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 2012  giugno 06 Mercoledì calendario

IN BORSA ORA SI VENDE LA GERMANIA

Il volubile umore dei mercati sta cambiando ancora una volta. Da qualche giorno il vento dei listini sembra soffiare in direzione opposta rispetto a quella delle scorse settimane. Tradotto: da una parte perdono quota i panieri borsistici più ancorati alle società industriali, come Francoforte. E dall’altra parte riprendono fiato le piazze più bersagliate nei mesi scorsi, come Madrid e Milano, come accaduto anche ieri. Basta guardare i numeri. Se dallo scorso 29 maggio il Dax tedesco ha lasciato sul terreno il 6,5%, l’Ibex spagnolo è rimasto praticamente immobile (-0,2%), quasi come il Ftse Mib italiano (-1,6%). Un risultato non da poco, se si considera che da inizio anno le cose sono andate (e pesantemente) al contrario. Dal primo gennaio, la borsa tedesca è infatti in attivo (+1,4%) mentre Spagna e Italia accusano perdite rispettivamente del 27% e del 14,5 %.

La rotazione del portafoglio

Come si spiega allora questa inversione di rotta? La causa di superficie è l’avvio di una rotazione di portafoglio. Sarà pure una tendenza recente - e quindi passibile di modifiche improvvise - ma da qualche tempo i gestori stanno alleggerendo le loro posizioni sui titoli più prettamente ciclici, come quelli industriali, e al contrario le stanno sovrappesando - seppur gradualmente - sui titoli finanziari, in particolare nei paesi periferici. Ecco come si spiega il fatto che, dalla metà della scorsa settimana, le banche italiane abbiano guadagnato il 4,8% e quelle spagnole il 4,14%. E che, nel contempo, il settore industriale del Dax - il listino d’Europa più esposto alle fluttuazioni dei cicli economici, vista la preponderanza di colossi meccanici, chimici e automobilistici - sia sceso del 6,5%. Se prima i mercati correvano a comprare aziende come Bmw e Basf e vendevano UniCredit e BBva, oggi sta accadendo il contrario. Ma da che cosa nasce questo cambio di approccio dei gestori? I motivi sono due. Il primo motivo è più tecnico. Dopo settimane di pessimismo senza fine, una piccola luce in fondo al tunnel della crisi in Eurozona sembra essersi accesa. In Europa si parla, pur tra mille cautele, di una rete di protezione per evitare il crac delle banche spagnole. I rumours parlano di un prossimo taglio del costo del denaro da parte della Bce, se non di un vero piano coordinato tra le diverse banche centrali mondiali per sostenere le economie globali. Le cancellerie discutono un piano strutturato per salvare l’euro. Dopo settimane di immobilismo, i policy maker si stanno muovendo. Una cattiva notizia per chi fino ad oggi ha giocato corto, ovvero al ribasso, sul Vecchio Continente. E ora è costretto, se non a invertire, quanto meno a frenare la furia speculativa.

Le ragioni macro

L’altra motivazione, più di tipo macro, è il rallentamento delle principali economie. I dati diffusi nei giorni scorsi hanno dimostrato che il Pil Usa sta frenando. Che l’economia brasiliana, indiana e pure cinese rallentano più del previsto. Come per un effetto domino, gli investitori alleggeriscono le loro posizioni proprio sulle aziende che fanno dell’export verso quei paesi il loro punto di forza. Ecco come si spiega il calo dei titoli industriali, e dei ciclici più in generale. Un settore che pesa in misura maggiore su Francoforte. «Gli operatori si sono accorti che anche i Paesi più solidi possono avere qualche difficoltà a stare in piedi in caso di frenata mondiale - spiega il gestore di un importante fondo azionario italiano -. E così i titoli che prima avevano sovraperformato iniziano a scontare un possibile rallentamento, mentre le banche, che avevano sottoperformato, recuperano posizioni».

È un trend che durerà? Difficile dirlo. I segnali che arrivano dai Bric non sono incoraggianti perchè presuppongono una nuova crisi dopo quelle registrate dalle piazze mondiali nel 2007-08 e nel 2011. Forse però è proprio l’incupimento dello scenario a rendere più probabile l’avvio del terzo atto di allentamento monetario (il cosiddetto quantitative easing). Una mossa che, se accompagnata da una seria risposta della politica europea ai problemi dell’Eurozona, ridarebbe fiato al tutte le borse. Senza grosse distinzioni settoriali. Luca Davi • ECCO PERCHÉ FRANCOFORTE NON RIDE PIÙ - Se la Borsa di Francoforte da qualche giorno cade più delle altre, il motivo è principalmente tecnico. La speculazione, in attesa di chissà quale piano segreto europeo, sta infatti facendo un po’ di naturale marcia indietro. Ma dietro quell’indice Dax che in poche sedute ha perso circa il 6%, non c’è solo speculazione. C’è probabilmente qualcosa di più: la consapevolezza che se l’Europa precipitasse nel baratro e se l’economia globale frenasse, la Germania non potrebbe più restare un’isola felice. Per un motivo sopra tutti: la Germania è il secondo Paese al mondo per esportazioni, dopo la Cina. Così con l’Europa in recessione e il resto del mondo in rallentamento, per Berlino diventera molto più difficile vendere all’estero i propri prodotti. Dunque per le sue aziende diventa molto più dura produrre utili. E quindi le performance in Borsa ne risentono.

Sono i numeri, elaborati per «Il Sole 24 Ore» da Sace Srv sui dati Eurostat, a dimostrare quanto il futuro di Berlino (e della sua Borsa) sia sul filo del rasoio. Se nel 2000 le esportazioni di beni e servizi producevano solo il 33,4% del totale Pil tedesco, a fine 2009 la percentuale risulta salita al 46,3% e a fine 2011 al 53,4%. Tantissimo, se si considera che in Italia l’export produce oggi solo il 30,2% del Pil, in Spagna il 34,5% e in Francia il 30,6%. Questo spiega perché la Germania in questi anni di crisi abbia continuato a crescere: è stato l’export a trainare la sua locomotiva. E se si guarda oltre al "quanto" anche il "dove", si scopre che negli ultimi anni Berlino si è smarcata dall’Europa in crisi. Nel 2000 esportava il 75% dei prodotti nei Paesi dell’Ue, mentre ora solo il 59,3% dell’export tedesco arriva in Europa e il 40,7% è nel resto del mondo.

Questo è stato un bene per Berlino, perché le ha permesso di "dribblare" la crisi europea. Ma, guardando avanti, restano due problemi. Uno: se la recessione europea peggiorasse, o se addirittura l’Europa implodesse, il 59,3% dell’export tedesco sarebbe gravemente penalizzato. Due: gli ultimi dati economici da Brasile, India, Cina e Stati Uniti dimostrano che anche i Paesi extra-Ue più dinamici stanno rallentando. Preoccupante, dal punto di vista dell’industria tedesca, è la frenata in atto in Cina e Usa dove Berlino concentra il 6,1% e il 6,9% delle sue esportazioni. Certo, la situazione potrebbe migliorare. Gli economisti credono che la Cina tornerà a crescere a ritmi "cinesi" dal secondo semestre. Ma per ora le nubi all’orizzonte di Berlino sono nere. E il futuro è incerto: se l’Europa non scoppia e la Cina riprende la corsa, la Germania potrebbe "dribblare" anche questa volta la crisi. Altrimenti col Titanic affonderebbe anche la prima classe. Morya Longo