ABRAHAM B. YEHOSHUA, La Stampa 5/6/2012, 5 giugno 2012
Israele troppi africani clandestini - Il problema degli infiltrati africani in Israele sta diventando sempre più serio e pone nuove domande, sia sul piano pratico che su quello umano, quali lo Stato ebraico non ha mai dovuto affrontare prima
Israele troppi africani clandestini - Il problema degli infiltrati africani in Israele sta diventando sempre più serio e pone nuove domande, sia sul piano pratico che su quello umano, quali lo Stato ebraico non ha mai dovuto affrontare prima. Poiché i confini con la Siria e il Libano, due nazioni ancora ostili a Israele, sono ermeticamente chiusi, nessun rifugiato o immigrato avrebbe la possibilità di superarli. Anche la frontiera fra Israele e la Giordania è sotto la stretta supervisione delle due parti a causa di problemi di sicurezza con i palestinesi. Ma lungo il confine tra Israele ed Egitto, tra il grande deserto del Sinai (che secondo il trattato di pace tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato) e quello israeliano del Negev in anni recenti è iniziata l’infiltrazione di migliaia di africani provenienti dal Sudan e dal Sudan meridionale, dall’Etiopia, dall’Eritrea e, più di recente, da Paesi anche più lontani. Uomini e donne che, dopo aver percorso a piedi migliaia di chilometri condotti da guide e da contrabbandieri profumatamente pagati, arrivano in Israele non alla ricerca di asilo politico ma soprattutto di un lavoro. Israele, che dopo la Shoah ha accolto centinaia di migliaia di profughi ebrei provenienti anche da paesi arabi e ha dovuto fare i conti con la richiesta di lavoro dei residenti dei territori palestinesi, si trova a fronteggiare un nuovo problema, simile a quello di molti Paesi europei. Una minoranza di questi infiltrati sono profughi in fuga dall’orrore della guerra. La più parte, però, sono persone in cerca di lavoro che, come in molte grandi città d’Europa, si stabiliscono in aree urbane economicamente e socialmente deboli dove vivono in condizioni di grande povertà, entrando in competizione sul mercato locale come manodopera a basso costo e priva di diritti sociali. Dal momento che Israele è un paese gradevole dal punto di vista climatico, di certo per gli africani, costoro non hanno difficoltà a dormire nei giardini pubblici, a stendere lenzuola su marciapiedi o in androni di case povere o ad accalcarsi, intere famiglie, in minuscoli appartamenti, indebolendo così ulteriormente la già fragile infrastruttura delle periferie delle città israeliane, in particolar modo quella di Tel Aviv. I residenti locali sono furiosi con il governo che non impedisce questa invasione illegale, della quale sono soprattutto loro a pagare il prezzo. E quando a questa situazione si vanno ad aggiungere qua e là occasionali atti criminosi da parte degli infiltrati, la protesta della popolazione locale si fa violenta. I membri delle organizzazioni per i diritti civili e di vari gruppi di sinistra tendono a definire razziste e xenofobe le proteste dei residenti locali. Poiché la storia ebraica, specialmente durante la seconda guerra mondiale, è zeppa di storie di sofferenze di rifugiati, si ha la tendenza ad associarla al problema degli emigrati africani e ad interpretare le proteste dei residenti come odio verso la gente di colore. Non credo che questo sia vero. Anche se questi infiltrati fossero di pelle bianca, albanesi o provenienti dalle regioni del Caucaso, le proteste dei cittadini locali sarebbero dello stesso tenore. E la richiesta alle autorità, nazionali e municipali, di trovare una soluzione che non danneggi ulteriormente le fasce più deboli della popolazione è dunque giusta e non razzista. Ci sono inoltre persone e aziende che per realizzare profitti si avvalgono di questa manodopera a basso costo e affittano appartamenti fatiscenti a prezzi oltraggiosi. In questo modo non solo i salari dei lavoratori israeliani, compresi quelli degli arabi israeliani, tendono a diminuire ma gli affitti degli appartamenti nelle zone periferiche aumentano in maniera inverosimile. Qual è la soluzione? Innanzi tutto bloccare la frontiera col deserto, cosa che sta già rapidamente avvenendo. Se ciò non accadesse Israele potrebbe essere travolta da un vero e proprio tsunami africano. Un secondo passo sarebbe attuare una chiara distinzione tra rifugiati che arrivano in Israele per salvarsi e gente in cerca di lavoro. In base ad accurati controlli il numero dei rifugiati con diritto di asilo politico fra i circa 70 mila clandestini africani attualmente presenti in Israele è molto ridotto. I veri rifugiati dovrebbero essere trattati secondo le norme della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite, dovrebbero essere garantiti loro il permesso di soggiorno, un’assicurazione sanitaria, un lavoro e alloggi adeguati, senza che tutto questo vada a scapito dei residenti locali. Il resto degli infiltrati dovrebbe essere rimpatriato in accordo con le autorità dei loro paesi d’origine. Rimane la domanda riguardo a chi prenderà il posto degli immigrati nel mercato del lavoro che necessita anche di manodopera a basso costo e non qualificata. A questo punto entrano in gioco i palestinesi, il vero motivo per cui ho scritto questo articolo. Nella Striscia di Gaza vivono migliaia di palestinesi bisognosi di una fonte di reddito e ansiosi di trovare un lavoro. L’apertura dei confini di Gaza a qualche gruppo di migliaia di lavoratori palestinesi che abbiano superato attenti controlli di sicurezza potrebbe portare benefici sia all’economia palestinese che al mercato del lavoro israeliano e promuovere una normalizzazione della situazione politica fra la Striscia di Gaza e Israele. I lavoratori palestinesi conoscono Israele e parlano l’ebraico. A causa della breve distanza tra Gaza e il sud del Paese (compresa Tel Aviv) questi lavoratori, la sera, potrebbero tornare alle loro case e alle loro famiglie ed evitare così la pericolosa e alienante situazione di migliaia di africani senzatetto che vagano di notte per le strade delle città. I palestinesi possiedono una chiara identità e sarà loro garantito un salario equo, non da fame. E come parte del salario avranno diritto alla previdenza sociale, come in passato. L’obbligo morale di Israele è di dare lavoro a questi palestinesi nel proprio territorio, in passato parte della Palestina, e contribuire così a migliorare indirettamente la situazione economica della Striscia di Gaza. Un simile stato di cose è andato avanti per molti anni dopo la guerra del ’67 dimostrandosi vantaggioso per entrambi i popoli costretti a vivere fianco a fianco con la speranza di promuovere una pacifica convivenza.