Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 01 Venerdì calendario

Abbiamo rimosso la crisi alla portoghese – A Cascais, le crisi fingono di non vederle. Persino quelle più nere

Abbiamo rimosso la crisi alla portoghese – A Cascais, le crisi fingono di non vederle. Persino quelle più nere. È così anche questa volta: le jacarande blu sono fiorite, le case di villeggiatura riaprono dopo un inverno più freddo del solito, gli alberghi, compresa Villa Italia, si tirano a lucido. L’aristocrazia e i grandi borghesi arriveranno pure quest’anno e, nonostante il Portogallo vacilli, si racconteranno e cercheranno di convincere il mondo che in fondo i problemi non sono così gravi. Comunque non esageriamo con le preoccupazioni, ché a Cascais ci si torna ogni volta volentieri proprio per sentirsi lontani dai guai dei comuni cittadini. «Stavolta però si sbagliano», mugugna Pedro Mendez, un piccolo imprenditore dei trasporti. «Non c’è più Salazar a proteggerli come fece quando, intorno, l’Europa bruciava. Ora l’Europa ce l’abbiamo in casa». Già, Salazar. Il Portogallo è candidato a essere la prossima Grecia e a dimostrare che Atene non è un caso unico e isolato della crisi europea. Ma su questo tratto fiorito di costa atlantica, tra Estoril e Cascais, a 25 chilometri da Lisbona, lo spirito del vecchio dittatore ha lasciato tracce – se non nei cuori nel modo di vedere le cose – che illudono ancora di un Portogallo isolato, protetto, autosufficiente. E certe volte sembra che questa idea di se stessi contagi l’intero Paese. Quando “l’Europa bruciava”, durante la Seconda guerra mondiale, Salazar aveva tenuto il Paese formalmente neutrale. Uno dei pochi luoghi dove la nobiltà, i ricchi, i potenti potevano rilassarsi e fingere che la tragedia non esistesse. A Lisbona e nelle sue località di villeggiatura, la concentrazione di spie naziste e alleate era forse la più alta del continente, la vera Casablanca per rendere la quinta a un film. Nelle ville si davano feste, ci si annoiava sulla spiaggia, si amoreggiava nei giardini mentre intorno si srotolava la tragedia. Il Duca e la Duchessa di Windsor erano presenza fissa, Peggy Guggenheim aveva casa, come Max Ernst e Marc Chagall, i baroni de Rothschild, l’Infante Juan, Conte di Barcellona. Più tardi arrivarono i reali, Umberto II nella Villa Italia, Carol II di Romania, ma negli anni della guerra Cascais e l’Estoril erano i luoghi della negazione della guerra, degli occhi chiusi. Lo storico scozzese Neill Lochery – che ha da poco pubblicato un libro sulla vita a Lisbona in quegli anni – dice che quel periodo di eccentricità e di infingimento ha lasciato a Cascais una scia che arriva fino a oggi. «C’è una tendenza a negare il peggio della realtà», sostiene, «attraverso il socializzare esclusivo tra le classi privilegiate». Un approccio contagioso per tutto il Paese. Non che oggi l’intero Portogallo neghi lo stato drammatico delle sue finanze e della sua economia, che l’hanno costretto a chiedere 78 miliardi di aiuti ai partner europei e al Fondo monetario internazionale (Fmi) lo scorso giugno. E che gli impone di sottoporsi al controllo periodico della troika – formata da Unione europea, Fmi e Banca centrale europea – la quale verifica che Lisbona rispetti gli impegni ad abbattere il deficit pubblico e riformare l’economia. E anche le proteste non mancano, la gente soffre maledettamente disoccupazione, tasse alte e prezzi in crescita. È che non ci sono esplosioni sociali e drammi. Al punto che questa è stata chiamata una “crisi silenziosa”. Sembra quasi che i portoghesi fatichino a rendersi conto di essere usciti dalla dittatura autarchica che li ha isolati dal mondo per oltre 40 anni e di essere ora esposti – loro, grandi navigatori – ai venti del mare aperto. Le prospettive europee. L’ingresso nella Ue nel 1986 – assieme alla Spagna, quando la Rivoluzione dei Garofani del 1974 aveva ormai consolidato la democrazia – è stata vissuta in questi 25 anni come un regalo. Non una cosa costruita a fatica ma una semplice porta aperta dai partner, quasi dovuta e portatrice di benefici gratuiti: accesso libero a grandi mercati; denari da Bruxelles per costruire strade, scuole, centri culturali, musei e opere spesso inutilizzate; un posto sulla ribalta internazionale dopo anni mimetizzati nell’ombra, tra le ingiustizie di casa e le tirannie nelle colonie africane. All’improvviso, il Portogallo si è trovato omaggiato dell’appartenenza alla Ue. «Con Salazar i poveri non potevano vivere», racconta Mendez, l’imprenditore dei trasporti che a nove anni emigrò a Vancouver con i genitori per ragioni politiche ed economiche. «I loro figli non avevano speranza di cambiare