Dario Di Vico, Corriere della Sera 6/6/2012, 6 giugno 2012
F orse dovremo aggiornare la nozione stessa di «tecnico». Nella vulgata che tutti stiamo utilizzando il ministro tecnocrate è contrapposto al ministro di stretta nomina politica, magari eletto in Parlamento ma che viene designato alla testa di un dicastero non in virtù di competenze specifiche e settoriali
F orse dovremo aggiornare la nozione stessa di «tecnico». Nella vulgata che tutti stiamo utilizzando il ministro tecnocrate è contrapposto al ministro di stretta nomina politica, magari eletto in Parlamento ma che viene designato alla testa di un dicastero non in virtù di competenze specifiche e settoriali. Il tecnico non risponde alla politica e per effetto translato nemmeno agli elettori dei partiti che comunque lo sostengono in Parlamento. Le vicende di questi giorni legate alla figura del ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi ci devono però portare a rivisitare i concetti di cui sopra. Sul tema delle norme sui licenziamenti dei dipendenti pubblici e privati il governo ha palesato una forte differenza di orientamento, con il ministro del Welfare Elsa Fornero a sostegno di una progressiva liberalizzazione e Patroni Griffi schierato coriacemente a difesa dei privilegi degli statali. Anche in tema di incompatibilità per i politici che assumono incarichi dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche il ministro si è mosso con un’ispirazione pro-Casta battendosi per la norma che riduce il periodo di sosta da tre a un anno. Si può dire, dunque, che Patroni Griffi veste i panni del tecnico ma si muove con i passi del sindacalista che tutela e rappresenta porzioni di società. Come Maurizio Landini cura il consenso degli operai metalmeccanici più radicali così il ministro si pone come rappresentante dei dipendenti pubblici più conservatori e degli ex politici a caccia di poltrone. Ma se un tecnico mette al primo posto non gli interessi universalistici, ma quelli di una precisa constituency può ancora definirsi tale? Ai politologi l’ardua sentenza. Al cronista, intanto, corre l’obbligo di sottolineare come il governo Monti alla sua partenza abbia imbarcato molti esponenti dell’alta burocrazia intesa in senso lato. Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri è un prefetto, il responsabile degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata è un ambasciatore, il ministro della Difesa è l’ammiraglio Giampaolo Di Paola. Ma nel momento in cui ciascuno di loro ha accettato il 29 novembre 2011 di giurare ha in qualche modo accettato di uscire dalla propria corporazione, ha convenuto di fare con il premier Monti una scelta di campo a favore della res publica. Altrimenti applicando il principio di rappresentanza a tutti i dicasteri al welfare sarebbe dovuta andare Emma Marcegaglia oppure Raffaele Bonanni. Ma se il governo ha addirittura ripudiato le tecniche della concertazione, per non farsi legare le mani dagli interessi di parte, come può accettare che un singolo ministro si sindacalizzi e quindi porti all’interno del Consiglio gli interessi di una precisa constituency? È evidente come per effetto delle politiche di contenimento della spesa pubblica il «partito statale» sia in sofferenza e questo disagio vada dal dipendente pubblico ai più bassi livelli della classificazione contrattuale fino al grand commis. Questo mondo ha un suo peso elettorale particolarmente forte su Roma e si era ritrovato negli anni passati a tifare per Gianni Letta, ideale capofila dell’alta e della bassa burocrazia. Ora si sente orfano e cerca disperatamente numi tutelari. Chi meglio di un ministro che ha percorso tutta la sua carriera tra la scrivania di capo dell’ufficio legislativo e quella di capo di gabinetto di svariati dicasteri? Chi meglio di un grand commis da cui dipendono le sorti dei suoi colleghi e del suo popolo?