Gabriella Colarusso, Lettera43, 4/6/2012, 4 giugno 2012
L’INTERVISTA
«Editoria, stop ai conti falsi»
Parla Poidomani, ex ad de Il Fatto.
di Gabriella Colarusso
Sostiene Giorgio Poidomani che mai come ora il giornalismo abbia dinanzi a sé un grande futuro: «Il desiderio di indagine e di comunicazione cresce enormemente. Le piattaforme digitali ampliano all’infinito le possibilità di azione. Ma i giornali non possono più pensare di vivere con i conti truccati», dice a Lettera43.it l’ ex amministratore delegato de Il Fatto Quotidiano, oggi nelle mani di Cinzia Monteverdi. E c’è da credergli, guardando agli ultimi tre anni della sua avventura imprenditoriale.
DA ROVELLI A IL FATTO. Quello che fu il braccio destro di Nino Rovelli alla Sir, poi manager dell’immobiliare vaticana Sogene, per due decenni dirigente nelle maggiori aziende del Paese, nel 2009 ha progettato la più straordinaria impresa editoriale degli ultimi anni, almeno a giudicare dai bilanci: un quotidiano su carta nell’era del web, che in meno di 36 mesi è riuscito a fare «12,53 milioni di euro di utili» e a distribuire lauti dividendi.
MEGLIO DI APPLE E BILL GATES. «In quasi tre anni Il Fatto Quotidiano ha remunerato 21 volte il capitale iniziale di investimento, una performance superiore a quelle fatte registrare da Bill Gates e dalla Apple», spiega seduto sul divano della sua casa al centro di Roma, a pochi passi da via Condotti, arredamento scarno e pile di libri su un tavolone di marmo: fotografia, cinema, storia.
Capelli bianchi, alto, maglioncino blu, Poidomani, 78 anni, spiega che lui «ha fatto solo la cornice, il Picasso l’hanno disegnato i giornalisti». Poi si avventura con discrezione nel racconto della sua dipartita dal quotidiano: «Non ho litigato con nessuno e se anche avessi litigato non lo direi. Sono molto legato ai ragazzi de Il Fatto».
DOMANDA. Perché ha lasciato allora? Dicono che fosse imbestialito per la decisione degli azionisti di incassare i dividendi.
RISPOSTA. Sono io il primo sostenitore dei dividendi. Ma non dimentichiamoci che quello che hanno versato come capitale iniziale, gli azionisti de Il Fatto Quotidiano l’hanno recuperato nei primi cinque mesi di attività del giornale.
D. Però qualcosa non le è piaciuto nella loro scelta.
R. L’ammontare delle cifra che hanno deciso di attribuirsi. Il Fatto è in utile, è una società liquida, che non ha debiti. Ma le aspettative di crescita per il 2012 sono peggiori del 2011. Non trovavo giusto distribuire i dividendi a giugno senza tenere conto di come va l’anno.
D. Qual era il suo progetto?
R. Una società come questa deve guardare al futuro. All’online, per esempio, sul quale abbiamo investito e sul quale si dovrà investire tanto.
D. Il Fatto è nato qui, a casa sua.
R. Si, facevamo le riunioni in questo salotto. Eravamo io, Padellaro, Travaglio e Gomez.
D. Neanche una donna?
R. Guardi che sono un femminista io.
D. Però nessuna firma femminile tra i fondatori. Concita De Gregorio?
R. Molto brava, ma non andiamo d’accordo. Poi era a L’Unità.
D. Da cosa è nato Il Fatto?
R. Da un presupposto: volevamo un giornale totalmente libero e non condizionato. Non doveva avere una proprietà che incidesse sulle scelte editoriali. E così è stato.
D. Di invasioni di campo lei ne avrà viste molte in 12 anni di editoria.
R. Oliviero Beha mi raccontò di essere stato sgridato al Corriere della Sera per aver parlato male della Fiorentina, di proprietà di uno degli azionisti. John Elkann è andato personalmente in redazione a redarguire il giornalista (Massimo Mucchetti, ndr) che aveva criticato il piano Marchionne per la Fiat.
D. E a L’Unità di Renato Soru?
R. Quando Soru è arrivato a L’Unità non ha detto a nessuno di che cosa ci si dovesse occupare. Però casualmente i giornalisti, che fino al giorno prima non avevano mai parlato della Sardegna, cominciarono a scrivere articoli sulla pastorizia.
