Guido Gerosa, L’Europeo n.1, 1975, 1 giugno 2012
L’ultimo dei Savoia – DOMENICA 14 LUGLIO 1935 l’idrovolante pilotato dall’asso Arturo Ferrarin, partito alle 17 da Forte dei Marmi, ammara alle 18
L’ultimo dei Savoia – DOMENICA 14 LUGLIO 1935 l’idrovolante pilotato dall’asso Arturo Ferrarin, partito alle 17 da Forte dei Marmi, ammara alle 18.30 vicino all’idroscalo di Genova. Un momento dopo telefonate angosciose s’incrociano con Torino. L’aereo «ha trovato qualcosa sulla rotta, boa o relitto, ed è cappottato. Agnelli ha battuto la testa...». «Morto?». «Morto». Edoardo Agnelli, che era al fianco di Ferrarin, è il figlio di Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat. «Il senatore», telefonano nella notte da Genova, «è entrato nella camera mortuaria e ci si è chiuso dentro, solo...». Edoardo ha lasciato sette figli, il primo dei quali si chiama Giovanni come il nonno (Gianni, per distinguerlo) e ha 14 anni. La madre è una principessa, Virginia Bourbon del Monte, figlia di un patrizio italiano e di un’americana: morirà anche lei in un incidente. Giovanni viene allevato, in un clima un po’ irreale, nella città-Stato di Torino, dove la monarchia inaugurata da suo nonno ha sostituito quella dei Savoia. Il palazzo di famiglia riflette un mondo ottocentesco: i ragazzi si muovono in una nuvola rosea di governanti britanniche che al principe ereditario lasceranno in dote il più bell’inglese parlato in Italia, altre tre lingue e un ventaglio cospicuo di belle maniere. In casa Agnelli, date le rigorose tradizioni piemontesi, non è neppure ammesso essere asini, secondo il costume diffuso in molte case di miliardari. Per cui Gianni nel 1943 conquista una laurea all’università di Torino, che gli darà diritto a fregiarsi del nome di battaglia l’Avvocato. Ha già alle spalle un tirocinio di alcuni mesi passati, quando aveva 18 anni, a Detroit: equivalenti, per il delfino di una grande dinastia dell’auto, a quello che nel Settecento era il Grand Tour d’Europa compiuto dai giovani aristocratici. Se non si tratta di leggenda (ma non abbiamo motivo per crederlo), Gianni dimostra, ventenne, di essere un uomo di carattere. Nel 1941, in piena guerra, al momento in cui dovrebbe andare soldato, viene esortato dal nonno a mettersi al sicuro in qualche direzione Fiat. Lui sceglie il fronte. Un servizio dell’epoca del settimanale Tempo lo ritrae tenente in Russia, nella zona dove la Fiat aveva cercato di impiantare un gigantesco parco automezzi per sopperire in qualche modo alle tragiche deficienze dell’armata. PIÙ TARDI, IN TUNISIA, Agnelli è comandante di autoblindo. Pare che si sia comportato bene, perché se ne torna con una croce al merito. Dopo l’8 settembre riprende a combattere, nell’esercito di Pietro Badoglio, con il gruppo Legnano. Il suo inglese e la nobiltà del rango lo mettono fin da subito a diretto contatto con gli americani, quelli della quinta armata di Mark Clark, il generale cowboy. Con loro risale l’Italia, dimostrandosi anche stavolta uomo di coraggio. Dopo la guerra la Fiat torna, nonostante le furiose polemiche, agli Agnelli. È governata ancora dal nonno, che morirà presto, e dal grande manager che ne reggerà le sorti per un ventennio: Vittorio Valletta. Non c’è neppure da pensare, in questo stadio, che il giovane Gianni sia associato alle sorti dell’azienda. Alla Fiat, come in casa Savoia, si regna uno alla volta. E Valletta, sia pure vassallo, è come un re. Solo nominalmente il figlio di Edoardo è investito della carica di vicepresidente, ma Valletta e gli ingegneri senescenti lo tengono ben lontano dalle leve del potere, anche perché nel 1949, in una delle sue rare sortite, ha firmato quasi senza accorgersene un oneroso contratto per una pensione aziendale ai dipendenti che ha strappato lacrime di cordoglio ai vecchi elefanti di corso Marconi. Per cui l’amabile suggerimento della classe dirigente Fiat è che il delfino si tenga alla più grande distanza possibile dalla fabbrica e limiti la sua partecipazione a qualche discorso da cerimonie aziendali, scrittogli