Emma Brockes, D 2/6/2012, 2 giugno 2012
«Voglio sentire solo ciò che sento davvero, anche se non si tratta di felicità – (intervista a Toni Morrison) La prima volta che incontrai Toni Morrison
«Voglio sentire solo ciò che sento davvero, anche se non si tratta di felicità – (intervista a Toni Morrison) La prima volta che incontrai Toni Morrison. una quindicina di anni fa, fu per parlare del suo settimo romanzo, Paradiso, e di quell’in contro ricordo soprattutto i molti e inquietanti silenzi. Morrison, che all’epoca andava per i settanta, era al culmine della sua ascesa: premio Nobel, poco tollerante nei confronti di giornalisti e critici, e con uno stile inconfondibile quanto la sua prosa: dreadlock d’argento, sguardo penetrante e un modo di parlare, ie poche volte in cui parlava, che con suo grande fastidio la gente era solita definire "poetico". In questo momento siede davanti a me nell’ufficio newyorkese del suo editore, la città dispiegata ai suoi piedi. La sua presenza è maestosa come sempre, ma qualche cambiamento c’è stato. Subito dopo pranzo, dice Morrison, è abituata a fare un riposino. E si sente in colpa? «A 81 anni, non mi sento più in colpa per niente». È difficile credere che Toni Morrison abbia 81 anni. Ha cominciato tardi, scrivendo il suo primo romanzo, L’occhio più azzurro, quando ne aveva 39 e lavorava come redattrice presso l’editore Random House. Di conseguenza, non è stata incasellata in alcuna generazione di scrittori, e trattando di temi prevalentemente storici, o meglio, delle tracce della storia nel presente, la sua opera possiede un che di atemporale. I suoi personaggi sono eroici e imperfetti, mitici e reali, «immuni alla pietà, come lei stessa li ha definiti, veicoli del ricordo anche quando, come scrive in Amatissima, «ricordare è parso imprudente». «Dentro di me, niente ha 81 anni. Sono solo cambiamenti del corpo. E della memoria. Non ricordo dove sono le chiavi. O, come dice mio figlio: "Mamma, non è tanto che non ti ricordi dove le hai lasciate, è che quando le prendi in mano non sai a cosa servono"». Ride forte e a lungo. Il suo ultimo romanzo, Home (in Italia uscirà per Frassinelli il 4 settembre, ndr), è ambientato all’indomani della Guerra di Corea, e coincide con quel periodo idealizzato di cui Morrison ha un ricordo assai diverso. «Ho cercato di strappare via la crosta degli anni 50, l’idea diffusa che siano stati estremamente felici, nostalgici. Che siano stati come in Mad Men. Ma per favore. C’è stata una guerra orribile che avete scelto di non chiamare guerra, e che ha fatto 58mila morti. C’è stato McCarthy». In Home, Frank, un veterano che soffre di disturbo post- traumatico da stress, e sua sorella Cee, mutilata da un esperimento medico, tornano a casa nella cittadina di Lotus, da cui quand’erano adolescenti avevano fatto di tutto per fuggire. È un contesto tipicamente morrisoniano, il piccolo centro riscattato dalla topografia dell’amore. Tutte variazioni su Lorain, la cittadina dell’Ohio in cui Morrison è cresciuta, seconda di quattro tigli di un metalmeccanico e di una casalinga. Nel proprio carattere, Morrison riconosce entrambi i suoi genitori, l’atteggiamento «sprezzante» del padre e la larghezza di vedute della madre. Si è sempre sentita superiore, racconta, di una superiorità nata per contrasto, come reazione viscerale alla scarsità di aspettative. «Quand’ero a scuola, ricordo che un insegnante mostrò alle classi più avanzate un termine che avevo scritto, come esempio di scrittura impeccabile. Però non mi diede il massimo dei voti. Allora gli chiesi: "Ma scusi, se le piace così tanto, perché non mi ha dato il massimo?". E lui: "Perché hai sbagliato a scrivere raspberry, lampone"». Scoppia a ridere buttando la testa indietro. «Come si scrive, raspberry?». Nelle rare occasioni in cui Toni Morrison sceglie di concentrarsi sui suoi detrattori, torna sempre sullo stesso punto: prima ancora che i suoi libri «escano dalla tipografia», c’è già chi li ha etichettati come