D. Lo trova strano?
R. Il giornalista è spinto da un padrone o si auto-condiziona. Questo non deve accadere.
D. Si può essere liberi anche avendo padroni.
R. Certo, un giornalista può fregarsene della proprietà, ma non campa bene. Per questo gli azionisti non devono avere il potere di mettere bocca sul suo lavoro.
D. È questo che rende forte Il Fatto?
R. Si, insieme con l’opposizione ai contributi statali, l’attenzione al conto economico e la qualità dei suoi giornalisti.
D. Cosa vi dicevate nel suo salotto, che serviva un giornale anti-berlusconiano?
R. Se avessimo parlato di questi temi non avremmo trovato un accordo. Crede che io abbia una visione politica simile a quella di Travaglio? Io non c’entravo niente con la linea editoriale, quella deve farla il direttore. Al massimo scherzavamo. Travaglio mi diceva: «Lo sai che io sono filo israeliano e tu filo palestinese». E io rispondevo: «Non fa niente, tanto non lo compro il tuo giornale». Non ho mai influenzato e nemmeno commentato le loro scelte.
D. Snocciola orgoglioso i numeri de Il Fatto, ma ci sono anche collaboratori pagati 20 euro ad articolo.
R. Non è affatto vero. Prima della fine del primo anno di attività abbiamo stabilizzato tutti i giornalisti e a ognuno sono stati dati dei bonus: 3.000 euro il primo anno, 8.000 il secondo e il terzo.
D. E per chi scrive in modo occasionale?
R. Ci sono i contratti co.co.co e i borderò. Le regole innanzitutto.
D. L’informazione di qualità costa?
R. Sì, ma costa anche quella di pessima qualità: il contratto giornalistico è assurdo, regolato non secondo criteri meritocratici, ma di anzianità, con protezioni assistenziali anacronistiche.
D. Ora non ce l’ha più nessuno quel contratto. I giornali vivono di precariato.
R. I giornali negli ultimi 30 anni sono riusciti a vivere e prosperare attraverso ricavi fasulli e a differenza di altri settori industriali non si sono mai adeguati alle evoluzioni del mercato. La pubblicità dava loro un minimo garantito che era superiore alle vendite in edicola e questo viziava il conto economico.
D. Per esempio?
R. Il quotidiano Europa: vende 3.000 copie con tiratura da 60-65 mila. Ogni resa erode il 30% del budget di una copia venduta. Bisogna stare molto attenti alla rese e ai costi della carta, della stampa, delle foto e delle agenzie.
D. Intanto però si taglia sul personale.
R. Perché è la voce di bilancio più facile da tagliare, e perché ci sono gli ammortizzatori sociali. Ma così non si fa molta strada. Il successo di un giornale dipende in buona misura dalla qualità dei giornalisti e da quanto sono motivati.
D. La critica più ricorrente al giornale di Padellaro è che sia una sorta di bollettino delle procure. Non crede, lei che si definisce uomo di sinistra, che un ventata di garantismo non guasterebbe?
R. Credo che sia il momento di accompagnare la parte destruens con quella costruens. Dobbiamo credere nella democrazia e aiutarla a crescere. Ecco, la parte costruttiva manca, ma leggendo Corriere della Sera e La Repubblica non mi sembra che le cose vadano poi così diversamente.
D. E come vanno le cose?
R. Leggo sempre i giornali francesi. Dire «non votiamo» per loro è fuori discussione.
Gli anni all’Unità, tra il genio di Colombo e le lamentele di Fassino
D. Come ricorda L’Unità?
R. Me ne sono andato con un legame affettivo minore di quello che mi lega a Il Fatto.
D. I Ds facevano pressione sulla linea editoriale?
R. Nel periodo in cui era segretario Fassino, spessissimo. Parliamo del 2001. C’era una doppia azione di lamentela, perché il segretario chiamava alle 7 prima il direttore Colombo e poi il condirettore Padellaro.
D. Lei riceveva chiamate?
R. Ogni tanto ricevevo le telefonate di Ugo Sposetti, il tesoriere del partito: «Ehi, ma cosa avete scritto». Però poi non si è mai tirato indietro quando si è trattato di sostenerci.