in forbito italiano dal solerte capo ufficio stampa Gino Pestelli. D’altronde lo stesso supernonno ha dato all’erede la consegna più precisa: «Goditela per un po’ di anni in modo da essertene cavata la voglia quando verrà il tempo di lavorare». Cominciano dunque gli anni folli di Gianni Agnelli, il suo "di qua dal paradiso" personale. I biografi non riescono a mettersi d’accordo se allora egli potesse contare su un reddito personale di 600 milioni all’anno o su una consistentissima fetta dell’intero reddito familiare di 15 miliardi. Erano comunque più che sufficienti a mantenere una corte imbandita in permanenza in una splendida villa di Beaulieu sulla Costa Azzurra (28 stanze), che diventa il quartier generale di una tribù di gaudenti comprendente Errol Flynn e Ali Khan, Ranieri di Monaco e Porfirio Rubirosa. Bisogna avvertire però, su questo punto, che le leggende sulla giovinezza dorata di Giovanni Agnelli sono sostanzialmente superficiali. E probabile ch’egli amasse le grandi nottate a Roma, Parigi, Londra, Buenos Aires, St. Moritz, Costa Azzurra, che orinasse sulla roulette per manifestare il suo senso fitzgeraldiano della vita, che facesse innamorare attrici e principesse. Ma il significato di quegli anni è assai più profondo. In realtà Gianni Agnelli poté fruire di vent’anni di alta "educazione sentimentale", nello stesso senso in cui venivano allevati i principi dei secoli passati: vent’anni in cui gli fu possibile di girare il mondo e far conoscenza di tutta la gente che contava veramente, politici, intellettuali, industriali, banchieri. Forse nessun europeo del suo tempo ha fruito di un apprendistato più intenso o più fruttuoso. E poiché la vera passione e la vera abilità di Gianni Agnelli in tutti i tempi è stata la finanza, poté studiare sul posto le grandi centrali finanziarie del capitalismo internazionale e avvicinare i personaggi dominanti di quel mondo. Per cui in realtà il giovane ereditiere, di cui i timoratissimi rotocalchi dell’epoca delinavano il ritratto agiografico e i pettegolezzi decantavano la disinvoltura con cui mandava un aereo privato a prendere l’attrice di moda per farla arrivare fino alla sua alcova, ebbe una formazione da eroe di Plutarco (storico greco vissuto tra 46 e 127 d.C. circa, ndr). Proprio perché avevano la coda di paglia, i giornali del tempo rispettosissimi della Fiat non ebbero il coraggio di dire ciò che era vero: che nessun italiano si preparava alla sua missione così puntigliosamente come questo giovane viveur. Così Agnelli andava perfezionando la sua vocazione di capo d’industria, capo e non capitano, aveva corretto sdegnosamente un intervistatore, perché capitano ha qualcosa di volgare. Se una cosa era presente fin da allora in Agnelli dello stile del futuro "principe", era il gusto del gran signore e l’impazienza di fronte alla goffaggine. Agnelli però a questo punto sembrava un principe senza storia. Tanto che nel 1959 l’Unità gli dedicò un articolo ricordando un episodio della sua infanzia. Il gran nonno lo faceva saltare sulle ginocchia e gli diceva: «Furbaciòn del diaol (furbacchione del diavolo), un giorno tu li metterai tutti nel sacco». Commentava altezzosamente l’Unità: «Il giovane erede a 38 anni ha fatto così poco che se il creatore dell’industria automobilistica italiana fosse qui a vederlo si sentirebbe amaramente deluso». Invece il vecchio Agnelli aveva visto benissimo, ma sia i comunisti sia i pachidermi della Torino dirigenziale non riconoscevano i segni della vocazione. La Torino di Valletta, d’altronde, era di una profonda depressione culturale. UNA DOMENICA che la Juventus perse in casa con il Milan per 7 a 1, Gianni Agnelli telefonò a Torino da New York alle tre di notte per sentire come quella catastrofe era potuta accadere. Ma quando la telefonata fu raccontata sui giornali, la Fiat si affrettò a smentire, perché non sembrava bello far sapere che questo ereditiere da 15 miliardi all’anno era così prodigo da scialacquare 5mila lire per telefonare a casa da New York. Bisogna