rappresentativi - della sua razza, dei suo sesso - tanto che, più che romanzi, finiscono per trasformarsi in dichiarazioni sociopolitiche. Morrison non ha nulla contro la lettura sociopolitica del suo lavoro, ma l’arti- sta che è in lei si ribella al fatto che sia l’unica lettura. Quando cominciò a scrivere L’occhio più azzurro decise che in nessun modo avrebbe tentato di "spiegare" la vita dei neri al pubblico bianco. Lei voleva scrivere da dentro. Era l’epoca del "nero è bello", slogan che a lei sembrava vero e al tempo stesso antistorico e frutto di reazione. «Tutti i libri pubblicati da scrittori afroamericani inneggiavano al ’’forti il bianco" o variazioni sul tema. L’al- tra cosa che dicevano è "Bisogna affrontare l’oppressore!". Lo capisco. Ma non vuoi dire che si debba guardare il mondo con i suoi occhi, lo non sono uno stereotipo. Per cui, quando la gente diceva "nero è bello"... Ah, sì? Chi dice il contrario? Quello che tentavo di dire con L’occhìo più azzurro era: un attimo, ragazzi. C’è stato un tempo in cui nero non era bello. E voi stavate male». L’idea di un romanzo che avesse come protagonista una bambina nera circondata da una cultura che la faceva sentire così brutta da spingerla a pregare per avere gli occhi azzurri nacque da un incontro che Morrison ebbe da piccola. Una compagna di classe le confessò quello stesso desiderio di occhi azzurri, che a lei, dodicenne, già allora sembrava alimentato da un grottesco disprezzo di sé. Lei, personalmente, non aveva vissuto momenti del genere. A quei tempi si chiamava Chioe Wofford. Il soprannome Toni deriva dal suo nome di battesimo, Anthony (da Sant’Antonio), assunto quando a 12 anni entrò a far parte della chiesa cattolica. Sapeva chi era, a suo avviso per una combinazione di appartenenza sociale - dove viveva lei erano poveri tutti insieme, neri, bianchi, polacchi, spagnoli - e condivisione degli spazi. I suoi genitori, inoltre, si opponevano con forza alle influenze esterne. Per un certo periodo, la sua famiglia campò di aiuti alimentari, che all’epoca negli Stati Uniti erano noti, anziché come food aid, come food relief ("conforto", ma anche "sollievo", "diversione", ndt). «Quella parola mi piaceva. Era un po’ come dire: "È solo una parentesi. Si sistemerà tutto". Ricordo che un giorno a mia madre diedero della farina di granoturco o roba del genere, e dentro c’erano degli insetti. Scrisse una lettera a Franklin Delano Roosevelt. E il suo ufficio rispose!». Suo padre diffidava di chiunque non facesse parte della famiglia. Da adolescente, Toni Morrison fu presa a servizio in una casa di bianchi. Ripensandoci oggi, ha la sensazione che la sua datrice di lavoro bianca non avesse tutti i torti quando le strillava che era un’incapace. «Ero veramente stupida. In casa nostra non avevamo mai avuto un aspirapolvere e quella signora aveva un fornello complicatissimo, che io non sapevo far funzionare». Sua madre le diceva di licenziarsi, ma lei quei due dollari alla settimana li voleva. Il padre, invece, le impartì una lunga e severa predica che Morrison si è portata dietro per tutta la vita. «Mi disse: "Va’ a lavorare, prendi i soldi e tornatene a casa. Non è lì che vivi"». La ripete lentamente. Va’ a lavorare, prendi i soldi, tornatene a casa. Non era costretta, le disse, a vivere come gli altri immaginavano dovesse vivere. Più avanti, quando a scuola Morrison conobbe il bullismo, non le fece ne caldo ne freddo. «Un giorno un ragazzino italiano mi diede dell’etiope», racconta. «Il mio pensiero fu: "Eh?". A lui doveva sembrare un insulto terribile. A me non fece alcun effetto», conclude, fredda come il ghiaccio. Questo suo distacco a volte le ha creato problemi. «Ti limita. Ti rende insensibile a certe questioni alle quali più avanti nella vita è meglio essere sensibili». Non ha mai fatto uso di droghe, spiega, nemmeno da ragazzina, quando tutti quelli che aveva intorno fumavano le canne. «Non volevo sentire nulla che non avesse origine dentro di me. Mi va di sentire