Philippe Ridet, Internazionale 1/6/2012, 1 giugno 2012
La rovina di Pompei – (pezzo da sistemare) Philippe Ridet, Le Monde Nessuno sa da quanto tempo sono là
La rovina di Pompei – (pezzo da sistemare) Philippe Ridet, Le Monde Nessuno sa da quanto tempo sono là. D’estate si riposano all’ombra di un muro, d’inverno si rifugiano all’interno di una villa. Sono una cinquantina, forse di più. I cani randagi hanno preso possesso delle rovine e nessuno sembra avere intenzione di mandarli via. Si è preferito censirli, mettergli un collare e costruirgli dei ripari, spendendo in tutto 130mila euro. Ogni tanto un cartello in inglese e in italiano ricorda ai visitatori che è “vietato” avvicinarsi agli animali. Ma è fatica sprecata, sono i cani che seguono i turisti e non il contrario. Di mattina, prima dell’apertura del sito, si radunano davanti all’entrata principale di porta Marina e aspettano i gruppi di visitatori e i resti del loro picnic, che mangiano prima di tornare a riposare. Benvenuti a Pompei, città distrutta due volte. La prima il 24 agosto 79, quando una nuvola di cenere uscita dal Vesuvio in eruzione ricoprì la città e i suoi abitanti. La seconda volta duecentocinquant’anni fa dagli archeologi. Da allora uno dei più grandi siti archeologici del mondo, inserito nel patrimonio dell’Unesco dal 1997, continua a degradarsi. Questi cani tranquilli e paciici sono il simbolo dell’abbandono della città antica, della mancanza di mezzi per conservarla e forse della stupidità, o dell’incuria, delle istituzioni responsabili. Ma sono anche, insieme al sito che li ospita, il simbolo di un paese stanco, indebitato ino al collo e corrotto. Quarta meta turistica mondiale dopo la Francia, gli Stati Uniti e la Spagna, l’Italia si vanta di avere la metà del patrimonio mondiale dell’umanità, ma non ha più un soldo per occuparsene. La crisi economica e la recessione si sono aggiunte ai mali endemici del paese: amministrazione ineiciente, malversazione, strutture burocratiche che ostacolano le decisioni. E tutti questi mali sono condensati a Pompei. Dal luglio 2010 gli italiani hanno subìto quattro piani di austerità per un totale di 230 miliardi di euro. E la cultura, ultima ruota del carro, non è certo uscita indenne dai tagli. Gli stanziamenti hanno continuato a ridursi. Nel 2008 lo stato italiano dedicava solo lo 0,28 per cento del bilancio al ministero dei beni culturali, cioè 2,1 miliardi di euro. Nel 2010 erano 1,7 miliardi. E per il 2012 il governo prevede di spendere 1,6 miliardi: l’Italia, indebitata per 1.900 miliardi di euro (il 120 per cento del pil), deve vigilare sulle rovine e inanziare lo spettacolo e il cinema con questa somma, alla quale si aggiungono gli incassi dei siti archeologici. Antonio Irlando, 60 anni, architetto e responsabile dell’Osservatorio patrimonio culturale, conosce a memoria ogni pietra di Pompei. Tutte le settimane un rappresentante dell’Osservatorio va a ispezionare il sito. Sacca a tracolla, macchina fotograica in mano, Irlando cammina veloce sul selciato di via dell’Abbondanza, la via principale di Pompei, dove si concentrano i monumenti più belli, e documenta, cataloga, segnala ogni nuovo crollo. “Do la parola alle pietre”, spiega scattando una fotograia. Visitare la città al suo ianco è un calvario, un po’ come scoprire il cortile di servizio di un grande albergo. Ovunque si vedono pietre cadute, buchi nei muri, intonaco sul punto di staccarsi, colonne instabili. “Pompei è in pericolo di vita”, aferma Irlando. “Per ogni crollo che inisce sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, ce ne sono nove di cui nessuno parla”. Il 20 aprile si è sgretolato il muro di una villa, così modesta da non avere nome. La notizia ha avuto solo qualche riga sui siti web d’informazione. Senza troppa fatica la nostra guida trova il primo monumento a “rischio” da mostrarci. Appena superata la porta d’ingresso, si ferma e sale su un muretto dove poggiano due colonne. “Venga qui, guardi la prima colonna e poi cerchi di mettersi in asse con la seconda. Cosa vede?”