ammettere oggi che all’inizio degli anni Sessanta l’unico in Italia che capisse chi fosse Gianni Agnelli era Gian ni Agnelli. C’è un tratto rivelatore in proposito, proprio in un’intervista de L’Europeo, del 1964. Domanda: «In che cosa sono diversi i giovani industriali dalla vecchia generazione?». Agnelli risponde, in sostanza: «Io non mi sento un giovane, perché ho 40 anni e già da 20 ho fatto la guerra. Comunque, se mi si chiede che cosa devo fare, dico che io e gli altri come me dobbiamo dare alla classe imprenditoriale italiana un tocco da New Deal rooseveltiano, perché l’Italia non ha mai avuto il New Deal». L’intervistatore gli ribatte: «Ma il centro-sinistra appena inaugurato non è forse il nostro New Deal?». Al che Agnelli lo gela, perché risponde, immaginiamo, con un sorriso che rivela il suo glaciale disprezzo: «Già, e dov’è il Roosvelt?». Non si va tanto spesso a Detroit, non si ha un’educazione anglosassone, non ci si circonda di tante teste d’uovo come Agnelli, non si torna così volentieri a New York, senza finire con l’approdare a un ragionamento molto americano. Agnelli non nutrì mai grandi simpatie per i politici democristiani, che odoravano troppo d’intrigo e di sacrestia e la cui rozzezza persino nell’abbigliamento e nei modi doveva fare impazzire uno come lui. Alla Juventus la prima cosa che si insegna ai calciatori nuovi, grandi e piccoli, è come si tengono le posate a tavola; e Agnelli, nei suoi periodici viaggi a Roma per incontrare i politici, un tipo di pellegrinaggio che ancora oggi deve ricordare con noia, dovette probabilmente constatare che lo stile mondano della classe politica italiana è spesso inferiore a quello dei calciatori della Juventus. La sua epigrafe a questa classe politica la scrisse nelle parole che rivolse a un amico che voleva darsi alla politica: «Diventerai sottosegretario: ma immagino che dovrai stringere molte mani sudate». In fondo era giusto che Agnelli pensasse così: perché in lui era l’Italia dei Borboni e dei Savoia che si ribellava alla depressione culturale di una classe politica uscita dalla frantumazione dei vecchi principati. D’altronde, che il mondo che contava, tranne quello italiano, realizzasse chi era Agnelli, lo dimostra un aneddoto di Nikita Kruscev. Kruscev più che uno statista era un veggente contadino, un mugik profeta come a volte ne affiorano nelle pagine di Fédor Dostoevskij. A Mosca vide Agnelli in una delegazione italiana, accanto ad alcuni politici. Voltò le spalle ostentatamente ai politici e quasi abbracciò Agnelli, dicendogli: «È con lei che voglio parlare, perché lei sarà sempre al potere, mentre quelli là cambiano continuamente». Henry Kissinger, dieci anni dopo, in occasione della sua visita a Roma, dedicò ad Agnelli un’ora e mezzo delle nove che passò con i massimi personaggi italiani. L’era Valletta non potrà comunque essere sottovalutata dagli storici futuri. E un capitolo di storia industriale e politica formidabile: la restaurazione del capitalismo in Italia; la motorizzazione del Paese; la sconvolgente emigrazione di massa, che qualcuno considera l’unica rivoluzione italiana di tutti i tempi; il tumultuoso trasformarsi della società, da chiuso mondo agricolo a palcoscenico di uno dei dieci Paesi più industrializzati; il confuso emergere di un popolo italiano, unificato dalla televisione, dall’automobile, dal nomadismo di massa, dal weekend, dal vorticoso mutare del costume. A QUESTA METAMORFOSI di una società fa riscontro una classe dirigente, politica e industriale, immobile, rap- presentata appunto dal mondo imprenditoriale chiuso dei Valletta, dei Valerio (Giorgio Valerio, al vertice di Edison dal 1936 al 1969, ndr), dei Faina (Carlo Faina, amministratore delegato e poi presidente della Montecatini, ndr): una casta segregata e segregante come quella dell’America repubblicana degli anni Venti, immersa nel culto degli "affari che sono gli affari", ancorata al vecchio protezionismo, aiutata a plasmare "il miracolo" e "il boom" dall’avvilimento del sindacato e dalla presenza