltà più grandi incontrate nelle dismissioni del patrimonio statale si sono riscontrate proprio con gli immobili militari. Ne sa qualcosa, per esempio, il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che sta aspettando il trasferimento al demanio comunale, come prevedono le norme sul cosiddetto «federalismo demaniale» di una serie al caserme nel centro urbano.
Del resto basta scorrere le dichiarazioni che da vent’anni ininterrottamente riempiono i giornali. E confrontarle con i risultati. «In vendita 114 caserme» (21 novembre 1993). «Difesa, in vendita caserme per compensare i tagli» (14 ottobre 1994). «Vendita caserme, entro il 13 ottobre la scelta dei pretendenti» (8 settembre 1997). E via di questo passo. A fine 2003 Il Sole 24 ore scrisse che a dieci anni di distanza dalle dismissioni avviate dall’ex ministro della Difesa Beniamino Andreatta, c’erano ancora 560 caserme «vuote da anni e destinate a essere vendute». La ex direttrice dell’Agenzia del Demanio Elisabetta Spitz annunciò al settimanale Economy nel 2007 un grande piano «di valorizzazione» degli immobili militari inutilizzati: se ne contavano 201. L’ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro disse che molti sarebbero stati impiegati per «un piano casa». Né l’uno né l’altro si sono mai visti. A giugno del 2008 saltò fuori nella manovra economica triennale di Giulio Tremonti l’idea di ricavare 4 miliardi dalla vendita delle caserme: anche se il direttore generale del demanio militare aveva già messo le mani avanti da tempo affermando che gli immobili della Difesa «liberi e disponibili» erano ormai «finiti» (Ansa del 14 giugno 2007). Così «finiti» che il governo di Mario Monti oggi pensa di ridurre il debito pubblico vendendo proprio il patrimonio statale, compresi quelli che fanno capo al ministero di Giampaolo Di Paola. Quante volte ciascuno di noi si è interrogato sull’assurdità che nel 2012 esistano ancora enormi distaccamenti militari nel centro delle grandi città. E perché quell’immenso patrimonio immobiliare pubblico non venga sfruttato in altro modo. «Valorizzandolo», per usare una parola tanto in voga. Valorizzare non significa necessariamente cedere ai privati: l’esperienza insegna che quando in questo Paese si decide di vendere un immobile pubblico bisogna andarci con i piedi di piombo. Si può «valorizzare» una caserma mettendoci uffici pubblici che altrove pagano affitti salati. Oppure un parcheggio. Ma le chiacchiere stanno a zero. Perché sorge il sospetto che quando qui si sente pronunciare la parola «valorizzazione», allora vuol dire che non si ha intenzione di fare nulla.
Sergio Rizzo