. È innegabile, la prima pende. “Ecco, questa è Pompei. L’ultima volta che sono venuto la colonna era ancora dritta. La chiamo ordinaria barbarie. Si lascia fare, si aspetta che cada e quel giorno qualcuno forse deciderà di rimetterla a posto”. Il giorno della nostra visita, in aprile, erano aperte solo sei o sette ville delle sessanta teoricamente visitabili. Oggi per conoscere Pompei è meglio leggere una guida illustrata che rischiare di trovarsi di fronte a una villa sbarrata. “Si dice che ci sono dei lavori in corso”, spiega Salvatore, che da quarant’anni lavora qui come guida. “In realtà il loro stato di conservazione è così cattivo che potrebbero rappresentare un pericolo per i turisti”. Il 22 febbraio nel tempio di Giove si è staccato un metro quadrato di intonaco antico, per fortuna senza provocare vittime. Tuttavia dopo lo spettacolare crollo della casa dei Gladiatori, nel 2010, che ha messo in allarme i mezzi d’informazione internazionali sullo stato di conservazione della città antica, Pompei, con i suoi 44 ettari di rovine a cielo aperto, è diventata il malato più sorvegliato d’Italia. Ma non per questo anche il più curato, almeno secondo Irlando e molti archeologi. Ancora trent’anni fa un centinaio di operai specializzati vigilava in modo permanente sulla sua salute. Operai, mosaicisti, fabbri, un esercito di artigiani altamente qualiicati, per lo più formati sul posto ed esperti del luogo, erano pronti a intervenire al minimo segnale d’allarme. Andato in pensione dieci anni fa, l’ultimo mosaicista non è stato sostituito. “Un giorno”, racconta Irlando, “gli ho proposto di tornare con me a Pompei per constatarne il degrado. ‘Non voglio’, mi ha risposto, ‘morirei di dolore’”. Anche Domenico, l’anziano giardiniere che passa il suo tempo a sradicare le piante che crescono sui muri indebolendoli, andrà in pensione l’anno prossimo. “E nessuno verrà a sostituirmi”, si rammarica. Per vedere le conseguenze di tutto ciò basta spingere, senza farsi notare dai guardiani, una delle barriere di legno che bloccano l’accesso ad una strada. I mosaici si stanno rovinando, alcuni sono in parte ricoperti dal guano degli uccelli. Il più famoso, quello del cave canem (attenti al cane), la cui riproduzione orna i cancelli di tante villette moderne, sta scomparendo sotto la polvere e sotto l’efetto del sole. Ma a Pompei non c’è neanche uno spazzino? Le pitture che non sono state messe al sicuro nel museo archeologico di Napoli si riempiono di fessure. Il rosso pompeiano diventa sempre più pallido. Le colonne pendono, gli intonaci crollano, l’antica malta ridiventa sabbia. Qualunque turista malintenzionato può ripartire con una pietra “made in Pompei” nello zaino. Sono 150 gli addetti alla sorveglianza del sito, ma se si tiene conto delle ferie, delle malattie, dei turni di guardia, si arriva a meno di un guardiano per ettaro. Un commissario per Pompei Ex direttore della Scuola normale di Pisa, oggi presidente del comitato scientiico del museo del Louvre, Salvatore Settis, uno dei più grandi storici dell’arte italiani, ha potuto constatarlo di persona. Con Irlando e Gian Antonio Stella, autore insieme a Sergio Rizzo di Vandali: l’assalto alle bellezze d’Italia, si sono ilmati in una villa deserta mentre gridavano a squarciagola “Al ladro! Al ladro!”. Un quarto d’ora dopo gridavano ancora senza che fosse intervenuto un solo guardiano: “Quello che mi ha sorpreso”, spiega Settis, “è la mancanza di custodi e di addetti alla manutenzione quotidiana”. In seguito a questa esperienza Settis ha pubblicato su Repubblica Sera del 5 aprile 2012 “Le 10 regole per far rinascere Pompei”, che comprendono una gestione eicace in cui gli archeologi siano anche manager, la messa a disposizione di tutti gli incassi (più o meno 20 milioni di euro all’anno) per la manutenzione del sito, l’aumento del personale scientiico includendo anche i ricercatori stranieri, la creazione di una commissione internazionale