Camillo Langone, Libero 5/6/2012, 5 giugno 2012
LE LETTERE D’AMORE AL DUCE DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI
Che bello vivere al tempo delle mail. I nostalgici di carte, biglietti, buste, penne e calamai non sanno quello che dicono: le lettere sono roba che scotta, merce pericolosa resa tale proprio dal supporto durevole. Può capitare che ottant’anni dopo qualcuno rinfacci agli autori il loro contenuto ed è un guaio: ormai sei morto, ma se la tua reputazione è ancora viva rischia di venire affossata insieme alle idiozie private che un giorno lontano hai avuto la stoltezza di scrivere. Molto meglio, se non si è certi di voler far conoscere i propri momentanei sfoghi al pubblico dei secoli futuri, affidarsi al mezzo elettronico: scripta manent tranne la mail, che volant. Sono in pochi a conservare le e-mail inviate o ricevute e anche questi volenterosi finiranno per perderle al prossimo cambio di computer. Quindi gli autori contemporanei non faranno mai la figura barbina che Aleramo, Brancati, Moravia, Pavese e Vittorini rimediano nelle pagine di Caro Duce, ti scrivo firmato da Roberto Festorazzi e pubblicato da Ares (pp. 192, euro 12). È un’antologia di servilismi, un florilegio di genuflessioni, una raccolta di umiliazioni che per il buon nome della letteratura italiana forse sarebbe stato meglio rimanessero negli archivi. O forse no: se è vero che la verità rende liberi (ed è vero, siccome è scritto nel Vangelo), per liberarsi da alcuni eccessi di adulazione verso autori variamente monumentalizzati è necessario conoscere anche il «lato servile degli antifascisti durante il Ventennio», come recita il sottotitolo. Caro Duce, ti scrivo è un libro da morir dal ridere o da mettersi a piangere, a seconda della disposizione d’animo. E se non bastano le lettere indirizzate direttamente a Mussolini, Festorazzi riporta pure gli articoli più adulatori. Guardate un po’ cosa scriveva nel 1931 Vitaliano Brancati, l’autore di Paolo il caldo e del Bell’Antonio, subito dopo essere stato ricevuto a Palazzo Venezia: «Ciò che egli farà domani è sulle ginocchia del Destino. Egli, l’uomo che ho visto pochi minuti fa, apparve come un nuovo senso della vita. M’è rimasto un grande rombo, nella memoria; come di sorgente». Nel dopoguerra lo scrittore siciliano ebbe l’impudenza di dichiarare: «Sotto il fascismo io non riuscii a pubblicare nulla. Evidentemente il mio modo di pensare non piaceva ai giornali e alle riviste asservite al regime». Quando invece il suo modo di pensare ai giornali e alle riviste del Ventennio piaceva moltissimo, come dimostra l’enorme numero delle collaborazioni a testate che spesso ostentano la propria linea politica a cominciare dal nome: Civiltà Fascista, Critica Fascista, L’Italiano, Oggi, L’Orto, Il Popolo d’Italia, Primato, Quadrivio, Scenario, Il Tevere... Il giovane Brancati grazie alla prosa di cui sopra e alle raccomandazioni del fascistissimo Telesio Interlandi, oltre a un milione di articoli, pubblicò in quegli anni due romanzi e un dramma, insomma fu tutto meno che un escluso. Il fingere un’inesistente emarginazione è comunque molto significativo, più che sminuire il valore letterario del personaggio (che secondo me resta tale e quale) sminuisce il valore morale dell’antifa - scismo che si dimostra non meno cieco e intollerante del fascismo, esigendo dai suoi adepti menzogne tra l’inverosimile e l’insosteni - bile (erano passati pochi anni, Interlandi e molti testimoni dell’entusiasmo brancatiano per il fascismo erano vivi e vegeti). Non ne esce bene nemmeno Luigi Einaudi, che pure è stato uno dei più validi economisti e dei meno invalidi presidenti dell’Italia repubblicana. Periodicamente i suoi figli si mettevano nei pasticci per attività antifasciste e il padre, anziché andarne fiero (fra l’altro erano cose di poco conto, la prole non rischiava né la vita né l’ergastolo), scriveva al caro