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 2012  giugno 02 Sabato calendario

L’incoronazione di Elisabetta II, debbo ammettere, l’ho vista soltanto «dal di fuori» dell’Abbazia di Westminster: a me, come giovane cronista alle sue prime armi, era toccata la radiocronaca, dall’alto del palazzo di fronte, degli arrivi all’Abbazia di re, regine e capi di Stato giunti da ogni parte del mondo, guai a dimenticarne uno, fino all’arrivo dell’auto reale

L’incoronazione di Elisabetta II, debbo ammettere, l’ho vista soltanto «dal di fuori» dell’Abbazia di Westminster: a me, come giovane cronista alle sue prime armi, era toccata la radiocronaca, dall’alto del palazzo di fronte, degli arrivi all’Abbazia di re, regine e capi di Stato giunti da ogni parte del mondo, guai a dimenticarne uno, fino all’arrivo dell’auto reale. Facevo allora, per conto della «Voce di Londra», le mie prime esperienze di telecronista, ed era emozionante sapere che questa volta la radiocronaca sarebbe stata trasmessa in diretta anche in Italia, dalla Rai, oltre che da Radio Londra. La radiocronaca dall’interno spettava, ovviamente, a Ruggero Orlando, che io consideravo un po’, giustamente, come mio maestro. Ma era la seconda volta che a me toccava l’onore, o tale mi parve, di una radiocronaca reale in diretta. La prima era stata, pochi giorni prima, la radiocronaca dei funerali di Giorgio VI, dal castello di Windsor. Di questi, per la verità, ho un ricordo più vivo, e più emozionante: forse perché la morte del re ci aveva toccato tutti più a fondo. L’avevamo visto, pochi giorni prima, in piedi all’aeroporto, smagrito nel volto, senza cappello, esposto al vento freddo, mentre diceva addio all’aereo che portava la principessa ereditaria, e il principe Filippo, in quello che doveva essere il loro primo viaggio in Kenia, in India, e non so più in quali altri Paesi del Commonwealth. Ma a Nairobi li aveva raggiunti la notizia che nella notte il re si era spento a Sandringham House, nel Norfolk. Come poi disse l’annuncio ufficiale: «Il re, che si era ritirato per il riposo a tarda notte in normali condizioni di salute, si è spento in pace nel sonno, di prima mattina. The King passed peacefully away. Il primo ministro, Winston Churchill, lo aveva commemorato alla radio dicendo fra l’altro: «Durante i suoi ultimi mesi, il re camminava con la morte, come se la morte fosse un compagno, che aveva riconosciuto e di cui non aveva paura. Alla fine la morte venne come amica, e dopo una giornata felice di sole e di sport, e dopo che aveva dato la buonanotte a coloro che lo amavano di più, si addormentò, come ogni uomo o donna che abbia imparato a temere Iddio e nessun altro al mondo, può sperare che gli accada». Non so bene perché, i ricordi di quei giorni e di quegli anni sono rimasti densi di incancellabili emozioni. Forse perché quella ci appariva, e in realtà era, un’Inghilterra un po’ speciale. Oggi direi, con qualche esitazione, un’altra Inghilterra: vedevamo ancora, sullo sfondo, l’Inghilterra che da sola, quasi senza speranza ma con estremo coraggio, aveva detto di no a Hitler. Senza quel no, che aveva richiamato col tempo, dal di là dell’Atlantico, la potenza americana (nelle sue Memorie, Winston ricorda che la notte in cui seppe della dichiarazione di guerra americana al Giappone e alla Germania dormì «profondamente e con l’animo finalmente in pace»), il nazismo, a cui si era già piegata la Francia di Pétain, e a cui si era affiancato l’opportunismo del Duce, avrebbe vinto. Avrebbe vinto il Male assoluto. Così sentivamo, e avevamo ragione di sentire. L’Inghilterra, soltanto l’Inghilterra di re Giorgio VI e di Winston Churchill, non si era piegata, e ci aveva salvati tutti. Non a caso, le prime immagini della principessa Elisabetta che si erano impresse nella nostra mente erano quelle di lei, e di sua sorella Margaret, in divisa militare, negli anni della guerra. Anche le prime immagini di Giorgio VI erano quelle del re in divisa, affacciato al balcone centrale di Buckingham Palace. Soltanto dopo la guerra si seppe (all’epoca nemmeno a Churchill venne detto, per volontà del re) che una bomba della Luftwaffe aveva fatto rovinare all’interno di un salone del Palazzo una immensa vetrata: il re e la regina, che non avevano mai lasciato Londra, si erano salvati solo perché si erano ritirati dal balcone da pochissimi minuti in un’altra stanza da quella distrutta (la stessa, detto sia en passant, in cui tanti anni dopo mi doveva toccare di fare la prima colazione durante una visita presidenziale; con un po’ di emozione, e molto tentato, cosa che ovviamente non feci, di aprire la finestra per lanciare uno sguardo dal balcone). Com’erano gli inglesi che salutarono nella seconda Elisabetta la loro regina? A Natale, nel suo ultimo discorso alla nazione, Giorgio VI aveva detto fra l’altro: «A Natale sentiamo che le vecchie, semplici cose, contano più di tutte. Esse non cambiano, per quanto il mondo possa cambiare. E io credo che, fra le molte fortune su cui oggi possiamo contare, siamo un popolo cordiale, a friendly people». E penso sia ancora così. Certamente, era davvero «a friendly people», che amava senza riserve la famiglia reale, quello che aveva dato un festoso benvenuto a Elisabetta regina, dopo aver detto addio con semplicità a Giorgio VI. A Windsor, affacciato a una finestrina di fronte alla facciata della Cappella reale, avevo visto e sentito arrivare, poco tempo prima del giorno dell’incoronazione, il feretro del re, salutato, come viene salutato il sovrano quando sale a bordo di una nave, da un susseguirsi di lunghi fischi stridenti. Ero già abbastanza buon cronista per aver soprattutto taciuto. Concluderò dicendo che la seconda Elisabetta, giovane regina, ci parve molto bella il giorno della sua incoronazione. Penso lo fosse davvero (è mia coetanea e anche oggi, a me sembra, non siamo poi tanto male, per i nostri anni); e anche emozionata. Immagino, ancor più di quanto lo fossi io con la mia radiocronaca, arrampicato al quarto piano del palazzo di fronte.