di una struttura aziendale ancora su basi familiari e di una classe operaia mortificata, alla giapponese. L’esplosione di questo mondo si suole far coincidere con l’autunno caldo del 1969: invece essa avviene il 30 aprile 1966, quando Gianni Agnelli succede all’ottantaduenne Valletta. Agnelli non si era affatto nascosto, anzi aveva manifestato la propria salutare arroganza del potere facendo sapere a tutta Torino il modo in cui si era verificata la successione. Il "prufessùr" infatti aveva pensato di lasciare il suo potere a un tecnocrate, ma Agnelli glielo impedì: «Decisi che ero l’uomo migliore per la Fiat e la presi». I manager Fiat non hanno mai scritto libri: perciò è probabile che nessuno di essi racconterà l’impatto dei primi mille giorni di Gianni Agnelli. Il capo si manifestava in quei mesi a Torino in modo tale da lasciare attonite le vecchie leve. Agnelli cacciava da corso Marconi i dinosauri del potere: stabiliva che i dirigenti dovessero andare in pensione a 65 anni, i mèmbri del consiglio d’amministrazione a 70. Ridimensionava gli uomini, tronca va le carriere, decentrava le decisioni, divideva il potere. Disse un americano: «Da noi è normale che il management di un’azienda si cambi dalla sera alla mattina, con una buona dose di spargimento di sangue. Ma Agnelli ha lavorato meglio di quanto avviene da noi». In realtà nell’industria italiana stava succedendo qualcosa d’importante. Con i Valletta, con i Valerio, con i Faina ci si era mossi per decenni nel campo dei feudatari, dei manager, dei baroni che amministravano le terre del signore. Ma con Agnelli, improvvisamente, si tornava al "principe": alla figura del grande capo. E il curioso è che Agnelli probabilmente tro vò un modello in un uomo che per nascita, formazione, gusti gli era le mille miglia lontano: Enrico Mattei. Mattei era stato davvero il primo tipo di "principe" della nuova Italia: e non a caso era morto probabilmente assassi nato. Aveva edificato la sua potenza creando uno Stato nel lo Stato, e alla fine piegando ai suoi voleri lo Stato italiano. Il suo maggior vanto era: «Per fare l’Eni ho infranto Smila leggi». Il curioso è che Gianni Agnelli, questo erede di una vecchia fortuna, questo uomo non improvvisato e non fat tosi da sé, sarà per l’Italia degli anni Settanta ciò che Mattei fu per quella degli anni Cinquanta. Nei primi anni del suo comando, Agnelli riprende il rapporto con l’Unione Sovie tica, inaugurato da Valletta, e lo perfeziona nella creazione di Togliattigrad. Lancia la Fiat alla conquista dei mercati dell’Europa orientale. E un crudo realista: «Faccio affari con Franco (Francisco Franco, dittatore spagnolo di destra dal 1939 al 1975, ndr) e con Tito (Josip Broz, dittatore di sini stra jugoslavo dal 1945 al 1980, ndr)». Sfoggia una terribile ira fredda quando il governo vara l’AlfaSud senza avvisarlo. Tratta l’affare Citroen superando l’opposizione del presidente francese Charles de Gaulle. Ha una visione scientifica del futuro dell’auto: «Fra vent’anni saremo solo sei o sette mar che in tutto il mondo». Imprime alla Fiat una spinta tale che già nel 1967 essa si sostituisce alla Volkswagen come primo impero motoristico d’Europa. Ma questo lavoro lo può fare solo in quanto è l’uomo che si trova a casa sua a Washington come a un pranzo da Rothschild. I dirigenti della Fiat sono sbalorditi dalla sua veemenza. Erano abituati a vederlo come Richetto, il frivolo principe Enrico che condivide le gaie ve glie del Falstaff di William Shakespeare, e ora lo scorgono trasformato nell’altero Enrico V. I giornali italiani, che in quegli anni sono le belle addor mentate e vivono con il complesso della Fiat, si limitano a raccontare che "l’awocato" ha il radiotelefono in macchina. «E il primo industriale d’Europa», spiega invece Newsweek. A Newsweek c’è Arnaud de Borchgrave, giornalista-princi pe, aristocratico a sua volta, amico di capi di Stato e natural mente di Agnelli. «Ha la maschera del condottiero», scrive Paris Match. E a Match c’è Gilbert Graziani, amico di Johri