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 2012  giugno 02 Sabato calendario

Ma quando arrivano le "ragazze" – Ha 26 anni, peraltro appena compiuti, e a New York è diventata la “ragazza” del momento raccontando i fallimenti della generazione dei ventenni

Ma quando arrivano le "ragazze" – Ha 26 anni, peraltro appena compiuti, e a New York è diventata la “ragazza” del momento raccontando i fallimenti della generazione dei ventenni. Il nome di questo giovane paradosso è Lena Dunham, ideatrice, sceneggiatrice, a volte regista e sempre interprete di Girls, la serie tv americana che lì sta facendo rumore (l’Huffington Post commenta le puntate in chat, incrociando quattro firme, in Italia invece al momento è invenduta, ma la casa di produzione dice di avere trattative in corso) costringendo a prendere posizione perfino a femministe anni 60, a difensori dei diritti umani e a economisti illuminati. Tondetta, viso imperfetto centrato su uno sguardo penetrante, Lena a 23 anni aveva già girato un acclamato lungometraggio, Tiny furniture. Oggi twitta cose del tipo «mi sto nascondendo nel bagno della mia analista. Da lei o da me stessa?», e usa così bene i media da aver postato il promo della serie per intero su YouTube. E qualcosa deve aver davvero capito se perfino la New York Review of Books, che si occupa esclusivamente di snobbissimi libri, si è spinta nel campo televisivo, come fa solo di rado, per esaltare le di lei epifanie, aprendo il commento con una lode su questo modernissimo modo di scrivere le scene di sesso (appassionate, squallide, inesperte e tentennanti, girate con quello spiantato di Adam, che di Dunham, Hannah nella serie, non è il fidanzato ma è l’ossessione: «È stato bello, è stato molto bello, sono quasi venuta», dice Hannah dopo il primo rapporto, in cui lui si diletta in un linguaggio triviale e umiliante). Ma quando arrivano le “ragazze”? Foto di Twitter girlsHBO Parlare di Girls prescindendo da Dunham-Hannah è difficile come citare Sex & the City prescindendo da Sarah Jessica Parker e da Carrie, il suo personaggio. E le analogie non sono una casualità, per ammissione e citazione (continua) della stessa autrice (“C’è il sesso, c’è la città, ma niente Manolo”, titolava il New York Times il giorno dopo la prima). Pur con mille divergenze, in comune il vecchio e il nuovo cult della HBO hanno vari aspetti, e soprattutto un numero: è sempre la storia di quattro ragazze wasp che ci danno parecchio dentro: le protagoniste sono tutte figlie d’arte, la Dunham di un pittore e di una fotografa; Zisia Mamet, che interpreta la rigidissima vergine Shoshanna, è la figlia di David Mamet, e nella realtà le quattro erano compagne di liceo. Ma mentre negli anni 90 Carrie e le sue amiche si godevano la vita, queste quattro sembrano arrancare. La prima (citatissima) scena mostra Hannah al ristorante con i genitori: che la scaricano, non hanno più intenzione di mantenerla. Sua madre si vuole «godere la pensione sul lago», il padre ha un debole per la figlia ma ne ha uno maggiore per la moglie. Quindi la giovane, aspirante scrittrice, per pagare l’affitto della casa che condivide con l’amica del cuore (Marnie, aggraziata, precisina, una alla Charlotte, per dire, fidanzata da anni con Mister dolcezza) è costretta, almeno finché non venderà il primo libro, a cercarsi un impiego vero. Una pretesa inaudita per il capo della casa editrice dove lavora da un anno come stagista: «Posso poi spedirti il romanzo che sto scrivendo?», gli chiede lei, «è inutile, non ci saresti tu per leggerlo...», risponde quello. Una piaga, quella del lavoro non retribuito, che ritorna anche nelle puntate successive: Hannah reincontra il suo ex del college, che oltre a confessarle che si è scoperto gay, le spiega che «sì, ho un’ottima posizione, adesso. Lavoro con un coreografo. Non ho uno stipendio, ma è una grande opportunità». Ecco, in Girls si alternano squarci di un realismo rosselliniano come le scene di sesso di cui sopra, o jeans in erezione, o chiacchiere da donna mentre una delle due amiche fa pipì, ai dubbi e alle tematiche dei vent’anni: «Non tornerei a quell’età neppure se mi pagassero», dice ad Hannah la ginecologa mentre le fa il test per l’Hiv. «E pensi che a me non mi pagano neppure», risponde lei. Se qualche personaggio - come quello di Jessa, la terza amica, globe-trotter e alternativa - è forse un po’ troppo stereotipato (ma riserva battute folgoranti), Girls ha il merito di raccontare con voce femminile (perfino Sex & The City era sceneggiato da uomini), con dialoghi di ironica crudezza la generazione Occupy mentre vive la doppia stretta: quella di un’economia contemporanea al tramonto e quella senza tempo delle prime esperienze giovanili. La disoccupazione, l’aborto, l’amicizia, il papilloma virus, la verginità come handicap, la paura della sterilità, le fragilità dei giovani maschi, i palpeggiamenti sul lavoro, l’eterno in-amore-vince-chi-fugge: e siamo solo alla settima puntata della prima serie. Ovviamente subito rinnovata per una seconda, di certo altrettanto scoppiettante, stagione.