D. Che direttore era Colombo?
R. È uno dei cinque uomini più intelligenti che io abbia mai conosciuto. Non gliene fregava niente dei costi, avevamo visioni economiche diverse, ma aveva straordinarie capacità giornalistiche. Era uno che a metà riunione diceva: «Accidenti qui bisognerebbe capire cosa ne pensa l’America: sentiamo Kissinger». E lo chiamava. Conosceva tutti.
D. Non fu molto amato dalla dirigenza del partito però.
R. Colombo è figlio della Fiat, era un uomo degli Agnelli, però è sempre stato quello che gli americani chiamano un liberal, aperto, progressista. Nel 2001, L’Unità era rinata da poco, capì l’importanza del G8 di Genova.
D. Come lo affrontò?
R. Mandò cinque inviati sul campo, e ogni giorno dedicava tre o quattro pagine all’evento. Il giovedì morì Giuliani. Il venerdì sera si decise la grande manifestazione del sabato e Fassino dichiarò che il partito non avrebbe partecipato alla manifestazione. Il quotidiano in quel momento divenne punto di riferimento di una sinistra progressista che non poteva accettare che il partito non ci fosse. Per diversi mesi L’Unità vendette tantissime copie.
D. E poi?
R. A novembre arrivò quella dichiarazione di Gavino Angius: «L’Unità non è il nostro giornale, non abbiamo niente a che fare con loro, non capisco perché debbano avere i nostri contributi».
D. Nel 2002 esplose il Correntone.
R. Sì con Cofferati e dentro c’era anche Veltroni. Noi pubblicammo la loro rivista Aprile, la voce dell’opposizione interna, in allegato con L’Unità. Successe un casino. Il giornale era visto come non ossequiente.
D. Nel 2009 poi è arrivato Soru e lei se n’è andato. Dicono che non vi sopportavate.
R. L’Unità all’epoca perdeva una barca di soldi, nonostante i 6 milioni di euro di contributi pubblici. Soru, che era anche presidente della Regione Sardegna e azionista di maggioranza di Tiscali, fece fare una due diligence più rapida di quella degli Angelucci, e comprò.
D. Che progetti aveva?
R. Aveva in mente di cambiare il direttore, i maligni affermano su indicazione di Veltroni, ma non ho le prove per dirlo, e aveva una visione del futuro della società molto diversa dalla mia.
D. Però le chiese di restare.
R. Si, ma avrei voluto confrontarmi con lui sul progetto industriale e non fu possibile. Nel frattempo arrivò Concita De Gregorio, ci furono la campagna di Toscani e il restyling grafico. Decisi di andare via.
Quella volta che all’Odeon occupato scoprì d’essere servo dei padroni
D. Dice di aver scoperto la politica in tarda età. Ricorda l’iniziazione?
R. Il Maggio parigino. Lavoravo in Francia come manager per un’azienda di prodotti chimici.
D. Come si avvicinò alla contestazione?
R. Una sera, appena uscito dal lavoro, andai nel quartiere latino, all’Odeon occupato dove era in corso un’assemblea. Ci andai in giacca e cravatta. Chiesi di iscrivermi tra gli interventi e mi qualificai: «Sono l’amministratore delegato di.. Fui letteralmente mandato a quel paese». «Vattene, servo dei padroni». Mi sentii umiliato, volevo dir loro che il movimento aveva conquistato anche persone come me, ma capii la loro reazione.
D. E oggi cosa pensa dei ragazzi di Occupy Wall Street?
R. Hanno ragione. Non si può pensare che sia giusto un Paese dove tra le 9 e le 9.05 il rapporto dollaro-euro cambia di tre punti e c’è un signore che ha portato a casa 2 milioni di euro.
D. Come si cambia questo sistema?
R. Non esistono altri mezzi che la democrazia, il voto cosciente.
D. Napolitano però ha preferito consegnare l’Italia a un governo tecnico.
R. Con il default a due passi, un governo Berlusconi non più in grado di fare nulla e una opposizione non pronta, non c’erano alternative a qualcosa di molto forzato.
D. Il Pd era impreparato. Inevitabile?
R. No, imperdonabile.
D. Come lo spiega?
R. Sono stato alla tre giorni di Firenze che nel 2007 ha dato origine al Pd: chiunque avrebbe capito che non poteva stare in piedi. Sui principi fondamentali non c’era il minimo accordo e continua a non esserci. I leader non si rendono conto della loro impopolarità.
