Arturo Zampaglione, A&F la Repubblica 4/6/2012, 4 giugno 2012
MCDONALD’S, RIVOLUZIONE LOCALE NEL MENU MAI PIÙ PANINI UGUALI PER TUTTO IL MONDO
New York Sarà la più grande operazione di cateringin tempo di pace. Quando infatti il 27 luglio si apriranno a Londra i giochi della trentesima Olimpiade, un esercito internazionale di settemila giovani svelti ed efficienti sarà al lavoro notte e giorno per servire 14 milioni di pasti, di cui un milione e duecentomila agli atleti che si contenderanno le medaglie d’oro, d’argento e di bronzo. E il tutto sotto i “Golden Arches”, gli Archi d’oro del marchio McDonald’s: perché anche questa volta la numero una delle ristorazione mondiale sarà uno sponsor delle Olimpiadi e impegnata in prima fila per il loro successo. La multinazionale sta per allestire nell’area olimpica quattro maxi-ristoranti che, a un prezzo un po’ più alto del solito (si calcola che un pasto con bevande per quattro persone finirà col costare una cinquantina di euro), offriranno non solo gli immancabili panini all’hamburger, ma anche a sorpresa alcuni piatti tipici della Gran Bretagna come “fish and chips” (pesce fritto e patatine) e “pie and mash” (sformato di carne con purea). Perché questa scelta? “E’ un omaggio - spiegano alla McDonald’s alla tradizione e alla ricchezza cucina inglese”. In realtà è anche qualcosa di più: cioè la conferma che la società-simbolo della globalizzazione alimentare ha imboccato la strada della regionalizzazione dei suoi menu. Negli anni Quaranta, quando Richard e
Maurice McDonald avviarono la loro attività in California, che poi fu rilevata e lanciata in grande stile da Ray Kroc a Chicago, l’obiettivo era di applicare le tecniche della catena di montaggio all’alimentazione di massa, minimizzando i costi di produzione e di vendita e massimizzando la velocità del servizio. Il successo del “fast food” fu immediato. Sbarcata a Wall Street nel 1965, la società di Oak Brook nell’Illinois non smise di allargarsi geograficamente ed economicamente. Nel 1967 aprì il primo locale fuori dagli Stati Uniti, a Richmond nella British Columbia canadese. Alla fine degli anni Settanta i “Golden Arches” erano in quasi tutti i continenti, nell’84 lo sbarco in Italia, nel 1992 fu inaugurata la prima sede africana. Adesso la McDonald’s è un colosso quasi senza rivali. Ha 33mila e 500 punti di ristoro in 119 nazioni, 420mila dipendenti, un fatturato di 27 miliardi di dollari e una capitalizzazione di borsa di 90 miliardi grazie alla robusta domanda di titoli legata a dividendi sempre in crescita. L’espansione internazionale ha creato ovviamente rancori e contraccolpi: la catena è stata accusata di omogeneizzare i gusti e imporre i suoi hamburger stile-americano, a spese delle tradizioni gastronomiche e della salute. Alcuni libri e alcuni film, come “Supersize me”, diretto e interpretato da Morgan Spurlock, ne hanno denunciato il ruolo nel favorire una obesità di massa. Ma da alcuni anni la multinazionale sta cercando di cambiare pelle, puntando soprattutto su menù più dietetici e più diversificati. I primi segnali di un mutamento di rotta si sono avuti durante la guida di James Skinner, il chief executive che andrà in pensione alla fine di questo mese. Il suo successore Don Thompson, che sarà anche il primo afro-americano alla tolda di comando del gruppo, ha promesso che accelererà il processo: per mettere a tacere le critiche, o almeno smussarle per attirare nuovi consumatori e per combattere la concorrenza, che adesso non viene tanto dalle altre catene di hamburger, come King Burger o Wendy, come era il caso fino al 2006, ma da Subway e Starbucks specializzate in altri prodotti. Certo, anche nel passato la McDonald’s era attenta alle esigenze regionali dei suoi menu: in India, ad esempio, non è mai andata contro le regole degli induisti vendendo hamburger di carne bovina, né contro quelle dei musulmani con la carne di maiale, ma si è limitata a una versione del famoso Big Mac, chiamata Maharaja Mac e basata sulla carne di pollo. In Israele ha sempre servito prodotti kosher e per l’Indonesia ha creato il McRice (un piatto di riso al vapore). Ma se queste scelte erano legate soprattutto a ragioni religiose, il nuovo corso si propone di allargare la gamma, facendo leva sui know-how in loco, per adeguarsi ai palati e sollecitare la curiosità dei clienti. Di qui la preparazione delle ricette britanniche in coincidenza delle Olimpiadi di Londra, dove saranno anche venduti spiedini africani e salse caraibiche. E l’anno scorso la consociata italiana della McDonald’s, guidata da Roberto Masi, ha cercato di attirare nuovi clienti e di stupire i vecchi con un connubio di alta cucina e fast food dal sapore mediterraneo: panini con nomi musicali (Adagio, Vivace), ideati dal super-chef Gualtiero Marchesi che ha associato la carne di manzo italiano a melanzane e spinaci. L’esperimento di Masi-Marchesi è durato solo poche settimane: anche questo è un nuovo trend della catena dei “Golden Arches”. Mentre una volta i piatti rimanevano per sempre sui menu, adesso tendono a entrare e uscire con una certa frequenza, in modo da non annoiare gli habitué. “Anche per il consumatore americano, che forse è il meno sofisticato, la varietà del cibo comincia a essere un fattore molto importante”, spiegano i collaboratori di Don Tompson. E lo è anche la possibilità di scegliere piatti sani e dietetici, o quanto meno a ridotto contenuto calorico, seguendo la campagna avviata da Michelle Obama alla Casa Bianca e dal sindaco Michael Bloomberg nei ristoranti di New York. L’enfasi sui menu mette a dura prova il team di chef della multinazionale guidati da Dan Coudreaut, un cuoco di classe laureatosi al Cia (Culinary institute of America), “l’università della cucina” a nord di New York. “Il mondo sta diventando più piccolo, i gusti sembrano sempre più audaci e dobbiamo allargare la gamma dell’offerta”, spiega Coudreaut, cui si deve l’introduzione di nuove insalate e delle minestre di avena. Il gran chef della McDonald’s spiega anche che ogni nuovo piatto introdotto nel menu richiede una preparazione di un paio di anni, in modo da garantire la preparazione del personale e l’approvvigionamento delle materie prime in quantità pantagrueliche. Basta pensare che il gruppo è il maggiore acquirente di mele negli Stati Uniti: 30mila tonnellate all’anno. In teoria il nuovo corso sui menu regionali e dietetici potrebbe nascondere un pericolo: rivoluzionare il brand McDonald’s facendogli perdere la vecchia identità cara a milioni di fedeli consumatori. Come rispondono gli executive? “Anche se cercheremo di offrire il meglio nei nostri menu - dice Nick Hindle che guida l’offensiva mediatica delle Olimpiadi - resteremo una catena di hamburger. E non possiamo far finta di essere diversi da quelli che siamo”.