per identiicare le priorità di restauro, e l’ammodernamento della ferrovia, la Circumvesuviana, che porta i turisti dalle stazioni di Napoli o di Sorrento ino a Pompei. Su Le Monde del 14 gennaio lo storico dell’arte Philippe Daverio si è spinto oltre: “Pompei deve rimanere una questione di competenza solo napoletana e italiana? Il paese non ha i mezzi inanziari e umani per mantenere il suo patrimonio. La cosa più saggia sarebbe quella di aidare la gestione del sito a quattro o cinque grandi università internazionali sottoposte all’autorità di un commissario. L’Italia ha accettato la tutela dell’Unione europea per il suo debito, perché non accettare un commissario per il patrimonio?” Teresa Cinquantaquattro, direttrice della soprintendenza di Pompei, condivide alcune di queste idee. Autrice di un rapporto allarmante in cui sottolinea che la metà dei 44 ettari della zona archeologica è “a rischio di crollo”, è comunque contraria al catastroismo: “Ci sono stati dei progressi. Nel 2012 il ministero ha assunto venti persone, per metà archeologi e architetti. Ma purtroppo non ho a disposizione tutti gli incassi di Pompei, che servono anche a mantenere Ercolano e i Campi Flegrei, la regione vulcanica a ovest di Napoli. Pompei ha più di duemila anni, gli architetti e gli operai dell’antichità non hanno concepito le domus e i templi per durare così a lungo. Il vento, la pioggia, l’inquinamento di ogni genere sono un pericolo costante, per non parlare dei 2,5 milioni di visitatori annuali. Non basta arrivare con un secchio di cemento per riparare una colonna o un mosaico. Qui tutto richiede molto tempo. Prima di decidere, ogni intervento va studiato, valutato con cura. E i mezzi d’informazione non ci aiutano di certo con tutto il clamore che fanno ogni volta che crolla un pezzo di muro”. Problema economico? Di competenza? Di volontà politica? Dalla ine della seconda guerra mondiale sono stati realizzati centinaia di interventi per mantenere e consolidare il sito. Sono stati ordinati decine di rapporti ad altrettanti specialisti in un paese che certo non manca di esperti. Tutti i governi hanno inserito la salvaguardia di Pompei tra le “priorità nazionali”. E talvolta ai grandi discorsi sono seguiti i grandi interventi. Visitare Pompei signiica anche conoscere l’archeologia delle tecniche di restauro: il cemento armato degli anni cinquanta con i suoi tondini di ferro che cominciano ad arrugginire, le putrelle d’acciaio degli anni settanta, i pilastri ecologici in legno degli anni novanta e così via. Per mettere i mosaici al riparo dalle intemperie sono stati usati diversi tipi di protezione – dalla lamiera ondulata al vetro. “I vari responsabili del sito hanno fatto un po’ quello che volevano”, spiega Irlando. “Ma nessuno ha pensato a un piano di conservazione quotidiano e globale”. Di fronte all’urgenza degli interventi il governo di Silvio Berlusconi aveva aidato la gestione di Pompei alla Protezione civile, l’organismo che dovrebbe intervenire in caso di catastroi naturali. Il vantaggio di questa struttura, che dipende direttamente dalla presidenza del consiglio, è quello di permettere di abbreviare le procedure. Il suo inconveniente è la scomparsa dei controlli sulle gare d’appalto. Il risultato sono le quattro inchieste aperte dalla procura di Napoli per cercare di capire perché siano stati realizzati due hangar, completamente vuoti, che dovrebbero ospitare le antichità (“Mentre l’Antiquarium è chiuso da trent’anni!”, esclama Irlando) e una casetta di cemento armato – anche questa vuota – per ospitare l’amministrazione. Un’altra inchiesta riguarda il “restauro” del principale teatro antico: le tribune sono state rifatte su una base in cemento armato, un vero e proprio crimine contro tutte le regole della conservazione artistica. Questo rifacimento è costato sei milioni di euro rispetto a un preventivo di 500mila euro e il teatro non è mai stato usato. Il problema è vecchio come la questione meridionale. I grandi lavori fruttano