Daniela Monti, Corriere della Sera 01/06/2012, 1 giugno 2012
ARMANI NON VENDE E PUNTA TUTTO SU UNA FONDAZIONE —
«La prossima guerra sarà per l’acquisizione di Armani. È il più grosso affare degli anni a venire», rispondeva Patrick Thomas, ceo di Hermes, a chi lo interrogava sulle prossime strategie planetarie del lusso. Deponga pure le armi, monsieur Thomas: non ci sarà nessuna guerra, Armani non vende più. C’è piuttosto una fondazione nel futuro della maison italiana, che ieri ha portato a Pechino tutte le sue collezioni, straordinario spot per quel minimalismo chic ancora così distante da una certa idea cinese di lusso eccessivo, eppure già indossato da una folta avanguardia di uomini e donne di potere.
«Sto lavorando al futuro della mia azienda», ha detto Giorgio Armani, 78 anni a luglio, affrontando per la prima volta in modo così diretto un tema che fino a ieri aveva preferito scansare. E via con l’elenco delle possibilità (esaminate e scartate): «Cedere a un fondo che, dopo un paio di anni, venderà le azioni per guadagnarci? Non mi interessa». Ipotesi due: «Passare la mano a un privato che pensa di poter trattare gli abiti allo stesso modo delle automobili? Non mi interessa neppure questo: per la moda occorrono sensibilità e cuore». La terza è quella buona: «Ho avviato una ristrutturazione importante — ha spiegato Armani —: l’appoggio esterno di una fondazione consentirà, alle persone designate, di gestire l’azienda». Questo dunque l’assetto che si sta profilando per una delle più blasonate (e redditizie) case di moda italiane: una fondazione, cioè un grande cda, che intervenga su tutte le scelte strategiche del gruppo, indicando al management la strada da seguire. Una soluzione per mantenere il controllo dell’impresa (un miliardo e 800 milioni di euro i ricavi consolidati nel 2011) nelle mani delle persone di fiducia di Armani. E lo stile? Chi disegnerà Armani dopo Armani? «Ho un ottimo staff, che migliora sempre più», risponde lui, senza spingersi oltre.
Commenti amari, invece, Armani li riserva alla situazione italiana: «La cosa che mi infastidisce di più è dover riconoscere che non siamo più felici in questa nostra Italia con troppi indagati, con troppi santi che si rivelano tutt’altro. Non so se sia il risultato di un passato lassista, però stiamo andando verso una situazione pericolosa. Penso di andarmene, e poi non lo farò mai. Ma vien voglia di fare qualcosa per risollevare questo Paese».
La serata che ha concluso il tour orientale di Armani è stata un omaggio alla Cina, con lo spettacolare quadro finale della donna dragone, vestita in lungo nero di paillette con ricamato un drago nei toni del verde; ma è stato soprattutto un omaggio di Armani a se stesso e alla scommessa di investire in Oriente lanciata quasi 15 anni fa, con l’apertura del primo negozio a Pechino. C’è stata una impennata dei ricavi del 45 per cento sull’anno precedente proprio in Cina. E ora lo stilista, per chiudere il cerchio, parla di un altro centinaio di negozi che verranno aperti qui nei prossimi tre anni e che si andranno ad aggiungere ai 289 già presenti. Capitolo a parte, l’alta moda: ieri l’esordio in Cina della Armani Privé i cui abiti, attraversati da una vena di verde acido, hanno concluso la lunga passerella che ha visto una selezione di tutta la moda Armani, maschile e femminile, del prossimo inverno. Un migliaio gli ospiti a bordo passerella: fra loro anche quelle clienti «speciali», come le ha chiamate Armani, a cui gli abiti sono stati mostrati durante appuntamenti privati.
Fra gli ospiti vip della serata, conclusasi con lo show di Mary J. Blige, Tina Turner e una vasta schiera di ragazzi e signorine dai nomi complicati di cui anche da noi si cominciano a conoscere i volti: Liu Ye, Fan Bing Bing, Daniel Wu. Bellissime le modelle orientali. Fra loro c’è la nuova Naomi? «Sono elegantissime, riescono a fondersi perfettamente con gli abiti che indossano. Sembrano quasi disegnate — risponde Armani —. Però no, Naomi era un’altra cosa».
Daniela Monti