Kase Wickman, D 2/6/2012, 2 giugno 2012
A giudicare da quanto se ne parla, sembra che Girls sia trasmessa da chissà quanto, invece ha debuttato su Hbo solo il 15 aprile
A giudicare da quanto se ne parla, sembra che Girls sia trasmessa da chissà quanto, invece ha debuttato su Hbo solo il 15 aprile. Giorni fa io e Lena Dunham ci siamo incontrate a New York per parlare della serie. E da buone coetanee siamo finite a parlare di quello e molto altro. Per iniziare: ti senti una “girl”, una ragazza, una donna o una signora? «Forse una ragazza. Beh, diciamo che sono a metà strada tra le due. Non sono più una ragazza e non sono ancora una donna. Ehi, proprio come diceva quella canzone di Britney Spears. Tra l’altro, è una delle mie preferite...». Come hai scelto il titolo Girls? «Per un certo periodo si è chiamata Untitled Lena Dunham Project. Poi, un giorno, Judd Apatow (il produttore esecutivo, una potenza della tv in Usa, ndr), ci ha fatto notare che nei titoli che proponevamo la parola “girls” saltava sempre fuori, e quindi ha detto: “Ehi, visto che usiamo così tanto quella parola chiamiamo la serie così, e basta”. Naturalmente tutto ciò succedeva prima che venissero fuori tutti questi telefilm con “girls” nel titolo...». La gente parla della vostra trasmissione come la star delle nuove serie femminili. Che ne pensi? «Lo reputo un complimento: tutte quelle alle quali siamo state paragonate – da Sex & the City a New Girl – significano molto per me. La nostra, però, ha un’impostazione diversa, e quando il pubblico la segue se ne accorge subito». Come reagisci quando ti dicono che Girls è la nuova Sex & the City? «La nostra è una serie su quattro ragazze che crescono guardando Sex & the City. Non avremmo potuto scrivere neanche una puntata se non ci fossero state prima Carrie&Co.: hanno fatto qualcosa di straordinario per le donne. Hanno dato loro una nuova consapevolezza, qualcosa a cui aspirare». Nei primi episodi della serie ti sei pesata davanti alla telecamera e hai girato scene esplicite di sesso. Ti sei sentita a disagio? «Soprattutto quando mi sono pesata, anche se nessuna delle due situazioni mi ha stressato molto. Erano scene che avevo scritto con persone con le quali ho una grande intesa. Che ridere! Quando abbiamo girato la scena della bilancia ho fatto in modo che non si vedesse il peso reale. E dire che c’è un sito che ti fa indovinare quanto pesano i personaggi famosi... Mi ha stregata. Mi ci sono connessa per un mese intero. Non che voglia avere il peso di qualcun altro, ero solo interessata all’idea di guardare le persone e intuire quanto pesano. Comunque... sì, per fortuna nelle scene di sesso è andato tutto bene: avevo la situazione sotto controllo, e poi lo facevo con Adam Driver, che adoro. È una delle persone a cui sono più legata. Mi fa sentire a mio agio e ha grande talento. Ho imparato molto da lui, non avrei potuto chiedere di meglio come compagno di letto». La gente ha accesso a molte cose che ti riguardano: ti può guardare fare sesso in tv, può sapere quanto pesi, può seguirti su Twitter. Sembra che il tuo lavoro consista nel mostrarti. Cosa rispondi a chi ti accusa di mettere in piazza troppe cose di te? «Anch’io a volte la penso così. Ogni tanto scrivo un twitt e penso: “A che pro?”, ma poi c’è qualcuno che cita il mio messaggio e mi sento meno sola. Capisco le critiche di chi mi accusa di spiattellare troppe cose. Capisco quelli che pensano che questa esposizione sia una nuova forma di maleducazione, ma per me è sempre stato istintivo condividere le mie esperienze con altri. Mi rassicura. Sfiora l’egoismo, ne sono consapevole, ma mi rincuora sapere che ci sono altre persone che sanno quello che sto passando. E poi mi serve per trovare nuove ispirazioni per le sceneggiature». Credi che questo modo di comunicare sia anche un fenomeno generazionale? «Assolutamente. Ormai esistono così tanti modi e strumenti per farsi vedere e sentire… Quello che un tempo era il diario intimo adesso è un blog, aperto a tutti. Faccio un esempio: mio padre non riesce a relazionarsi con Twitter. Mi chiede: “Perché dovrei voler far sapere a qualcuno che cosa ho mangiato? È una faccenda del tutto personale!”. Al che io gli ribatto: “Perché mai qualcuno dovrebbe voler mangiare se non per dirlo a qualcun altro?”