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 2012  giugno 04 Lunedì calendario

Lo studio che pubblichiamo – un rigoroso lavoro scientifico di quelli destinati a essere discussi nei convegni, pubblicati sulle riviste di settore, diventare letteratura accademica – dice che le donne sono più brave degli uomini

Lo studio che pubblichiamo – un rigoroso lavoro scientifico di quelli destinati a essere discussi nei convegni, pubblicati sulle riviste di settore, diventare letteratura accademica – dice che le donne sono più brave degli uomini. Una cosa che se una di noi si azzardasse a dire ad alta voce in ufficio o in una discussione pubblica sarebbe immediatamente tacciata di femminismo, categoria declinata da qualche anno come insulto, e guardata dai compagni di lavoro e di vita con sospetto, commiserazione, sufficienza e paura. Di conseguenza messa ai margini coi metodi consueti: dileggio, batuttine, maschilismo di repertorio e di potere. Infatti non si dice. Le donne hanno imparato da molto tempo, direi che lo hanno sempre saputo, che per fare quello che vogliono come vogliono devono dare l’impressione di non nuocere. Dare ai cretini la sensazione di essere spiritosi, non replicare e fargli le scarpe nei fatti. Senza che se ne accorgano. Che le donne siano più brave, negli studi e nei luoghi di lavoro, è una nozione elementare di cui chiunque fa quotidiana esperienza; non tutte le donne, naturalmente, ché non basta essere donna. In quanto persone – difatti – anche le donne possono come gli uomini essere avide, sciocche, interessate, servili. Però quelle brave sono più brave. A scuola, per esempio. Dice la ricerca che “ottengono mediamente risultati migliori”, nel senso che si laureano in maggior numero, con voti più alti e in meno tempo. Parliamo della “fascia alta” della società: il campione esamina diplomate nei licei e laureate nelle scuole e negli atenei di Milano. In tre mesi di meno, in media, le ragazze si laureano più numerose e con voti più alti. Poi vanno a lavorare, e guadagnano il 37 per cento in meno. Non un po’ di meno: un terzo abbondante. Anche a livelli dirigenziali gli amministratori delegati (non tutti, ma molti) si sentono in tranquillo e condiviso diritto di proporre alle donne contratti spacciati come standard che sono in verità di molto al di sotto, come reddito e garanzie, di quelli che propongono agli uomini. La domanda dunque è: perché le donne li accettano? Perché a quel livello – il livello delle competenze alte, delle eccellenze – non funziona il ricatto al ribasso, quello per cui un ricercatore precario è costretto ad accettare 400 euro al mese perché se no c’è fuori una fila lunga così di aspiranti. Quindi: perché le donne non negoziano, non fanno rete, non denunciano? Perché non sono competitive, dice la ricerca che prende a parametri le attività sportive e il volontariato: le donne in esame fanno meno sport agonistico degli uomini e molta più attività sociale non remunerata. Non sono interessate alla gara, fanno per gli altri. Anche in questo c’è un fondo di verità, soprattutto nella seconda parte. Sono competitive, certo che lo sono, ma hanno di più a cuore il bene degli altri. In generale, per l’esperienza che ne ho, considerano il potere un luogo di responsabilità e di fatica e non un privilegio. Sono in questo fastidiosissime, essendo la loro presenza la misura esatta dell’altrui deficienza: sul fronte del bene comune, del progetto condiviso, della passione civile. È molto chiaro, dunque, perché vengono – come si dice in quel linguaggio – disincentivate. Perché fanno ombra, smascherano il sistema autoimmune delle caste. Ed è anche chiaro perché fino ad oggi hanno piegato la testa alle peggiori condizioni: era l’unico modo per starci. Ora però, credo, è venuto il tempo di dire le cose come stanno: è maturo il momento. Per le eccellenze degli atenei di Milano e per i milioni di donne nei call center e nelle catene di montaggio, per le astrofisiche e le hostess ai convegni. Il riscatto, come sempre, arriverà dal rifiuto di sottostare al ricatto. Nessuno regalerà niente, bisogna pretendere. Se il momento è difficile pazienza, anzi meglio. E nei momenti difficili che le cose cambiano per tutti. Non è detto che sia in peggio, la battaglia può chiamare a raccolta forze imprevedibili. La storia insegna. L’ora di alzare la voce è adesso, insieme agli altri: perché il futuro è già qui, è solo molto mal distribuito.