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 2012  giugno 04 Lunedì calendario

ROMA — C’è

un filo robusto — rimasto sottotraccia nelle decine di faldoni dell’inchiesta aperta da 29 anni presso la Procura di Roma — che lega la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori allo scandalo dei preti pedofili a Boston. Una vicenda che nel 2002 sconvolse la Chiesa cattolica, lasciò sgomenti milioni di fedeli americani per i sistematici abusi su minori coperti dai vertici ecclesiastici e portò alle dimissioni dell’arcivescovo Bernard Francis Law, poi tornato a Roma nel 2005 in qualità di arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore.
Mirella, Emanuela. Due ragazzine quindicenni accomunate da un atroce destino: la prima sparì nel piazzale di Porta Pia il 7 maggio 1983, dopo aver detto alla mamma che doveva incontrarsi con gli amici, e la seconda (figlia del messo pontificio di Wojtyla) il successivo 22 giugno, all’uscita della lezione di flauto a Sant’Apollinare. Un duplice mistero che da tre decenni fa perdere il sonno agli investigatori. E che — considerata l’ipotesi di una mai chiarita Vatican connection — solletica fantasie, ambizioni e congetture di stuoli di giallisti, detective, giornalisti, persino veggenti. L’ultimo colpo di scena, il 14 maggio, ha portato all’apertura della tomba del boss Enrico De Pedis, sepolto nella basilica a ridosso della scuola di musica della «ragazza con la fascetta».
Ma ora c’è di più. Un timbro, un fermo posta: entrambi localizzati in Kenmore Station, nel centro di Boston. L’uno agli atti, l’altro no. Il primo risale alle prime rivendicazioni dell’affaire Orlandi-Gregori, il secondo fu usato dall’associazione pedofila Nambla (North American Man Boy Lover Association) ed è emerso 19 anni dopo. Vale la pena spiegarlo, questo indizio principe. Metterlo a fuoco, contestualizzarlo.
Macchina indietro di 29 anni: luglio 1983. Il Papa è da poco rientrato dai bagni di folla nella sua Polonia, le elezioni in Italia hanno appena spianato la strada a Bettino Craxi ma, sul doppio sequestro, è buio totale. Quello di Mirella è «silente» ormai da due mesi e lascia attoniti i genitori, gestori di un bar vicino alla stazione Termini, mentre quello di Emanuela, inaspettatamente, deflagra: è Giovanni Paolo II, con l’appello del 3 luglio all’Angelus («Sono vicino alla famiglia Orlandi, la quale è in afflizione per la figlia...»), a proiettare uno dei tanti casi di missing people in una dimensione planetaria. L’effetto è immediato. Il 5 luglio a casa del «postino» papale arriva la prima telefonata del cosiddetto «Amerikano», italiano incerto e poche battute in inglese, che getta sul piatto una richiesta secca: libereremo «tua figliola», dice, in cambio della scarcerazione di Ali Agca.
Vincenzo Parisi, del Sisde, traccerà il seguente profilo dell’inquietante personaggio: «Straniero, verosimilmente anglosassone, livello culturale elevatissimo, appartenente (o inserito) nel mondo ecclesiale, formalista, ironico, calcolatore...». Trattativa vera o di facciata, quella sull’attentatore di Wojtyla? Un dato è certo: di contatti con la Santa Sede, attraverso il famoso codice «158», il dominus dell’intera vicenda ne ebbe più d’uno.
Il giallo infiamma l’estate. A luglio l’«Amerikano» telefona ancora, lancia ultimatum sulla vita di Emanuela. Ma all’improvviso smette, tace. Agosto viene così «riempito» da un altro soggetto, il Fronte Turkesh, i cui messaggi (scoprirà l’ex giudice Ferdinando Imposimato) altro non sono che depistaggi della Stasi e del Kgb per tenere sotto scacco l’odiato Papa anticomunista e filo-Solidarnosc.
Settembre, mese chiave dell’intrigo. Il 4 l’«Amerikano» riappare e fa trovare una busta dentro un furgone Rai, contenente un messaggio a penna e uno spartito di Emanuela. Ancora: al bar dei Gregori, il 12, giunge una telefonata choc. Un anonimo elenca i vestiti indossati e la marca della biancheria intima di Mirella, che solo la madre conosce. È un complice dell’«Amerikano»? Entrambe le ragazze sono in suo pugno?
Ed eccoci al 27 settembre 1983, all’ulteriore rivendicazione (o messinscena?) che, riletta oggi, fa correre brividi lungo la schiena. Richard Roth, corrispondente da Roma della Cbs, riceve una lettera che preannuncia «un episodio tecnico che rimorde la nostra coscienza». Gli investigatori, scrive l’Ansa il giorno dopo, sono sicuri: si tratta dei «veri rapitori di Emanuela» o di «quelli che l’hanno tenuta prigioniera». Sulla busta c’è il timbro di partenza: Kenmore. Ma a quale episodio «tecnico» si allude? «L’imminente uccisione dell’ostaggio». Non basta: una perizia grafologica accerta che il messaggio del 4 settembre e questo del 27 sono opera della stessa mano. L’«Amerikano» si è spostato sulla East coast? O ha trasmesso i suoi scritti a qualcuno, forse per continuare i depistaggi?
Tale pista all’epoca non fu percorsa ma adesso, alla luce dei nuovi indizi, potrebbe riprendere quota. Gennaio 2002, Boston: scoppia lo scandalo. Il cardinale Law è accusato di aver coperto per molti anni sacerdoti pedofili della diocesi. Maggio 2002, si apre il processo davanti alla Corte di Suffolk: Law nella deposizione risponde a monosillabi, si scusa per aver controllato poco i «collaboratori». 7 giugno 2002: fuori dal tribunale le mamme delle vittime (per lo più maschietti, ma non solo) protestano. E, dentro, l’interrogatorio è incalzante: «È emerso in una precedente deposizione — attacca il rappresentante dell’accusa — che 32 uomini e due ragazzi hanno formato il gruppo Nambla. Per contattarlo si può scrivere presso il Fag Rag, Box 331, Kenmore Station, Boston... Cardinale Law, ha inteso?». Pausa. Nell’aula risuona una frase sibilata, poco più di un soffio.
«I do», risponde l’arcivescovo. Sì, è vero. Il Fag Rag, che sta per «Giornalaccio omosessuale», faceva quindi proseliti per conto del temutissimo sodalizio pedofilo degli States, proprio dalla stazione da cui partì la lettera su Emanuela. Nella sequenza di omissioni e depistaggi che da sempre alimenta il giallo della «ragazza con la fascetta», la pista di Boston, 29 anni dopo, fa balenare il più spaventoso e sconvolgente degli scenari.
Fabrizio Peronaci