D. Cosa significa per lei essere di sinistra?
R. Le stesse cose di 40 anni fa: una società in progresso che rende più giusti gli equilibri economici tra le persone, tasse progressive, uno stato sociale molto forte e l’accesso alle stesse possibilità sia per i poveri sia per i ricchi.
D. Curioso per un uomo che ha speso gran parte della sua vita al servizio del capitale.
R. Mi sono sempre interrogato su questa contraddizione, ma credo che si possano fare gli interessi di una società prestando attenzione al fattore umano, ai lavoratori, ai dipendenti, agli operai. E senza essere ladri.
Da Sindona a Marchionne, un capitalismo non all’altezza
D. Di chi parla?
R. Nell’80 fui chiamato da due banche a occuparmi della più grande società di costruzione che esisteva all’epoca in Italia, la Sogene, che apparteneva al Vaticano e possedeva degli asset incredibili tra cui l’hotel Watergate a Washington e la metropolitana di Città del Messico.
D. Chi erano i suoi interlocutori?
R. Marcinkus, Calvi e Sindona.
D. Perché dice che si rubava all’epoca?
R. Il primo giorno di lavoro ricevetti una telefonata dell’allora presidente della metropolitana di Milano. Mi diede appuntamento all’hotel Raphael, l’albergo romano di Craxi e mi disse: «La sua società ha chiesto 3 miliardi di danni alla metro. In realtà dovremmo noi chiedere un risarcimento perché avete lavorato male. Ma facciamo così: da 3 miliardi ne chiede 2 e uno lo gira a me».
D. Lei andava a negoziare le fidejussioni allo Ior, dentro il Vaticano. Ha conosciuto Sindona, che ricordo ne ha?
R. Aveva uno sguardo di una freddezza disumana, sembrava un alieno. Con me parlava il meno possibile, sapeva che mi avevano mandato lì le banche per scoprire tutti i casini che aveva combinato negli Stati Uniti. Mi sentiva come un nemico. Ma quello che mi ha sempre fatto impressione è stato Marcinkus. Il ritratto della spietatezza, un banchiere cattivo.
D. Cosa vuol dire coniugare gli interessi di una società con l’aspetto umano del lavoro?
R. Vuol dire che non ho mai fatto Marchionne.
D. Cioè?
R. Non faccio finta che si faccia il conto economico di un’azienda con un’ora di sosta in meno. La Igefar tedesca ha aumentato gli stipendi dei metalmeccanici del 3,1%. Il problema non è il personale.
D. Marchionne ha centrato tutta la sua azione sulla produttività degli operai.
R. Prima del referendum, Marchionne disse che per Fabbrica Italia avrebbe messo sul piatto 20 miliardi di euro di investimenti e che uno di questi sarebbe andato a Mirafiori per fare il Suv.
D. Cosa non la convince?
R. Non ho mai visto uno che si presenta con un piano e dice cosa fa di un 20esimo delle risorse disponibili per quel piano.
D. Perché allora il referendum se non c’erano né soldi né piano?
R. Ha voluto spaccare la manodopera. E chi ha votato «sì» ora cosa si ritrova? Oggi Mirafiori è tutta in cassa integrazione, compresi gli ingegneri.
D. Si parla tanto di Casta politica, ma anche la qualità del nostro capitalismo non sembra eccellente.
R. Non solo degli imprenditori, anche della dirigenza. Quando vede persone ritenute per bene uscire con una buonuscita esorbitante deve chiedersi perché.
D. Perché?
R. Per stare zitti, perché hanno fatto gli intrallazzi più luridi, tutti. Voglio ricordare che il consiglio di amministrazione di Unicredit è stato riunito tre ore per decidere se fare o meno un’azione di responsabilità contro Profumo per aver pagato troppo Capitalia. L’ ha comprata senza fare due diligence.
D. Non meritava quella buonuscita milionaria?
R. In quel momento la banca aveva il famoso Tier a 7: significa che su 100 euro, sette erano della banca, il resto dei risparmiatori. Quindi i 40-50 milioni di Profumo per il 7% erano della banca, ma per il resto erano degli investitori.