Duce biglietti imbarazzanti: «Eccellenza, un padre, a cui è accaduta una grande sciagura, si rivolge a un padre e gli chiede un colloquio per parlargli del suo figliolo». E le penose contrizioni di un futuro grande vecchio della sinistra, spedite addirittura all’indirizzo privato del dittatore, ossia Villa Torlonia? Riguardo a un’accusa di antifascismo, scrive: «Non è soltanto nuova e inaspettata ma anche ingiustificata, mi addolora profondamente e offende intimamente la mia coscienza di fascista, di cui può costituire valida testimonianza l’opinione delle persone che mi hanno conosciuto e mi frequentano, degli amici del Guf e della Federazione. Le esprimo il sentimento della mia devozione. Norberto Bobbio». C’è di buono che il filosofo, anche se molti anni dopo e dopo molte sollecitazioni, ammise: «Fu una lettera servile». Sibilla Aleramo, che in seguito fu comunista nel più trinariciuto dei partiti comunisti, quello di Palmiro Togliatti, si rivolgeva a Benito con un tono intimissimo e quasi erotico: «Duce, ricorro a voi in un’ora di estremo abbattimento, più grande di quello in cui Vi scrissi la prima volta saran quattro anni di questi giorni. Da molti mesi, in seguito a (diciamo la parola francamente, e Voi non sorriderete, Voi che intendete le confessioni dei poveri poeti) in seguito a un’ultima illusione d’amore stroncata, io mi trascino nella vita priva d’ogni vigoria e impotente a risollevarmi, per quanto tenti e voglia. Duce, vi giuro che da mesi combatto contro la tentazione del suicidio. Duce, soccorretemi ancora, se è vero che per qualcosa ho meritato la vostra indulgente benevolenza. Volete mandarmi all’estero, al suol della Francia o in qualche colonia o in Egitto o in Grecia, ove io possa curare membra e spirito, e nello stesso tempo rappresentare l’Italia non troppo indegnamente col mio nome? O volete prima rivedermi, parlarmi per qualche minuto? Il fluido della vostra voce e del vostro sguardo potranno aiutarmi più di ogni altra cosa, se la mia sorte è di continuare a vivere». E alla parola “fluido” mi viene da sorridere, ricordando che la Aleramo, per via dei suoi non nascosti e non difficili costumi, venne definita da Giuseppe Prezzolini «lavatoio sessuale della letteratura italiana». I capitoli finali del libro di Festorazzi sono dedicati a un peso massimo, Alberto Moravia, uno che per colpa di professori pedissequi ancora affligge gli studenti liceali. Che noia La noia! E che senso ha far leggere oggi i Racconti romani ambientati in una Roma scomparsa? Allora meglio il Belli, che ha perso in attualità ma conserva una lingua fantastica, sapida e ricca, vale a dire l’esatto opposto della lingua moraviana. Dopo lunghe ricerche sui carteggi dell’epoca, lo storico arriva a una conclusione eclatante: Moravia «giunse a sputare in faccia alla memoria dei suoi cugini, i fratelli Rosselli assassinati in Francia nel 1937. In quanto socialisti e borghesi, li odiò da fascista di sinistra e seguitò a disprezzarli da finto comunista quale fu». Il bello, o il brutto, è che il metaforico sputo venne emesso nel dopoguerra, quando non c’era nessun Benito da adulare: «Scrisse il romanzo Il conformista ispirato al delitto Rosselli, il cui protagonista era una spia della polizia segreta del regime. Chi scrive ha scoperto non soltanto che questa figura è realmente esistita ma ha potuto cavare dall’oblio le prove del legame di amicizia che unì Moravia al Conformista in carne e ossa: il fiduciario della polizia politica Giacomo Antonini. Moravia trasforma in fiction il caso Rosselli; s’appassiona alle vicende e alla figura di un suo amico, Antonini, assumendone narrativamente il punto di vista. Nume tutelare della sinistra antifascista, tra le vittime e i carnefici parteggia per i carnefici fascisti». Altro che lato servile degli intellettuali antifascisti, qui siamo ben oltre: quello di Moravia è il lato maramaldesco e infame.