solo ciò che sento davvero, ciò che è mio. Anche se non si tratta di felicità, qualunque cosa significhi questa parola. Le cose che provi sono le uniche che possiedi davvero». Quando iniziò a scrivere L’occhio più azzurro, era madre single di due figli con i quali viveva a Syracuse, nello stato di New York. Si alzava tutte le mattine alle quattro per scrivere prima di andare al lavoro. Da un certo punto di vista, sostiene Morrison, fu straordinariamente facile. «Ho cominciato a scrivere a 39 anni, al culmine della vita. La vera liberazione è coincisa con i figli, perché loro avevano bisogni semplici. Primo, che sapessi fare il mio lavoro. Secondo, che avessi senso dell’umorismo. E terzo, che mi comportassi da adulta. Nessun altro me l’aveva mai chiesto. Nemmeno sul posto di lavoro». Sorride. Aveva sposato Harold Morrison, un architetto, conosciuto alla Howard University di Washington. Il divorzio era arrivato sei anni dopo, lasciando a lei i due figli, Harold e Slade. Alla Random House cominciò come redattrice della divisione scolastica, per poi essere trasferita negli uffici di Manhattan a occuparsi di narrativa. A sostenerla c’era una rete di amiche che le davano una mano con i bambini. Di alcune, Morrison ha poi pubblicato i romanzi. Come lei stessa ha dichiarato: «Molto si è scritto su come Aiace e Achille erano disposti a morire l’uno per l’altro, ma ben poco sull’amicizia tra donne». Tre anni dopo l’uscita di L’occhio più azzurro (1970), Toni Morrison pubblicò Sula, in cui per la prima volta sentì che stava trovando la propria voce. Quando scrive, dice, quasi nulla riesce a distrarla, anche se dopo il premio Nobel, nel 1993, la fama ci andò vicino. E «quando non scrivevo», ipotizza, «forse era perché ero innamorata. O amata. Qualcuno mi aveva resa», scoppia a ridere, «oggetto del suo amore. Non è male. Dura poco, ma non è male». Come mai dura poco? «Ma su, non è una cosa che si può sostenere. Sa, io a certi libri ho dedicato cinque anni. Immagino che per cinque anni si possa anche amare una persona. Forse. Non parlo di passione. Quella può andare avanti per sempre. Intendo amarla davvero, come diciamo di amare i figli. Non lo so. Se così fosse, però, dovrei ricordarmi di tutte le volte che sono stata innamorata." Scoppia a ridere. Un sacrificio? «A me non è costato nulla. È tutto quello che sta intorno, a costare. Alcune cose mi risultavano facili, naturali. Insegnare. Leggere libri. E scriverli. Tutto il resto, a meno che non lo si faccia con amici davvero molto, molto intimi, è un po’ una messinscena. Ma non in senso negativo. Sociale». «E quelle persone ho imparato a tenerle separate, lo per prima sono divisa a metà. Il mio vero nome è Chloe. Tutto il resto è... l’altra persona, quella che percepisce, o finge di percepire, o magari percepisce davvero la celebrità». I romanzi di Toni Morrison vengono spesso definiti difficili o poetici - mai come complimento - e questo la manda in bestia. Lei scrive con i piedi per terra, spiega, nel vernacolo di un popolo che è povero e nero. Che i lettori bianchi abbiano o meno dimestichezza con quel modo di parla- re non è cosa che riguardi chi scrive. Morrison passò tre anni a riflettere su Amatissima prima di scriverne una sola parola. Il romanzo si basa sulla storia vera di Margaret Garner, una schiava datasi alla fuga che, pur di non tornare in schiavitù, arrivò a uccidere sua figlia. Nel 1988 Amatissima vinse il premio Pulitzer. A 17 anni, Morrison aveva condotto un esperimento mentale. Da poco aveva iniziato l’università a Washington, «dove sugli autobus c’erano ancora i cartelli che dicevano "Solo persone di colore" e via dicendo. C’era un posto, in centro, dove una persona nera poteva andare nel bagno delle donne. Sapevamo tutti qual era». Al telegiornale aveva visto le immagini di alcune madri bianche che nel sud avevano tentato di ribaltare uno scuolabus carico di bambini neri. «lo non sapevo se sarei stata in grado. Allora feci uno sforzo; mi dissi "Immagina... che