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 2012  maggio 22 Martedì calendario

LA GLORIA NON VEDO, MA FORSE IN EMILIA SI PUÒ RIPARTIRE, TAGLIATELLE SU TAGLIATELLE, MATTONE SU MATTONE - A

Finale Emilia dovevo andare a mangiare alla Fefa ma passavano le stagioni e non ci andavo mai perché, come dice il nome, Finale è alla fine dell’Emilia, lontanissimo dalle città sulla strada consolare che battezza la regione. I locali della Bassa già subivano ogni giorno il trauma dell’autovelox e ogni notte lo choc dell’etilometro, ci mancava il terremoto. Dove saranno adesso i cappellacci di zucca con salvia, mandorle e amaretti? E la coscia d’anatra con salsa al Lambrusco? E la torta di tagliatelle al profumo di Anicione (prodotto dalla Casoni Liquori la cui fabbrica in questo momento è chiusa)? Forse nello stesso luogo, troppo poetico per potermi piacere davvero, dove si trovano le nevi dell’altro anno?
Una volta un terremoto era una disgrazia. Oggi un terremoto è due disgrazie: la disgrazia di sempre ovvero la morte delle persone e la disgrazia moderna ovvero la morte delle città. Nel 1693 il terremoto più violento della storia d’Italia fece morire 60.000 persone e nascere il barocco siciliano: senza quella tremenda scossa (11° grado della scala Mercalli) non esisterebbero le meraviglie di Noto, Modica e Ragusa, e la serie del commissario Montalbano avrebbe avuto meno successo. Nel 2009 il terremoto dell’Aquila ha ucciso, oltre a 308 persone, la più bella, la più integra, la più pulita, la più civile città del vecchio Regno di Napoli. In mezzo ovviamente non ci sono solo tre secoli, c’è la fine dell’autorità (in Val di Noto il viceré spagnolo diede pieni poteri al duca di Camastra, in Abruzzo la ricostruzione si è persa nel labirinto degli enti locali, degli uffici ministeriali e dei tribunali); c’è la fine dell’urbanistica (l’aristocratico Giuseppe Lanza era un genio dei piani regolatori: come se oggi i democratici Vasco Errani o Raffaele Lombardo fossero in grado di spiegare il da farsi a Marco Romano o Nikos Salingaros); c’è la fine dell’architettura (al posto dei frati e dei padri gesuiti che senza l’alibi-zavorra di un titolo di studio disegnarono le facciate apprezzate dall’Unesco oggi ci sono soltanto dei laureati); c’è la fine della manualità edilizia (i muratori stranieri, che riempiono il vuoto lasciato dalla manodopera locale, non sono capaci di alzare un muro di mattoni faccia a vista). Ma forse per spiegare e sintetizzare tutto questo melanconico regresso bastano due versi del Salmo 126: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”. Così quando ho visto crollate le chiese di Finale, Sant’Agostino e San Felice ho visto crollata la liturgia di quei paesi. Non saranno certo i vescovi ipocredenti della Cei, al guinzaglio dei vari Botta e Fuksas, a ricostruire facciate e campanili per la gloria di Dio. Sarà forse Antonia Pasqua Recchia del ministero dei Beni culturali: “Bisogna numerare le pietre e rialzare le torri per anastilosi”. (Anastilosi è il metodo grazie al quale tutto il mondo può ancora ammirare il campanile della cattedrale di Trani). Oppure Luca Zevi, responsabile del Padiglione Italia alla Biennale Architettura: “Parliamo di simboli fondamentali legati all’identità civile e territoriale, visibili da lontano, attorno ai quali accorrere in caso di necessità”. O invece Vittorio Sgarbi, quasi genius loci che nella casa avita non registra danni e che è subito corso dal ministro Ornaghi per caldeggiare un comitato capace di impedire agli architetti nichilisti di sbizzarrirsi e nuocere. Sarà quindi il com’era dov’era: se non prevarranno le forze del male, i paladini dell’entropia.
Volevo andare a Finale per mangiare alla Fefa, prima ancora volevo andare a Bondeno, altro paese dall’altro giorno terremotato, per mangiare al ristorante Tassi sulle orme di un mio maggiore, Mario Soldati, che lo aveva mostrato nel programma televisivo “Viaggio nella valle del Po” (c’è un gustosissimo frammento su Internet) e raccontato nella “Messa dei villeggianti” (bella edizione Oscar Mondadori): “Finché furono pronti i caplàzz, e coi caplàzz, coi tartufi, coi cotechini, coi brasati, coi fagiani, coi nervetti, con le insalate, e soprattutto con i discorsi e la simpatica compagnia, si passò senza accorgercene la mezzanotte”. Volevo andarci insieme ad Adriana appunto Tassi, amica ferrarese con casa di campagna a Vigarano Mainarda, “totalmente inagibile”, ma poi mi dissi che correvo il rischio di delusioni, dopo mezzo secolo chissà che fine avevano fatto i caplàzz e soprattutto i fagiani (Enzo Tassi era un ristoratore-cacciatore, figura semiestinta, mi viene in mente solo Lucio Pompili nelle Marche). Sono troppo sensibile, mi fanno soffrire i guasti del tempo sul volto di cose e persone amate, e come un po’ vigliaccamente evito le ragazze di vent’anni fa così cerco di non tornare all’Aquila. Non voglio fare Geremia piangente sulle rovine di Gerusalemme, preferisco la vita quindi non voglio considerare i cappellacci di zucca, la coscia d’anatra al Lambrusco, la torta col profumo di Anicione perduti per sempre. Anche se la situazione giustifica il pessimismo più cosmico. “Vedo le mura e gli archi/ e le colonne e i simulacri e l’erme/ torri degli avi nostri,/ ma la gloria non vedo”, scriveva Leopardi, mentre io non soltanto non vedo la gloria, non vedo più nemmeno le torri. Magari però si sente ancora il profumo di Anicione e da lì si può ripartire, tagliatella su tagliatella, mattone su mattone.