Alberto Arbasino, Corriere della Sera 02/06/2012, 2 giugno 2012
L’IRRESISTIBILE RICHIAMO DELL’EVENTO IN UNA SOCIETA’ CHE VUOLE FARSI MASSA - U
n terremoto a Roma… Anni e anni fa, con Fabio Mauri e un gruppo d’amici, si assisté a un caratteristico spettacolo di Peter Brook. Nei pressi di Piazza Bainsizza. Molto suggestivo lo scavo edilizio ove si discese. Favolose le voci recitanti, in vari dialetti afro-asiatici. Incantati e stregati gli strumenti musicali arcaici o arcani. Parvero magiche anche le fettuccine e pappardelle nella vicina pizzeria, ove si cenò all’aperto.
A un tratto, tutti gli allarmi delle banche attigue presero a strillare: mentre tutte le finestre si spalancavano, piene di gente che gridava allarmatissima.
Forse perché ci si stava alzando, con movimento di sedie, praticamente non si avvertirono le scosse. Però, a casa, si erano rovesciate le lampade accanto al letto.
***
In una recente «Lettura», Pierluigi Battista osserva che le fiere librarie sono piene, mentre le librerie rimangono vuote. E chissà come saranno i musei, se non c’è qualche Notte Bianca per affollarli. E se le mostre in corso non sono «Eventi».
Già. Il comune senso dell’aggregazione collettiva, si sa, induce le masse (appunto) ad ammassarsi in adunate, sfilate, manifestazioni. Mandria, branco, gregge, movida. Si diceva, una volta, a Parigi: «Tutti domenica alla manif, ma che manif c’è domenica?». Il contrario del weekend inglese in campagna, insomma. Attualmente, piuttosto che le vecchie processioni, risultano più à la page le fiaccolate: per qualunque causa, auspici, auguri, grazie di cuore, o massacri, eccidi, stragi.
Sempre più popolari, le code e file davanti agli Eventi: quante piacevoli chiacchiere, gossip, scambi di siti e blog… Una volta dentro, spossati, le sale coi video.
***
Ma che peccato aver perso le repliche veneziane di Powder her Face (forse anche per il titolo poco attraente: «Incipriale il viso»). Ma il programma di sala ingolosisce sulle tante possibilità immaginabili nello spettacolo di Pier Luigi Pizzi circa i continui cambi di identità dei quattro protagonisti, e le innumerevoli citazioni musicali da parte del compositore, Thomas Adès. Si era rimasti a un suo concerto di «Tempeste» a Santa Cecilia, alla fine di marzo. Assai fragoroso. Alla fine, si spaccò un proiettore, e crollò su un professore d’orchestra.
Così, intanto, si torna indietro di almeno mezzo secolo, quando i giornali scandalosi di Londra quotidianamente ci aggiornavano sulle favolose prodezze sessuali della duchessa di Argyll, celebrata e sputtanata appunto da quest’opera. Non appare qui una sua leggendaria prodezza: gli specchi del bagno con trasparenza dal dietro, come poi nelle più mitiche e realistiche pratiche della Stasi nella Germania dell’Est. E pare che un robusto cantante pop gallese (membro della categoria «ripetente» e non già «irripetibile») ivi si producesse in partouzes plurime a cui nel momento giusto la gentildonna si associava.
La si vedeva allora a colazione in un ristorante francese in voga preso Berkeley Square. Da sola, con un immenso cappello a fiori, impossibile da non notare. La si sogguardava all’inglese, facendo finta di nulla o quasi. A un tratto, una dama: «Guarda guarda. Ha mangiato un leprotto».
***
«Le scriverò, l’avviserò, chiarirò, dichiarerò, spiegherò, gli darò querela»... E mai: le ho subito scritto, l’ho già avvisato, ho immediatamente chiarito e dichiarato e spiegato che si trattava di una licenza poetica, di un momento di riflessione, di una tavola di confronto, di una pausa-pasto sulla punta dell’iceberg… Sono state già presentate le relative querele…
«Spero, promitto e iuro, vogliono l’infinito futuro», si insegnava nelle scuole di una certa volta… «Grave», si suole frequentemente ripetere, con gravitas, a proposito (per lo più) di stronzate. Anzi, addirittura, «sarebbe grave se». E peggio ancora, «sarebbe singolare».
Ma alla fine di ogni considerazione o predica moralizzante e perbenistica, coi relativi rimproveri agli italiani, veramente bisognerebbe ripetere, come un mantra severo e grave, «signora mia». Sennò, inevitabilmente, quasi tutti gli italiani ne sentono la grave mancanza.
***
Il consueto programma del Festival di Salisburgo reca come sempre in copertina lo stendardo austriaco, bianco e rosso in bande verticali. Come nelle pitture sul ritorno dei Cavalli di San Marco, dopo le razzie napoleoniche. Lì sventolavano molto bandiere bianche e rosse, festose davanti alla basilica. Ma… «Ecco il vessillo dell’odiato oppressore!», dicevano certi vecchi veneziani. E trasalivano, ascoltando «lo sbarco della Fiat a Venezia», nei discorsi celebrativi per l’acquisto di Palazzo Grassi, da parte torinese. Mi spiegavano che uno «sbarco», ai tempi della Serenissima, poteva soltanto essere nemico.
***
Secondo le conclusioni di Edmondo Berselli, L’economia giusta (Einaudi), alla parola maledetta, «povertà», dovremo farci l’abitudine. La scelta: poveri consapevoli («e quindi occorre accingersi a costruire una cultura di un benessere più limitato»), oppure inconsapevoli, «e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili».
E per i velleitari, gli utopisti, gli indignati di massa?
Progresso, sviluppo, crescita? O remi in barca?
Alberto Arbasino