condizione. Con la fine della dittatura e l’ingresso nella Ue tutto è stato diverso. E forse ci siamo illusi che il mondo sarebbe sempre stato rosa». Assistere alla crisi di una costruzione alla quale non si è in fondo partecipato, forse rende ancora più impotenti, senza il diritto di protestare per un regalo che non è più così splendente. Crisi silenziosa. Gli stipendi da fame. I portoghesi scoprono dunque che si può tornare poveri. L’economista Eugénio Rosa ha calcolato nei giorni scorsi che due terzi dei cittadini guadagnano meno di 900 euro al mese, e il 35,5% meno di 600. Ed entro la fine dell’anno – prevede la Commissione Ue – i redditi nominali caleranno di un altro 3,1%. Nel quadro delle misure di risanamento del bilancio, ai dipendenti pubblici sono state tolte tredicesima e quattordicesima. L’Iva su tutta una serie di generi, anche alimentari, è salita al 23%. Sono state introdotte nuove tasse. Andare dal medico costa ora 15 euro, una seduta di dialisi 40: dal momento che (stima del governo) un terzo degli ospedali è insolvente. Il risultato è che, in febbraio e in marzo, il numero dei morti è cresciuto del 20% rispetto a un anno prima. La disoccupazione reale ha toccato il milione e duecentomila persone (in un Paese di 10,6 milioni di abitanti) ed è intorno al 15% della forza lavoro. La metà è disoccupazione di lungo periodo. E il 42% dei giovani tra 15 e 24 anni che hanno lasciato la scuola è senza lavoro. Parecchie imprese hanno chiuso, altre lo faranno. Molti negozi, a Lisbona come a Oporto, una brutta mattina non riaprono. Il film silenzioso della crisi portoghese è una pellicola al rallentatore che racconta lo svanire progressivo di un sogno. Perché le cose, certamente, peggioreranno nei prossimi anni. Nel 2012 il Prodotto interno lordo crollerà ancora, come minimo del 2%. E gli obiettivi imposti dalla troika non saranno raggiunti. Già nel 2011, il governo ha dovuto aguzzare la fantasia contabile per centrare l’obiettivo concordato di un rapporto tra deficit e Pil inferiore al 6%: visto che non ci sarebbe riuscito, ha trasferito denaro dal fondo pensioni dei bancari al bilancio dello Stato. Senza questa manovra illusionista, il rapporto deficit/Pil sarebbe stato del 7,8% e non del 5,9 ufficiale. Il guaio è che ora si parte da posizioni impossibili per arrivare all’obiettivo 2012 di un deficit pari al 4,5% del Pil. La società di ricerca indipendente Oxford Economics prevede (senza eccessi di pessimismo) che il rapporto sarà 5,4% quest’anno, 4,9 il prossimo e ancora 3,5 nel 2014. Su queste basi, il Portogallo non riuscirà a tornare a raccogliere denaro sui mercati nell’autunno del 2013, come previsto dal piano della troika (i tassi che paga sono ancora superiori all’11%): avrà bisogno di un altro pacchetto di aiuti, e quindi dovrà dare in cambio nuovi sacrifici, a scapito ulteriore della crescita. Gli analisti danno per probabile che a un certo punto Lisbona debba ristrutturare il debito come ha fatto la Grecia, cioè infliggere perdite ai creditori che le hanno prestato denaro. Ammesso che all’autunno 2013 il Paese arrivi ancora integro: se ad Atene la situazione dovesse finire fuori controllo, il Portogallo sarebbe il primo Paese a subire il contagio, a vedere impennarsi la fuga dei capitali e probabilmente a dovere seguire le orme elleniche. E a dimostrare, ahinoi, che la Grecia non è un caso unico, isolato e contenibile nel Mare Egeo. Fuga in campagna. Qualche mese fa, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, è stato sorpreso da un microfono mentre garantiva al suo omologo portoghese, Vitor Gaspar, che Berlino avrebbe salvato Lisbona (garanzia mai data ad Atene). Visto come sono evolute le cose nel frattempo in Europa – dove da salvare c’è il concetto stesso di Unione europea, altro che Portogallo – quell’assicurazione oggi vale ben poco: i portoghesi sono il secondo birillo ed è sempre più alto il rischio che nessuno possa fare niente quando arriverà la boccia. Più che disperarsi, molti portoghesi tornano all’antico, alla terra. Il governo sta incentivando (63 milioni nel 2012) il trasferimento in campagna di migliaia di giovani. Frederico Lucas, un consulente, ha lasciato Lisbona per Trás-os-Montes, la regione più povera e remota del Paese, e vuole ripopolarla: dall’inizio del 2011, più di mille famiglie hanno chiesto il suo aiuto; 32 si sono già insediate e altre 30 ci andranno quest’anno. E in Quinta da Granja, Lisbona, vicino allo stadio del Benfica, Luz, gli anziani hanno ripreso a coltivare gli orti, per non dovere comprare la verdura sempre più tassata. Piccoli episodi di una “crisi silenziosa”: lo Spirito di Cascais declinato alla voce “impoveriti”. Danilo Taino