Paolo Di Stefano, Sette 1/6/2012, 1 giugno 2012
La Kodak ritrovata di Jack London – Il figlio illegittimo di un astrologo ambulante e di una spiritista, lo strillone, l’operaio, il ladro, il galeotto, l’alcolizzato, il cercatore d’oro, il vagabondo e l’accattone, il marinaio, il fuochista, l’avventuriero, il viaggiatore indomito, il ribelle, l’agitatore politico, il socialista e il nietzschiano, il predicatore che si uccise nel 1916 a soli quarant’anni iniettandosi una dose di solfato di morfina e di atropina
La Kodak ritrovata di Jack London – Il figlio illegittimo di un astrologo ambulante e di una spiritista, lo strillone, l’operaio, il ladro, il galeotto, l’alcolizzato, il cercatore d’oro, il vagabondo e l’accattone, il marinaio, il fuochista, l’avventuriero, il viaggiatore indomito, il ribelle, l’agitatore politico, il socialista e il nietzschiano, il predicatore che si uccise nel 1916 a soli quarant’anni iniettandosi una dose di solfato di morfina e di atropina. Lo scrittore di successo, deluso da se stesso. Jack London è stato un sacco di persone esagerate concentrate in una sola. Esagerò in tutto, anche come fotografo: 12 mila scatti in pochi anni, con una Kodak 3A a soffietto, una macchinetta che all’inizio del Novecento permise a molti di accedere all’hobby della fotografia senza portarsi dietro armamentari troppo ingombranti. Dal 1902, quando ancora non aveva pubblicato un solo libro ma era famoso per i racconti apparsi su giornali e riviste, e già maturava nella pancia le pagine e i personaggi del Richiamo della foresta e di Zanna bianca, una fissazione, una coazione a ripetere: ovunque fosse, scattava fotografie. Al punto che manifestò il rimpianto di non avere potuto disporre di quell’aggeggio portatile nei suoi viaggi precedenti: quando quindicenne a Oakland aveva frequentato i bassifondi prima di diventare il principe dei saccheggiatori di ostriche, quando con il soprannome di Frisco Kid rapinava i treni merci, quando si arruolò alla caccia di foche nel mare di Bering e sulle coste del Giappone, quando partì con altri disoccupati per Washington sperando di poter parlare con il presidente, quando visitò le cascate del Niagara e vagabondo a Buffalo venne condannato a trenta giorni di prigionia, quando a Berkeley cominciò a scrivere lettere infuocate ai giornali inneggiando al socialismo e alla rivoluzione, quando con Il Capitale di Marx in tasca si imbarcò sull’Umatilla per raggiungere il Klondike, dove si trovavano enormi giacimenti d’oro, quando a Dowson City incontrò il cane Jack, che sarebbe diventato Buck nel Richiamo della foresta. A fine luglio del 1902 L’American Press Association propone a London di partire per il Sudafrica per un reportage sulla guerra anglo-boera appena finita. Il progetto, però, si arena a Londra e lo scrittore passa agosto e settembre frequentando i bassifondi della città. È lì che scatta le sue prime fotografie. Queste, con le altre, sarebbero state consegnate alla Biblioteca Huntington di San Marino, in California, dalla seconda moglie dello scrittore, Charmian Kittredge. Il materiale viene ora riscoperto grazie a un bellissimo libro intitolato Jack London photographer pubblicato dalla University of Georgia Press per le cure di Jeanne Campbell Reesman e Sara S. Hodson: è la selezione di 200 immagini affidate a Philip Adam, che ha lavorato sui negativi, spesso deteriorati, per restituirne magnifiche stampe in bianco e nero. L’avventura fotografica di London ha inizio, dunque, nella capitale inglese sua omonima. Siamo nel quartiere ghetto dell’East End e lo scrittore ritrae gli stessi personaggi e scenari che descriverà nel diario-reportage Il popolo degli abissi, dove racconta di essersi spacciato per un reietto umano pur di catturare realisticamente situazioni e figure al limite della sopravvivenza: «Oplà! Un battito di ciglia, per così dire, ed ero diventato uno di loro. La mia giacca logora, dai gomiti consunti, era il segno e l’attestazione della mia classe, che era anche la loro classe. Mi rendevo simile a loro (…). L’uomo con i calzoni di velluto e la cravatta lercia non mi chiamava più “signore” o “principale”: ero diventato amico». L’immersione nel «mare vasto e maleodorante» di migliaia di diseredati ridotti alla fame viene ritratta nella sua brutalità e nella sua enorme malinconia: pieno di malinconia è il sorriso infantile della piccola schiava seduta sulla strada lurida, in maniche di camicia, con il grembiule stracciato e un secchio da lavoro davanti. London ricorda la propria fame di un tempo e nel sorriso della ragazzina sembra specchiarsi anche la compassione di quello che dodici anni prima si definiva «un candidato scrittore con la pancia vuota». È un mondo di cui conosce bene anche la violenza, ritratta nelle due donne che litigano testa contro testa, come tori, mentre cercano di afferrarsi le braccia. London