Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 05 Martedì calendario

UNA DOMANDA SENZA RISPOSTA

Si fatica a tener dietro al valzer di vertici e incontri, piani segreti e intese pubbliche, fughe in avanti e fughe di notizie, che ogni giorno si balla in Europa. Le ultime spiagge si succedono l’una all’altra. Fino a ieri era prioritario salvare gli Stati (la Grecia). Ora bisogna salvare le banche (spagnole). Lo schema di gioco è sempre lo stesso: tutti vogliono che si tamponi la falla con i soldi tedeschi, tranne i tedeschi. La situazione si è incartata al punto tale che la Spagna rifiuta gli aiuti del fondo europeo con cui potrebbe salvare i suoi istituti di credito per non accrescere il proprio deficit pubblico. Il serpente si morde la coda. E, qui e là, cova il suo uovo, pronto a schiudersi in movimenti estremisti o fascisti.
Il senso di affanno è testimoniato dal susseguirsi di grand plan, mirabolanti ipotesi di architetture istituzionali che rischiano di arrivare quando l’edificio sarà già bruciato al fuoco dei mercati. Così, mentre la Francia, l’Italia e perfino la Germania tardano a ratificare quel Fiscal Compact che era stato indicato come la panacea, già si immaginano a Bruxelles disegni — fatti filtrare e subito smentiti — per trasformare questa claudicante Unione di 27 Stati in una sorta di Superstato sul modello degli Usa.
Eppure i termini del problema sono ormai chiari. I Paesi che hanno goduto per dieci anni di crediti con bassi tassi di interesse come se fossero la Germania, e che li hanno sperperati al contrario della Germania, non reggono più. A questo punto o saltano, e con essi salta l’euro; oppure la Germania, per salvare l’euro e se stessa, salva loro. A questo alludono tutti i tentativi di introdurre qualche forma di condivisione del debito, cioè strumenti che obblighino Berlino a garantire il debito degli altri.
Però questa strada, oggi preclusa, è percorribile solo se si comprende che nemmeno alla Germania si può imporre una deroga al principio cardine della democrazia: no taxation without representation. Lo ha notato Giancarlo Perasso su lavoce.info, e ha ragione: è impossibile chiedere ai contribuenti tedeschi di essere pronti a rimborsare gli eurobond senza che essi abbiano la possibilità di scegliere chi spende quei soldi.
È questo il rompicapo europeo. Finora è risultato inutile il tentativo di convincere i tedeschi con il ricatto o con l’appello alla solidarietà. Ma oggi, sotto la pressione perfino di Obama, si ha l’impressione che la Cancelliera Merkel stia lanciando segnali in questo senso: «Il mondo — ha detto ieri — vuole sapere come noi immaginiamo l’unione politica che va insieme all’unione monetaria». Parole analoghe aveva pronunciato qualche giorno fa Mario Draghi. Il punto è: tutti coloro che accusano la Germania di egoismo e miopia, compresa la nostra spendacciona classe politica, hanno ben chiaro che significa fare questo passo? Sono pronti a cedere cruciali poteri sovrani sul bilancio, sul welfare, sulle tasse?
Prima o poi, a questa domanda bisognerà dare risposta. E in quel momento scopriremo che non è affatto una risposta scontata, soprattutto in Francia, da sempre vero cronografo e limite del processo di integrazione. Non c’è bisogno di ricordare che fu il «sovranista» popolo francese ad affondare in un referendum la Costituzione europea. Un tempo si diceva che l’Europa è nata per nascondere la potenza tedesca e la debolezza francese. Per continuare a vivere, deve oggi riconoscerle entrambe.
Antonio Polito