Kennedy, di Aristotele Onassis e naturalmente di Agnelli. In Agnelli c’è la ricchezza: dicono 400 miliardi di lire di beni di famiglia. C’è il potere: è 1 unico italiano dei tempi moder ni a regnare su una città. C’è la bellezza: «Ha il volto di un Giulio Cesare», sostiene il settimanale statunitense Life. E a Life si può credere perché non appartiene agli Agnelli. Se noi italiani fossimo meno provinciali ci accorgeremmo delle cose con qualche anno di anticipo. Agnelli alla fine degli anni Ses santa ha girato il mondo ed è diventato l’uomo prediletto di quel supercapitalismo internazionale, di quell’establishment planetario che ha i suoi pilastri in Wall Street, nella Banca d’Inghilterra, nei bonzi che scrivono sul quotidiano francese Le Monde, in Truman Capote e nel jet set. Un’alleanza di mandarini del dollaro e del sangue blu. Essendo un finanziere, Agnelli si fa rispettare all’estero dai signori della moneta; mentre le antiche amicizie degli anni di Falstaff gli spalancano le porte. Per cui un acuto giornalista inglese, Anthony Sampson (dal 1955 al 1966 al Thè Observer; è morto nel 2004, ndr), ha scritto: «II si gnor Agnelli ha una mitologia non dissimile da quella dei Kennedy». Nel gennaio 1969 il settimanale Time gli ha de dicato una delle sue copertine, in cui il suo volto appare scolpito sotto il titolo: «Italia: gli industriali come eroi». Se avessimo fatto un po’ meno liceo classico e un po’ più di studio delle tecniche di comunicazione di massa noi italia ni sapremmo cosa significano offensive del genere: in que gli anni, invece, siamo convinti che ciò che conta siano le faide democristiane, il duello Inter-Milan e Canzonissima. Annotate la data: 17 gennaio 1969. | TIME INIZIA COSÌ Farticolo su Agnelli: «Nella terra di Michelangelo, Garibaldi e dei Medi ci regna una vasta e inconsueta varietà di eroi contemporanei». Sono gli anni in cui l’Italia appare ancora la terra del miracolo. La magia della moda italiana, la fantasia dei Fellini, de gli Antonioni, dei Visconti, la linea elegante delle vetture italiane. Le notizie mirabolanti sulla produzione di una nazione in cui la crescita è seconda solo a quella del Giappone, affascinano il mondo occidentale. Ma di fronte a questi prodigi, c’è una classe politica rissosa, fatiscente, incolta, ottomana. Il centro-sinistra incoraggiato da John F. Kennedy si è rivelato l’ennesimo calderone tra sformistico. E gli stranieri, disgustati, fin da allora puntano su Agnelli. Però stavolta il torto è anche loro. Ignorano che Agnelli e gli aristocratici del suo stampo, i Pirelli, i banchie ri alla Mattioli (Raffaele Mattìoli, amministratore delegato della Comit, ndr/ stanno per subire il grande attacco della borghesia nuova, dei baroni dell’industria di Stato, della classe politica mediorientale, delle mille mafie della società italiana, sottovalutate dagli anglosassoni e tuttavia potentis sime. Agnelli è troppo superbo per potersi confrontare con queste forze. Ha detto al giornalista di Time: «Noi compe riamo con Detroit, ma Roma non può competere con Wa shington». È questo il capitolo più drammatico della storia di Agnelli: quello in cui ha veramente rischiato di perdere. Perché la grande burocrazia di Stato, che ha rovesciato persi nò il fascismo, ora lo attacca e minaccia di distruggerlo. La classe politica, soprattutto quella cattolica, che per tan ti anni ha subito l’ascendente di Torino, alla fine contrasta con durezza questo erede dei Savoia. Il momento più terribi le per Agnelli arriva negli ultimi mesi del 1973. Il blocco dei prezzi imposto dal nuovo centro-sinistra ha colto di sorpresa Torino; la crisi petrolifera ha colpito e messo in ginocchio l’auto. L’impero di Agnelli è in gravissime difficoltà. Ma la spiegazione ancora una volta non è interna, è internazionale. Agnelli per tutta la vita si è basato, come appoggio mondiale, sulla potenza del supercapitalismo internazionale: le banche dell’Est degli Stati Uniti, Rockefeller, Rothschild, l’aristocra zia mondiale del danaro-bene, la gente che prima di maneg