ha memoria del suo accattonaggio a Buffalo, delle notti passate a dormire ai piedi dei portoni o sugli scalini delle case per ricchi, come quel poveraccio dalle scarpe sfasciate, avvolto in un cappotto lacero, con la testa appoggiata su uno scalino: deve aver avuto memoria, London, anche degli stivaletti lucidi di un poliziotto qualunque dallo sguardo severo che con una lampada puntata sui suoi occhi chiusi minaccia lo sgombero e magari la galera. Alcol, prostituzione, lavori stremanti, vita da nottambuli, fame, fame, fame. Il popolo degli abissi è quello dei clochard in fila per ricevere un pasto alla mensa dell’Esercito della Salvezza: giovani e vecchi, cappelli, baffi, barbe, fazzoletti al collo, panciotti sgualciti, occhi tenebrosi e perplessi davanti ai controllori. Passano quasi due anni e lo scenario cambia. Il 7 gennaio 1904, London parte per la Corea a seguire la guerra russo-giapponese per conto di una prestigiosa catena di giornali, Hearst. Verrà arrestato e espulso in giugno, ma intanto il suo obiettivo ha immortalato le ragazze sulle navi di Antung Harbor, in Manchuria, e gli alberi delle vele che si stagliano alle loro spalle; il fermento dei porti, anche qui un’umanità che fatica tra grovigli di corde e funi sui barconi, fardelli sulle spalle, vecchi fabbricanti di pipe, portatori di legname dai volti corrugati, donne dai seni scoperti che reggono sulla testa pesanti pentoloni di legno e otri di terracotta. E qua e là l’artiglieria giapponese, le ambulanze che sono carretti trascinati da muli, i soldati impellicciati che mangiano riso dalle loro scodelle, seduti sulla terra a perdita d’occhio. E la bambina dalle spalle nude, una specie di piccola madonna dagli occhi a mandorla, che la guerra ha lasciato senza casa e forse senza niente: sguardo interrogativo nel viso paffuto, una mosca posata sul braccio sinistro, mentre la mano destra regge un bastone, forse ultimo ricordo di ciò che fu una casa. Bisogna apprezzare i particolari, per esempio le pieghe a sbuffo dei pantaloni, le ombre sul fondo, il chiarore del naso, le labbra che disegnano una M perfetta. Il 1905 è ancora un anno difficile: London subisce gli attacchi della stampa per le conferenze a favore della rivoluzione russa. Pubblica racconti, romanzi e saggi di polemica sociale. Ciò non gli impedisce di sposarsi per la seconda volta e di acquistare un ranch nella Valle della Luna, in California, con il progetto di diventare agricoltore. Ma cambia idea. L’anno dopo comincia l’ossessione dello Snark, lo yacht con cui lo scrittore vorrebbe fare un giro del mondo della durata di sette anni. Intanto, la mattina del 18 aprile la baia di San Francisco viene sconvolta da un terremoto violentissimo, magnitudo 8,5 della scala Richter, cui si aggiunge un incendio devastante. London e sua moglie sono svegliati dal boato. Il reportage uscirà sulla rivista Collier’s. Ma lo scrittore non dimentica la sua macchina fotografica: le rovine del municipio sembrano sopravvissute a un bombardamento, scheletri di cupole e mozziconi di colonne neoclassiche, rotaie divelte, pareti in frantumi, caseggiati pendenti sulla Eighteenth Street, cumuli di macerie ovunque, cieli grigi, sagome nere di alberi, edifici come gusci vuoti, brandelli di cartelloni pubblicitari, carretti che avanzano con sopra uomini disperati, strade polverose, la facciata della santa Rosa Courthouse annientata, le prime capanne di soccorso sulle colline. Ma l’avventura non si ferma mai, anche se lo scrittore è divorato dai debiti, che si sono moltiplicati in seguito al terremoto: da 7mila a 30mila dollari. Nell’aprile 1907 l’elegante barca bianca a due vele, lo Snark, è pronta per partire. Destinazione Hawaii. Nelle immagini che lo ritraggono con Charmian in quei giorni sembra felice, sorride lei e sorride pure lui. In viaggio comincerà a scrivere Martin Eden, il capolavoro autobiografico: forse Jack sente che si avvicina il tempo dei bilanci. Tra il 19 maggio e il 7 ottobre è il soggiorno alle Hawaii, poi Tahiti, le isole Samoa e Salomone: un fonografo americano in mezzo a quattro meticci danzatori di hula con le teste incoronate da foglie e fiori. È un trionfo di corpi seminudi, di palme, di capanne edificate con canne e foglie di tabacco, di archi e frecce, di spiagge bianche, di nasi perforati da piercing enormi, ma anche di bambini con le pance gonfie, di facce butterate dalla lebbra. Ora le fotografie vanno scemando. Circondata da indigeni nudi, Charmian, nel suo vestito leggero, si volta a guardare l’obiettivo di Jack con un sorriso allegro che esplode da sotto il cappello bianco a larghe falde. Verranno altre immagini da Capo Horn e dalla rivoluzione messicana dal 1914. Ma l’ultima vera fotografia potrebbe essere quella dell’angelo bianco che sorride al suo amore inquieto come per dirgli addio. Paolo Di Stefano © riproduzione riservata