Ignazio Visco, Corriere della Sera 1/6/2012, 1 giugno 2012
RELAZIONE DEL GOVERNATORE DELLA BANCA D’ITALIA 31 MAGGIO 2012
Signori Partecipanti, Autorità, Signore, Signori, prendo per la prima volta la parola di fronte a quest’Assemblea in giorni non facili per il nostro Paese, per l’Europa. Sono giorni in cui ciascuno — Stato, istituzione o individuo — deve applicarsi a svolgere il proprio compito al meglio delle sue possibilità, perché solo dal generale assolvimento dei doveri di tutti può scaturire la soluzione della crisi che viviamo. Con questo stesso spirito dovranno essere affrontate le conseguenze del grave, luttuoso sisma che ha colpito in questi giorni l’Emilia. Come in analoghe circostanze, la Banca non farà mancare il suo contributo.
(...) Lo scorso primo novembre Mario Draghi assumeva la carica di Presidente della Banca centrale europea. Egli era stato nominato Governatore della Banca d’Italia, con decreto del Presidente della Repubblica Ciampi, alla fine del 2005, al culmine di un difficile periodo nella vita della Banca e del nostro sistema finanziario. In questi anni, la sua opera, anche nelle impegnative funzioni di Presidente del Financial Stability Board, ha dato lustro al nostro Istituto, ne ha rafforzato la reputazione, in Italia e a livello internazionale. Il suo indirizzo è stato essenziale per l’articolazione della politica monetaria europea, per la nostra azione di vigilanza e per la modernizzazione del modus operandi e dell’organizzazione della Banca. Il Consiglio superiore lo ha nominato Governatore onorario. La Banca d’Italia, il Paese, gli devono molto.
Fra i suoi primi atti, nel 2006, vi fu quello di proporre Fabrizio Saccomanni come Direttore generale. In quella posizione Fabrizio lo ha affiancato con la sua intelligenza e la sua esperienza in ogni campo, intervenendo in prima persona in tutte le maggiori iniziative istituzionali della Banca, a partire dalla riforma logistica e organizzativa dell’amministrazione centrale e della rete territoriale. Desidero ringraziarlo per l’apporto prezioso che ha continuato a dare in questi mesi nella conduzione del nostro Istituto. Le sfide che stiamo affrontando, che continueremo insieme ad affrontare, sono assai impegnative. Vi dedicheremo tutte le nostre capacità, il nostro massimo impegno, nell’interesse della Banca e in quello del Paese.
(...) Nello stato patrimoniale della Banca alla fine dello scorso anno il totale dell’attivo, 539 miliardi di euro, era più alto del 60 per cento rispetto a un anno prima, anche in conseguenza delle operazioni non convenzionali di politica monetaria dell’Eurosistema effettuate dal nostro Istituto. Grazie anche al contenimento dei costi di gestione, l’utile lordo è salito a 3,6 miliardi: 1,4 miliardi sono stati accantonati al fondo rischi generali; sono state pagate imposte per 1,1 miliardi; l’utile netto risultante, pari a 1,1 miliardi, è stato attribuito dal Consiglio superiore per il 40 per cento alle riserve ordinaria e straordinaria e per il 60 per cento allo Stato.
L’economia e la politica monetaria
(...)
Le condizioni economiche si deteriorano da un anno. In Italia la produzione industriale, che aveva a stento recuperato nel secondo trimestre dello scorso anno meno della metà dei 25 punti percentuali persi nella recessione del 2009, è da allora caduta del 5 per cento. Il prodotto interno lordo è diminuito dalla scorsa estate per tre trimestri consecutivi, con una perdita complessiva di circa 1,5 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione è salito, da luglio allo scorso marzo, da poco più dell’8 per cento a quasi il 10; fra i giovani con meno di 25 anni, dal 28 al 36 per cento.
Secondo le previsioni di consenso, nella media di quest’anno e del prossimo il prodotto dell’area dell’euro registrerebbe un lieve incremento. Per l’Italia il 2012 non potrà che essere un anno di recessione, per le incertezze finanziarie e le drastiche, pur se indispensabili, misure di correzione del bilancio pubblico.
In scenari non troppo sfavorevoli la caduta del prodotto può essere contenuta intorno all’1,5 per cento; una ripresa potrà affiorare verso la fine dell’anno, con probabilità tanto maggiore quanto più saranno efficaci gli interventi strutturali volti a migliorare l’utilizzo delle risorse pubbliche e private, quanto più chiara e decisa sarà la coesione mostrata dall’Unione Europea.
Dall’estate le tensioni sul mercato del debito sovrano si sono rapidamente trasmesse ai sistemi bancari. Contribuiva ad ampliarle, con effetti prociclici, il succedersi di decisioni di declassamento, da parte delle agenzie di rating, del merito creditizio di Stati e intermediari. Si accentuava la segmentazione del mercato interbancario lungo linee nazionali, con un forte allargamento dei differenziali tra il tasso overnight sui mercati italiano e spagnolo e quello medio dell’area.
Per le banche del nostro e di altri Paesi, la riduzione della raccolta all’ingrosso era di entità assai rilevante. Negli ultimi cinque mesi del 2011 la provvista netta delle banche italiane presso non residenti, sull’interbancario estero e in obbligazioni, diminuiva di oltre 100 miliardi. Tra gli operatori si diffondeva il timore che una flessione della raccolta e una possibile scarsità di garanzie stanziabili presso l’Eurosistema potessero avviare una crisi sistemica.