giare i miliardi si lava le mani. Le ultime presidenze degli Stati Uniti sono state invece occupate da uomini di stampo diverso. Lyndon Johnson, grande agrario del Texas. Ri chard Nixon, avvocato di New York, ma legato ai miliardari della Florida e della California, di dubbie origini. Soprattutto sotto Nixon e Henry Kissinger (che pure è amico di Agnelli), i puntelli del potere sono stati diversi: la Cia, i servizi segreti, i militari, i miliardari di nuovo conio, i texani, i parvenus. IN QUESTO MONDO, Agnelli rischia di perdere i suoi contatti a livello mondiale. La crisi del 1973, cul minata nelle "domeniche senza auto", lo vede isolato e perdente, battere in ritirata, incalzato dalla nuova vorace borghesia di Stato italiana, umiliato dalla clas se politica che egli non ha mai amata e che di con seguenza non lo ha mai amato. Amintore Fanfani dirà, in uno di quei giorni, ai collaboratori: «Sono stufo di sentire gli Agnelli lamentarsi. Imparino che Torino non è il centro del mondo». Il 1974 invece è l’anno della grande svolta. Non ci si è an cora riflettuto abbastanza, ma la nuova potenza di Agnelli si può far risalire al referendum. Torino è una delle città del "no"; e questo "no" lo esprimono sia Agnelli sia i suoi operai. È l’inizio di una nuova alleanza. Di colpo il potere di Agnelli riprende quota; ed egli appare l’ago della bilancia di una fe derazione italiana in cui si muovono, in una complessa rap presentazione, partiti e sindacati, grande stampa e industria, governo e sottogoverno. Agnelli coglie il senso del momento e prende la presidenza della Confindustria. È la prima volta che assume una responsabilità politica di rilievo. Si avven ta in questo nuovo compito con irruenza. È il Rooseveit di un New Deal che purtroppo non esiste. La ragione di tanta veemenza e di un calcolo così lucido è che per la prima volta Agnelli ha capito, nella furia dello scontro, che quasi lo vede va distrutto, che di fronte a uno Stato che si sgretola la sua è una delle poche potenze in Italia che abbiano probabilità di vincere. E da battaglia. La situazione internazionale in que sto momento gli da il massimo dell’aiuto: perché con il crollo di Nixon si sono installate al potere degli Stati Uniti quel le forze ch’egli ha sempre fiancheggiato, supercapitalismo e grande finanza, Rockefeller e stampa "liberai". La Cia è sotto accusa; gli industriali e i superbanchieri sono i salvatori del la patria. "Rocky" ascende al potere. E con questa America, Agnelli diventa l’uomo degli americani in Italia, il "salvato re" cui affidare il Paese alleato a tré passi dalla voragine. Un grande prò console per una colonia autodisfacentesi. Oppure un viceré per una turbolenta propaggine dell’affaticato impe ro. E qui che Agnelli tira fuori le sue doti politiche. E Kissin ger gli da l’investitura, venendo a trattare con lui a Roma, da pari a pari, da ministro a ministro, da potente a potente. Chi vuoi capire capisca. Per Agnelli si apre ora il capitolo più tormentato. Il nuovo governo nasce con la sua benedizione, infarcito di suoi uo mini. Il futuro economico dell’Italia in agonia può dipendere dagli aiuti che gli alleati sono disposti a darci solo se egli ne fungerà da dispensiere. Il futuro politico può risultare dal la coalizione fra ciò che rimane dello scompaginato esercito cattolico della maggioranza e le forze del nuovo efficientismo industriale, del mondo radicale italiano che in Agnelli trova no il loro leader. Ma Agnelli ha certo riflettuto anche sul fatto che un disegno di questo tipo passa per la conquista dello Stato e probabilmente perla morte della democrazia. La crisi italiana verrebbe risolta ancora una volta in chiave di restau razione, con esclusione e a danno delle masse popolari. «Negli ultimi vent’anni della sua vita, GianniAgnelli mi è stato vicino più di chiunque altro. Quando avevamo qualcosa di interessante da raccontarci, almeno due o tre volte alla settimana, ci telefonavamo» (Henry Kissinger dall’introduzione a Vita dell’Awocato in 200 fotografie. Rissali, 2007)