Corrado Stajano, Corriere della Sera 01/06/2012, 1 giugno 2012
BORSELLINO, VENT’ANNI SENZA MEMORIA E LA FABBRICA DEI FALSI - E
adesso che i tamburi in onore di Falcone hanno smesso di rullare, le trombe hanno finito di squillare, le bocche di straparlare, secondo la vocazione della retorica nazionale maestra nel trasformare anche una tragedia in un inno, esce questo libro di Enrico Deaglio, Il vile agguato. Chi ha ucciso Borsellino. Una storia di orrore e di menzogna (Feltrinelli editore) che racconta i fatti accaduti nella loro credibile e agghiacciante realtà e offre qualche sofferto lume di verità.
È un libro molto bello, se si può usare questo aggettivo in una materia così torbida che fa sentire ancora più inerme il libero cittadino. Viviamo in un Paese senza memoria, di indignazione breve. Dell’assassinio di Paolo Borsellino non possediamo ancora una risposta delle istituzioni, dopo una decina di processi, un’infinità di istruttorie, investigazioni, false rivelazioni.
L’interrogativo non è perché 56 giorni dopo l’assassinio di Giovanni Falcone sia stato ucciso Borsellino. Il giudice sapeva che doveva morire. Era un uomo coraggioso e insieme umile, ma non ingenuo, esterrefatto, soprattutto negli ultimi mesi della vita, di trovarsi contro uomini dello Stato che avevano giurato fedeltà alla Costituzione. Furono invece traditori, nemici di chi con le povere, ma intelligenti armi della grande professionalità, oltre che della buona coscienza, cercava di estirpare quel cancro evidentemente inestirpabile che è la mafia annidata nel cuore della Repubblica: «I Servizi», denuncia con semplice chiarezza Deaglio, «che non sono deviati, o infedeli, o corrotti. Sono lo Stato, la sua continuità, la sua memoria».
Giornalista di valore, scrittore (La banalità del bene, Il raccolto rosso) Deaglio sa raccontare. Ha la passione e la curiosità di andare a vedere, di confrontare fatti e documenti, come sarebbe ovvio ma non lo è, nella superficialità dilagante e nel delirio dell’io. Tra l’altro ha diretto «Diario», il settimanale che è stato una delle poche novità giornalistiche degli ultimi tempi.
Quel che succede a Palermo nel pomeriggio del 19 luglio 1992, in via Mariano D’Amelio, una domenica d’estate, è rimasto nel cuore e negli occhi di molti.
Deaglio cerca di districare la matassa zeppa di menzogne aggrovigliate a bella posta dopo la strage. Racconta quel che è stato fatto e, soprattutto, non fatto, mette a nudo i macroscopici buchi dell’indagine. Non sono stati interrogati testimoni-complici che vivevano dove Borsellino, quel giorno, andò a trovare la madre nella sua casa, priva di ogni protezione; per quindici anni viene dato credito alle falsità certamente manovrate di un piccolo mafioso, Vincenzo Scarantino, al quale sono attribuite tutte le responsabilità di una strage colossale che fa discutere il mondo; Scarantino non è Buscetta che quando decise di parlare con Falcone disse la verità, ma un semianalfabeta di borgata che rivela, tra tante menzogne, di aver partecipato anche a un summit di Cosa Nostra mai avvenuto.
E poi: una strana barca con a bordo mafiosi e uomini di primo piano dei Servizi che naviga, proprio in quelle ore dell’attentato, al largo del porto di Palermo e i gitanti sono molto informati di quel che sta accadendo. Senza dimenticare il Castel Utveggio sul Monte Pellegrino, proprio sopra via D’Amelio, che ospita una sede dei Servizi con una supercentrale di ascolto che controlla il quartiere e l’intera città. Il telecomando potrebbe essere stato azionato da lassù.
Nulla, dolosamente, viene preso in considerazione. I verbali subiscono manomissioni, le trascrizioni spariscono, le intercettazioni vengono cancellate. È un colossale depistaggio l’inchiesta, la fabbricazione di un falso. Responsabili carabinieri, polizia, questure, procure, tribunali, corti d’assise e i servizi segreti, naturalmente.
Ci sono anche gli altri, come sempre in questo infelice Paese. Quelli che fanno ciò che devono, le eterne minoranze. Nel 1994, Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, allora applicati alla procura di Caltanissetta, fanno avere al procuratore della Repubblica della città Giovanni Tinebra una lettera di venti pagine in cui si dimostra che almeno 25 delle dichiarazioni di Scarantino sono palesemente inattendibili e si manifestano pesanti dubbi su come siano state raccolte e verbalizzate. Senza risultati.
Errore e dolo, contiguità, ambiguità, complicità, criminalità, mafia politica, politica del compromesso. Per anni e anni. Fin quando, nel 2009, Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia dei fratelli Graviano, confessa di esser stato lui a rubare la macchina piena di tritolo, una Fiat 126, e di essere coinvolto nella strage. Scarantino piange, si è inventato tutto. Per chi? In nome di chi?
A perdere per sempre Borsellino è la scoperta della trattativa tra la mafia e lo Stato in cui sono coinvolti uomini politici, talpe, capimafia, funzionari dei Servizi: il magistrato non ne è informato, ma capisce e sa. Va dunque eliminato. Dov’è finita la sua agenda rossa, su cui annotava tutto, che Peppino Ayala consegnò dopo la strage a un ufficiale dei carabinieri? Anche tra gli autori materiali dell’attentato ci sono uomini dello Stato, «il signor Carlo» e «l’elegantone». Chi erano? Che cosa aveva scoperto Borsellino con il suo disperato e civile no che segna la sua condanna a morte?
I processi, legati tra loro come i serpenti marini del Laocoonte, continuano vent’anni dopo, con imputati illustri e meno illustri, tutti insieme in un fetido pentolone. Lo Stato esce a pezzi da questa cupa tragedia narrata con accorta lievità. Il vile agguato è il racconto del dopo. Come se Deaglio da dietro una vetrata guardasse quel che di mostruoso è accaduto.
Corrado Stajano