più dei piccoli. Ma a chi? Alla camorra, che controlla tante imprese. Un funzionario del ministero dei beni culturali che preferisce mantenere l’anonimato ci dice: “Per molti è meglio che Pompei rimanga in uno stato critico. In questo modo si può ottenere più denaro per ogni crollo mostrato dai mezzi d’informazione. In un certo senso i crolli sono utili per mantenere una sorta di ‘strategia della tensione’ archeologica. Così saranno stanziati inanziamenti pubblici urgenti che possono facilmente inire nelle mani della camorra, perché sono meno controllati. Con i finanziamenti privati, inoltre, sarebbe peggio. nessuno ne conoscerebbe la provenienza né si può sapere in quali mani disoneste potrebbero inire”. Quindi cosa rimane? L’europa e i suoi fondi destinati alle “regioni sottosviluppate”. L’Italia usa meno della metà di quelli che potrebbe ottenere. un anno fa Johannes hahn, commissario europeo per le politiche regionali, ha ricevuto una richiesta uiciale da parte della regione Campania. Il 29 marzo 2012 la commissione ha dato il suo Consenso. Il 5 aprile sono arrivati in pompa magna alla prefettura di napoli almeno cinque ministri, tra cui il presidente del consiglio Mario Monti – che è anche ministro dell’economia – per annunciare la buona notizia: la Commissione europea ha stanziato 105 milioni di euro per restaurare le domus più danneggiate e per cominciare un vero lavoro di sorveglianza e di manutenzione permanente. un primo passo verso una tutela internazionale di pompei? L’europa è disposta a occuparsi di questo bene dell’umanità, ma a patto di avere delle garanzie; non vuole certo che il denaro vada ad arricchire qualche boss della camorra dell’hinterland napoletano. È stato irmato un “protocollo di legalità”, il primo del genere. “un prototipo”, si è rallegrato Monti. È stato nominato un prefetto che sarà incaricato di veriicare la regolarità di ogni gara d’appalto per i lavori che superano i cinquemila euro. “pompei diventerà il simbolo del cambiamento”, spera il nuovo ministro della cultura, Lorenzo ornaghi, il terzo dopo il crollo della casa dei Gladiatori. Più trasparenza La promessa è solenne. D’ora in poi tutto sarà trasparente: gli appalti per i lavori, i tempi per i restauri, le imprese scelte. “Dobbiamo dimostrare a tutta l’europa che pompei è un investimento sicuro”, continua ornaghi. se l’operazione riuscirà, la regione conta anche di attirare le grandi reti alberghiere e trattenere i turisti che adesso la sera tornano negli alberghi di napoli o di roma, spendendo a pompei solo i soldi del biglietto di entrata. I lavori dovrebbero durare ino al 2015. saranno restaurate cinque domus. nel frattempo una decina di regiones (quartieri) saranno “messe in sicurezza” per essere riaperte alle visite. Ma quel famoso 5 aprile, mentre i ministri, i sindaci, i presidenti di provincia e di regione si rallegravano del “nuovo avvio” del restauro di pompei, abbiamo contato almeno sessanta auto uiciali e il doppio tra autisti e uomini di scorta in piazza del plebiscito a napoli. Chissà quante colonne potrebbero essere raddrizzate se i rappresentanti delle istituzioni dessero prova di maggiore modestia. pompei è salva? In Italia, dove gli annunci roboanti sono raramente seguiti da gesti concreti, molti ne dubitano. Di certo la tutela dei sospettosi funzionari europei, l’impegno dello stato e la promessa di ispezioni regolari sono un buon inizio. Forse verrà il giorno in cui sarà possibile aprire tutte le ville, ognuna sorvegliata da un custode, senza rischiare di prendersi un pezzo di intonaco sulla testa. “non bisogna farsi illusioni”, avverte teresa Cinquantaquattro, “ci saranno sempre delle case chiuse per lavori. Il restauro di pompei non inirà mai”. Intanto nel sito della città sepolta rimangono ancora 22 ettari da scavare. Quando lasciamo pompei un vecchio cane marrone ci segue trotterellando ino alla porta. non sembra triste che ce ne andiamo. Domani altri turisti arriveranno con le loro carezze e i loro panini.