i cavalli comincino a parlare. E a rivendicare i loro diritti". Immaginiamo che decidano dì voler andare a scuola, che vogliano sedersi accanto a me al cinema. Cominciai a provare una sensazione come di... "Ok, tu mi piaci, però...", "Sei bravo, però...". E se un giorno si mettessero in testa di andare a letto con mia figlia?!». Ride di cuore. «Ho dovuto cercare fuori dalla specie! Però ha funzionato, quella sensazione la provo ancora. Sì, insomma, quel "non sederti accanto a me"». A ogni modo, prosegue, «La cosa importante è che si progredisce, lo de- scrivevo un tratto tipico dei quartieri misti, quel modo di condividere l’infelicità così come la gioia. Eravamo cittadini. O meglio, noi, gli afroamericani, eravamo cittadini di seconda classe, ma pieni di speranza. Poi, dopo la guerra, siamo diventati consumisti. E adesso siamo solo contribuenti. Cioè, dovrei dare i miei soldi a quella gente?! Se sono solo una contribuente, allora mi arrabbio davvero, cambia tutto. Un cittadino ha un qualche tipo di legame con il suo quartiere, il suo paese. Il contribuente no». C’è stato un periodo, spiega, in cui le cose sono davvero migliorate. Quando è stato eletto Obama, racconta Morrison, per la prima volta si è sentita davvero americana. «Alla cerimonia di insediamento ho provato un fortissimo senso di patriottismo. Mi è durato un paio d’ore. Eppure mi ha stupito. God Bless America è davvero una canzone stupida. Per quel breve momento, però, ne ho sentito la forza anch’io». Oggi che, una settimana sì e una no, Obama viene definito "il presidente dei buoni alimentari" e Mitt Romney nei suoi comizi lo accusa di voler trasformare l’Arnerica in uno "stato assistenziale", Morrison ritiene che il loro linguaggio non sia privo di connotazioni razziali. «"Stato assistenziale", "buoni alimentari", "gang"... Hanno un intero vocabolario in codice. Davvero imbarazzante per il mio paese». «Una volta pensavo che un certo tipo di atteggiamento e linguaggio repubblicano perlomeno non fosse stupido. Aveva una sua logica. Se realmente uno pensa che gli Stati Uniti siano un paese libero - non è vero, ma ammettiamo che uno ne sia sinceramente convinto - può benissimo sviluppare argomentazioni non imbarazzanti. Ma loro questo non lo fanno più. Usano parole in codice. Ha visto cos’ha fatto Rick Santo- rum? (Durante un comizio in Wisconsin il candidato repubblicano ha definito Obama "The anti-war government nig..." seguito da un’esitazione, dando così (’impressione di aver detto nigger, negro, ndt). A sentire lui, si è ingarbugliato con le parole. Morrison scoppia a ridere. «Dio santo. Probabilmente in Sudafrica, prima di Mandela, era peggio, ma io non ne posso più». Sospira, «Sa, alla fin fine... fa male. Molto male». Home, il suo nuovo romanzo, è acuto, tagliente e di un realismo brutale. Quando si siede alla scrivania, racconta, tutto il resto scompare. «Mi prende una curiosità assoluta, sento di essere viva, di avere tutto sotto controllo. Quando scrivo mi sento... magnifica». Il libro è dedicato a suo figlio Slade, scomparso un anno e mezzo fa. La sua morte l’ha privata delle parole. Non riusciva più a lavorare. «Cosa si può dire? Davvero non ci sono parole. Non esistono. Ti dicono: "Mi dispiace, mi dispiace". Ma non esiste un linguaggio. "Mi di- spiace" non basta. Uno dovrebbe limitarsi ad abbracciarti e, che ne so, lavarti i pavimenti». Ha provato a leggere libri di scrittori che parlano della morte dei figli, ma la infastidivano proprio come chi cercava di consolarla: «Parlavano soltanto dell’autore. Sul figlio, non una parola. Dicono che il punto è chi sopravvive, e invece no. Il punto è chi muore». Non vuole affatto «farsene una ragione», spiega. «Chiudere il cerchio sempre e comunque è una fissazione americana. lo voglio solo quello che ho». Toni Morrison si alza lenta- mente in piedi. «I ricordi. Il lavoro. E magari...», un accenno di risata, «un altro po’ di ibuprofene». (© Guardian News & Media Ltd 2012. Traduzione di Matteo Colombo)