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 2012  giugno 02 Sabato calendario

“In ginocchio davanti a Nietzsche” - Lo chiamano «professore», ma lui - pur non opponendo che una mite resistenza - schiva l’etichetta

“In ginocchio davanti a Nietzsche” - Lo chiamano «professore», ma lui - pur non opponendo che una mite resistenza - schiva l’etichetta. Manlio Sgalambro è un siciliano che crede nei concetti e che da sotto il vulcano (siamo a Catania) guarda la realtà come un freddo selenita, come un padre del deserto. Aperto a tutto - filosofo, scrittore, poeta, paroliere, musicante, persino attore - sostiene da autodidatta che tutto è venuto per caso. Perennemente attento ai contrasti, alle aporie, alle antinomie («la verità è il contro»), la sua gentilezza sorprende perché dove aspetti un rude interprete della nostra pieghevole umanità trovi un signore severo che ti spiazza sorridendo e «consolando» (pensando a Boezio ha scritto: «solo la verità consola»). Intanto da Adelphi è appena uscito l’ultimo titolo, Della misantropia : un libro complesso in cui la misantropia viene contemplata «con lo stesso amore che si ha per l’amore». Ma il primo amore per lei non è forse il concetto? «Sì, amo il concetto, amo che le cose passino attraverso questo medium. Il concetto è un cristallo ricco di sfumature». Il primo libro che lesse? «La formazione naturale nel fatto del sistema solare di Roberto Ardigò. Mi capitò di trovarlo per caso nella biblioteca di un mio parente. Mi colpì la concezione di un universo privo di deità, ma non fu il pensiero a colpirmi davvero. Fu piuttosto la scrittu- ra, il fatto che fosse un’opera magnificamente scritta». Altre letture? «I Principi di psicologia di James. Ci fu un periodo appena dopo la guerra, pur spiantato com’ero, in cui con un mio amico frequentavo una libreria antiquaria catanese. Io intrattenevo il libraio, e l’amico rubacchiava. Così potei avere i Principi di James e ricordo che andò così anche con L’amante di Lady Chatterley . Ma credo che nel sorriso malizioso del libraio ci fosse tutta la consapevolezza dei furti, tant’è che non mancava di rivalersi sul prezzo degli altri libri che compravamo». Solo letture sode, niente futilità? Albi, fumetti? «Ragazzino leggevo Il Monello e altri giornaletti del genere. «Lei ha parlato di «suggestione dell’opera come qualcosa da cui non possiamo difenderci». Sempre da perfetto autodidatta? «L’autodidatta è affetto, sicuramente, da quello che zio Sigmund chiamò il complesso di inferiorità. Vuole strafare sempre ed è portato a leggere pazzamente. Ma fa delle scoperte folgoranti. Scoprii Heidegger, ad esempio, per cui ebbi in seguito quasi una ripugnanza. Ma mi buttai in ginocchio davanti al suo Sein und Zeit . Impazzii per la fenomenologia di Husserl le cui Ricerche logiche immediatamente dopo la guerra potei leggere solo in traduzioni spagnole». Lei è caduto in ginocchio anche davanti a Nietzsche, pur avendo scritto del suo Zarathustra: «ma tappategli prima la bocca». «Quello che ho appreso da Nietzsche l’ho risputato poi nel mio Anatol , libro apparso nel ’90, in cui a Zarathustra contrapposi Anatol». Con quale animo ha affrontato la sua formazione «da giovane cane»? «A sedici-diciassette anni vivevo a tentoni, in un paese tutto mentale. Mi interessavano i problemi, ma anche le soluzioni. Me ne esaltavo anche se poi ho imparato a essere più freddo. Vi fu una fase in cui mi appassionai per il buddismo (appreso dai Discorsi del Buddha , appena apparsi da Laterza, e dalle opere sul buddismo di Oldenberg). Cercavo di dominare i miei impulsi imponendomi vari cilici. Cose da pazzi, si direbbe, ma in un giovane comprensibili». Una forma di allontanamento? «Il conoscitore che vuole sostenere la sua parte nel theatrum mundi deve allontanarsi da sé: almeno venti passi, come farebbero due duellanti. La filosofia non è autobiografica. Parla del sé ma vuole strapparselo di dosso». Nella sua opera i classici citati sono numerosi: da Plutarco a Petronio, da Luciano a Quintiliano… «I classici sono coloro che le furie del tempo possono assediare ma che restano sempre lì, che ti cadono addosso. Se penso al Satyricon penso allo splendore della sua trama, ma soprattutto al suo apporto verbale, all’apporto della scrittura». A proposito della scrittura - si dice spesso che i filosofi scrivono male - mi pare che lei sia un filosofo che per la scrittura ha un amore molto speciale. «Di fatto avevo problemi di scrittura che nei filosofi non trovavo, a parte Croce». Chi tra gli scrittori le ha insegnato di più? «Molto i tedeschi, da Goethe a Broch. In Thomas Mann ho trovato la pacatezza, uno che domina ciò che dice con mano di timoniere. Un dominio che può arrivare al sopore, però». Anche con i francesi mi pare che non abbia scherzato. «Sono arrivato a Paul Bourget, ad ammirarlo soprattutto per i suoi scritti sulla "decadenza", attraverso Nietzsche. Ho letto, e ho riso filosoficamente, con Anatole France. Però mi sono sempre vantato di possedere le opere complete di Voltaire, in una edizione di fine ’800 in 44 volumi. Ovviamente andavo dal poema satirico su Giovanna D’Arco al Candide e al suo giardino. Torno a dire: tutto questo è tipico dell’autodidatta che non segue mai una via retta, che torna e ritorna sulla stessa strada». Sono in molti a sottolineare la sua vigilata passione per la scrittura aforistica. Nietzsche, d’accordo, ma anche i cosiddetti moralisti classici, La Rochefoucauld e compagnia? «Al termine "aforisma" preferisco l’espressione "forma breve". Le dirò che mi muovevo anche un po’ a dispetto dei moralisti francesi. In loro ci sono schegge, io invece ho sempre cercato di dire in breve tutto ciò che può essere detto di una "cosa". Oggetti e luoghi mentali. Che so? Una scrivania, una stanza d’albergo, un filo di luce che trapassa dalle persiane...». Qualcuno ha voluto accostare la sua opera all’opera di Cioran. «Non riesco proprio a capire da dove venga questa storia. Cioran l’ho letto tardi e devo dire che non mi è mai piaciuta la sua fatuità. Uno che quando scrive gioca a poker». Per restare in terre più affini, le piace di più il nome di Bufalino? «Con Bufalino fummo amici. Lui curava molto l’amicizia. Fui più volte da lui. Ricordo che una volta ci incontrammo a Siracusa, invitati a un convegno di storia siciliana. Si parlava della guerra tra sicilioti e cartaginesi e del fatto che, dopo tanto battagliare, tutto finisse all’improvviso. Feci allora una considerazione: e cioè che è la guerra stessa a decidere quando finire. Lui ne convenne. Lo ricordo anche in un duetto con Sciascia sulla mafia. Sciascia parlava parlava e Bufalino ascoltava attento con l’ironia di un sorriso finissimo e sottile». Vogliamo restare sui «siciliani»? «Come potrei dimenticare D’Arrigo? La bellezza del suo mistilinguismo che trapassa da costa a costa. Né dimentico Pizzuto, che appartiene agli scrittori più miei. Ne possiedo quasi tutti i libri, da Si riparano bambole aPaginette . Ritrovo in lui la compostezza di chi sa dominare i frammenti rimasti dopo una esplosione«. Tra i «continentali»? «Gadda mi ha dato molto, ma non ho potuto restituirglielo». Lei è anche poeta. «Sì, scrivo poesie, ma penso che la prosa sia "superiore" alla poesia. La prosa ha più nobiltà dentro di sé. Mentre la poesia si può far finire in qualsiasi momento, la prosa ha bisogno di essere espressa fino a quando dice tutto ciò che deve dire». Professore, la domanda obbligata. Lei, compagno d’avventura di Battiato. Come concilia il concetto, la poesia, la canzone? «Per la verità non ho mai tentato di conciliarli. Sono mondi che vanno ciascuno per proprio conto. Ma forse alla fine si incontrano, chi lo sa?». Una domanda che forse la imbarazzerà. Se dovesse citare qualche narratore d’oggi? «È territorio che non frequento. Leggo però volentieri Cordero: ma è di "oggi"?». La domanda più futile. Tra lo scrittoio, il letto e il divano, dove legge preferibilmente? «Sul divano».