. Ecco, io in realtà sono nel bel mezzo di queste due categorie di pensiero. D’altra parte ci sono alcuni dettagli della mia vita che voglio che restino privati, e quelli li tengo per me». La critica che ti viene mossa è che tu sia una privilegiata... «Lo so, l’hanno detto e scritto di me e della serie, nonostante Hannah sia al verde. Credo che la colpa vada attribuita al mio primo film, Tiny Furniture. La protagonista si trasferisce in quello che a prima vista è un grande appartamento di New York. In realtà era il fotografo di scena che l’ha fatto sembrare così lussuoso. Credo che al pubblico non piaccia vedere sempre sullo schermo un certo tipo di upper class, e spero che in tv resti spazio per indagare le varie classi sociali. Io ho scritto Girls dando per scontato che la gente sappia da che famiglia provengo. Ovviamente, i detrattori non mancano mai, e avevo messo in conto quello che avrebbero potuto dire». Pensi sia una questione di invidia? «No, non penso che guardandomi qualcuno dica “Vorrei essere affascinante come lei”, proprio no. Però credo che la gente metta in discussione più facilmente le donne che vogliono raccontare la loro storia, e che con gli uomini sia invece più indulgente. Fino a qualche tempo fa parlavo spesso di misoginia e poi me ne scusavo. Ora ho smesso di scusarmi, perché sappiamo tutti che la discriminazione sessuale esiste davvero». _img2s__E tu, invidi qualcuno? «Invidia e rimpianto sono due cose dalle quali cerco di tenermi alla larga, perché credo che siano due dei sentimenti umani più distruttivi. Posso abbandonarmi alla lussuria, alla rabbia, all’odio e alla depressione. Ma all’invidia no. Mai. Detto ciò, ci sono moltissime cose che vorrei ottenere nella mia carriera e nessuno ha una carriera come quella che vorrei. Però sono invidiosa delle persone naturalmente portate a fare esercizio fisico, perché io faccio una fatica assurda a costringermi a muovermi. E sono invidiosa di chiunque viva in quei cortili delle scuderie ristrutturate del West Village… In realtà mi ritengo fortunata a essere quella che sono». In Girls voi ragazze seguite uno show che si intitola Baggage (in cui tre concorrenti per conquistarne tre di sesso opposto si presentano in scena portando tre bagagli, uno piccolo, uno medio e uno grande, contenenti qualcosa di imbarazzante che li caratterizza). Esiste davvero? «Certo che esiste. Va in onda sul Game Show Network. È una trasmissione pazzesca. Seguo Baggage e sono fortunata, perché quando abbiamo deciso di usarlo per la nostra serie ci hanno spedito un sacco di dvd delle puntate già andate in onda. Me ne stavo comoda comoda, a letto, a guardarle, e mi sentivo in paradiso». Ti sei quindi già immaginata quali potrebbero essere i tuoi “bagagli”. «Certo. Ci ho pensato molto, ma cambiano da un giorno all’altro. Direi che il bagaglio più piccolo è il fatto che non so guidare e mi hanno bocciata all’esame della patente. Quello medio è che ho un pessimo senso dell’orientamento. Chiunque voglia uscire con me deve sapere che non so mai precisamente dove mi trovo, il che è molto frustrante e oltretutto comporta anche che il più delle volte faccia tardi agli appuntamenti, e non è divertente per nessuno. Sto ancora cercando di immaginare che cosa potrei mettere nel bagaglio più grande. Forse potrebbe essere il fatto che sto sempre con i miei genitori». Per buona parte del film Tiny Furniture non porti mai i pantaloni. E non se ne vedono neppure in Girls. Sei contraria ai pantaloni? «Ebbene sì. Come vedi, indosso un vestito: preferisco i collant. E dire che quando ero piccola odiavo la calzamaglia. Poi un giorno mi sono svegliata e ho pensato che stavo sbagliando tutto, e che in fondo si tratta dell’indumento più comodo che sia mai stato inventato: mi sento coperta e al tempo stesso libera. Sì, sono decisamente contraria ai pantaloni. Ogni tanto mi metto i jeans, ma non mi sento mai davvero a mio agio se non porto un vestito». Sfrutti mai questa scelta sul lavoro? Tipo «Non ho bisogno di portare i pantaloni, tanto il capo sono io»? «Sempre! Ci sono un sacco di scene in cui qualcuno si toglie i pantoli... anzi, forse sono troppe. Devo cominciare a diradarle, a usarle con giudizio, si rischia di stufarsi». In The O. C. uno dei protagonisti ha il “Seth Cohen Starter Pack”, un kit di passaggi essenziali che spiegano com’è veramente una persona. Che cosa metteresti nel tuo? «Così, su due piedi, se dovessi cercare di spiegare cosa c’è davvero nella mia testa probabilmente comincerei da Ariel, il libro di poesie di Sylvia Plath. Poi il nuovo romanzo di Sheila Heti, How Should a Person Be. E Wallflower at the Orgy di Nora Ephron. Sì, questi sarebbero i tre libri. Per i film sceglierei Gilda Live, il documentario con la regia di Mike Nichols. E ancora Una donna tutta sola e poi Ragazze a Beverly Hills e forse Seven Swans, la canzone di Sufjan Stevens, che ti fa provare sentimenti veri. Per finire aggiungerei Betty Davis - intendo la Betty Davis moglie di Miles Davis, non quella pazza cantante eccentrica da discoteca -, sì, sicuramente il suo cd». (©Kase Wickman 2012. Traduzione di Anna Bissanti)