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 2012  giugno 04 Lunedì calendario

CON I COLORI HIP HOP LA CRISI SCOMPARE


Non solo orologi per il gruppo Binda (ora in tre Continenti). Al via la linea Jewels con ornamenti in acciaio e Swarovski

Le sfumature degli orologi nati nell’84 e rilanciati nel 2010

Questa storia italiana di successo inizia nel 1906. Per raccontarla però cominciamo dal 2011, l’annus horribilis dell’economia che vede invece questa azienda chiudere con un fatturato di 300 milioni di euro e un utile netto triplicato rispetto all’anno prima. Cos’è successo? Che fra i tanti marchi di orologi che possiede, produce e distribuisce, uno in particolare - colorato e profumato che aveva già fatto boom negli anni Ottanta - viene rilanciato e riaggiornato, e in 18 mesi vende tre milioni e mezzo di pezzi. L’orologio si chiama Hip Hop e l’azienda Binda; il nome è quello di chi la fondò oltre un secolo fa ed è lo stesso che porta chi la guida adesso. Però non si parla più di un piccolo laboratorio di famiglia sul Lago Maggiore ma di un grande Gruppo con tre sedi nel mondo: Milano, New York, Zhongshan (Cina, ça va sans dire).

Tra i marchi di proprietà, oltre a Hip Hop ci sono Breil, Vetta, Chronotech, Freestyle; tra quelli in licenza Moschino Cheap & Chic e Kenneth Cole; tra quelli distribuiti in esclusiva, Seiko e Lorus. Ma questa non è solo una storia di orologi. Nel 2001 Breil presenta la prima linea di gioielli in acciaio e apre un mercato che non esisteva; e proprio in questi giorni nei negozi arrivano gli Hip Hop Jewels, una collezione formata da anelli e orecchini in silicone impreziositi da Swarovski e da un bracciale.

Un nuovo lancio, un nuovo prodotto per smuovere il mercato e andare incontro alle esigenze del consumatore di oggi, un po’ depresso ma convinto di aver diritto a qualche gratificazione e a un po’ di buonumore. E forse è in questa attenzione che sta il segreto del successo. L’aspetto del prezzo è molto importante in un momento in cui tutti fanno i conti con quanto rimane a disposizione dopo aver pagato tasse e bollette», spiega Marcello Binda, amministratore delegato, assieme al fratello Simone, del Gruppo che porta il nome loro e del nonno. «Si parla di gioielli che vanno dai 19 ai 22 euro, che il consumatore può acquistare per sé o come regalo a chi ha già l’orologio». Il progetto dei Jewels, infatti, è la naturale espansione glamour del mondo Hip Hop, partito quasi 30 anni fa...

«Il marchio è nato nell’84 e ha portato un modo nuovo di interpretare l’orologio, la morbidezza della gomma allora e del silicone oggi, i colori, la profumazione, l’intercambiabilità dei cinturini». Caratteristiche vincenti all’epoca, rimaste inalterate oggi, a cui si aggiunge qualche aggiornamento. «È migliorata la qualità, tutti i prodotti sono garantiti impermeabili a 50 metri di profondita; e la richiesta da parte di un pubblico non solo femminile ha portato alla creazione di modelli con misure più grandi».

Ma si ha l’impressione che «l’X factor» stia soprattutto nel colore, che nella nuova collezione per l’estate 2012 vuol dire - come nella moda e ovunque - tutte le sfumature del fluo. Hip Hop voleva anche essere una sorta di cromoterapia pret-à-porter: «Guardare l’ora, da atto potenzialmente ansiogeno, diventa invece un momento di gratificazione». Un concetto che servirebbe a maggior ragione per l’inverno, ma il silicone colorato sembrava un materiale a vocazione nettamente stagionale. «Abbiamo fatto un po’ di ricerca e provato un po’ di materiali; il primo a soddisfarci per la palette di colori è stato il velluto». Ed è nato Velvet Touch, l’Hip Hop invernale, «caldo» e fatto in Italia: altra innovazione altro successo.

Ma anche se negli ultimi due anni si è parlato soprattutto di questo exploit, il Gruppo Binda non è solo questo; in un secolo di storia sono stati tanti i momenti importanti, sempre caratterizzati da un’innovazione, un passo avanti. «Il primo ha coinciso con l’intuizione del nonno, nei primi del ’900, di portare marchi di orologi svizzeri in Italia» racconta Marcello Binda ripercorrendo gli snodi signicativi della vita dell’azienda, «il secondo è stato il momento in cui si è costituito il marchio Breil negli anni Trenta; poi, nell’84, l’invenzione del marchio Hip Hop».

La tappa successiva è un successo che esce dal mondo dell’orologeria e entra nel costume. «Nel ’93 si attua il riposizionamento di Breil con la campagna pubblicitaria “Toglietemi tutto ma non il mio Breil”. Un claim che continua a essere citato ovunque (anche se nel frattempo è cambiato nel più globale «Don’t touch my Breil»). Ma torniamo alla cronostoria. «Gli ultimi ’90 sono gli anni delle licenze: D&G è la prima, oggi abbiamo anche Moschino Cheap and chic e Kenneth Cole». Nel 2001 Breil fa di nuovo il botto: «Lanciamo i primi gioielli in acciaio e apriamo un mercato che non esisteva». L’ultimo capitolo lo abbiamo ampiamente raccontato, e riguarda Hip Hop.

E i marchi non citati? Anche quelli, grazie a una diversificazione dell’offerta che permette di presidiare fasce anche molto diverse di mercato contribuiscono ogni anno ai buoni risultati del Gruppo. «In anni di crisi come questi c’è un forte ritorno al valore» continua Binda, «quindi a prodotti o marchi con ottimo rapporto qualità-prezzo e una bella storia alle spalle; noi abbiamo Vetta, con un secolo di storia e carattere di “classico inatteso”: elegante ma sempre con un “quid” attuale e in una fascia di prezzo che si presta a farne un oggetto regalo importante per una laurea, un diploma, un compleanno». Altri marchi intercettano esigenze ora più glamour ora più sportive.

Insomma, da questo excursus viene fuori un Gruppo che, anche in anni di crisi come questi, risponde con il dinamismo alle sfide che via via si presentano: dinamismo che ora vuol dire innovazione nel prodotto, ora nella comunicazione, ora nella relazione con il consumatore. Ed è questo che fa dire a Marcello Binda parole di cauto ottimismo anche sul futuro: «L’Italia le risorse le ha; la creatività e le capacità del manager, del commeriante, del consumatore italiano sono uniche al mondo così come l’abilità nel reinventarsi e nel tirarsi fuori dalle situazioni negative. Certo, nella mia doppia veste di imprenditore e consumatore, non vedo nessun appello alla ricostruzione di un pensiero positivo in termini di consumo e di fare impresa. Vorrei più energia nel rivendicare il diritto a sorridere».