Le tensioni erano aggravate dall’elevato ammontare di obbligazioni in scadenza sui mercati internazionali nel corso del 2012: quasi 450 miliardi per l’area dell’euro, 75 per le banche italiane. La politica monetaria unica rischiava di non essere più trasmessa in modo uniforme; la stabilità finanziaria era a rischio.
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha reagito estendendo dall’estate gli acquisti di titoli nell’ambito del Securities Markets Programme; riducendo i tassi ufficiali in due riprese; dimezzando in dicembre il coefficiente di riserva obbligatoria. Ha deciso di condurre, a dicembre e a fine febbraio, due operazioni di rifinanziamento a scadenza eccezionalmente lunga, tre anni, con integrale aggiudicazione degli importi richiesti; ha ampliato la gamma delle attività stanziabili a garanzia dei finanziamenti.
La liquidità immessa nel sistema con le due operazioni a tre anni ha superato, nel complesso dell’area, 1.000 miliardi, 500 al netto degli importi in scadenza. Hanno partecipato nel nostro Paese 112 banche, cui è stata erogata liquidità per 255 miliardi lordi, 140 al netto dei rimborsi. La raccolta all’ingrosso venuta meno è stata così sostituita con il rifinanziamento presso l’Eurosistema; parte dei fondi è stata investita in titoli di Stato.
Nell’aggregato, dati gli andamenti macroeconomici, il fabbisogno complessivo di fondi liquidi da parte delle banche dell’area dell’euro non è aumentato; la liquidità creata con le due operazioni di rifinanziamento a tre anni non poteva che tradursi in un pari aumento dei fondi detenuti dalle banche sulla deposit facility presso l’Eurosistema. Non per questo la liquidità è rimasta inutilizzata: è stata ridepositata da intermediari diversi da quelli che l’avevano ottenuta, dopo aver circolato tra banche e tra Paesi dell’area dell’euro, sostituendosi ai flussi di capitali privati laddove questi si erano interrotti. Ha preservato il funzionamento dei mercati, contenuto i rendimenti, evitato che la caduta della provvista si traducesse in una restrizione creditizia rovinosa per famiglie e imprese.
Negli ultimi dodici mesi i prestiti delle banche italiane al settore privato sono aumentati dell’1,3 per cento. Quelli alle imprese hanno rallentato dalla primavera del 2011 e si sono bruscamente contratti nello scorso dicembre, per oltre 20 miliardi. Nel primo trimestre di quest’anno hanno ristagnato; sono cresciuti in aprile.
La dinamica effettiva dei prestiti non riflette solo fattori di offerta, ma anche la debolezza congiunturale della domanda e il deterioramento della qualità del credito. Vi sono comunque segnali che il miglioramento delle condizioni di liquidità delle banche stia favorendo l’offerta di credito. Nei primi mesi dell’anno i sondaggi, presso le banche e le imprese, segnalano condizioni di finanziamento meno tese rispetto a quelle, molto critiche, dell’ultimo trimestre del 2011. I tassi sulle erogazioni alle imprese sono tornati in media a scendere.
Gli acquisti netti di titoli di Stato da parte delle banche italiane, modesti o negativi negli ultimi mesi del 2011, nei primi tre mesi dell’anno in corso sono stati pari a 70 miliardi, di cui circa un terzo su scadenze inferiori all’anno. È stata in parte ripristinata la liquidità del mercato; per le banche, l’accumulo di attività a breve termine consentirà di far fronte all’eventuale mancato rinnovo delle obbligazioni in scadenza, di accompagnare la ripresa della domanda di credito.
Ristabilire condizioni ordinate sul mercato del credito è essenziale per le prospettive della nostra economia. L’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato, le difficoltà di raccolta bancaria, i maggiori costi e la minore disponibilità di credito all’economia hanno determinato finora un effetto depressivo sull’attività economica valutabile in circa un punto percentuale nella media dell’anno in corso. Senza gli interventi dell’Eurosistema l’effetto sarebbe stato maggiore.
Le attività delle banche italiane stanziate a garanzia dei finanziamenti dall’Eurosistema sono aumentate di circa 80 miliardi grazie alla possibilità, introdotta in dicembre nell’Unione Europea, di ottenere garanzie dello Stato sulle proprie obbligazioni. Il valore delle garanzie depositate presso la Banca d’Italia (collateral pool), al netto degli scarti (haircuts), ha raggiunto 360 miliardi di euro, di cui 85 liberi e prontamente utilizzabili; le banche italiane posseggono inoltre, al di fuori del pool, titoli stanziabili e liberi da vincoli per oltre 100 miliardi.
La disponibilità di garanzie stanziabili potrà inoltre ampliarsi in misura significativa per effetto dei nostri provvedimenti che hanno dato attuazione alla decisione del Consiglio direttivo della Bce di dicembre consentendo l’utilizzo di tipi aggiuntivi di prestiti bancari. La selezione delle nuove garanzie avviene sulla base di criteri e controlli severi, di recente ulteriormente affinati.
È auspicabile che le banche adeguino le proprie strutture per utilizzare al meglio questa opportunità.
Le misure dell’Eurosistema a sostegno della liquidità sono state rese possibili dalla credibilità acquisita negli anni dalla politica monetaria, dalla stabilità delle aspettative di inflazione. Le decisioni del Consiglio direttivo della Bce hanno risposto pienamente al mandato. Era essenziale evitare che la politica monetaria perdesse efficacia e fosse trasmessa in maniera diseguale nei diversi Paesi; una brusca interruzione dell’offerta di credito all’economia e una perdita di funzionalità dei mercati avrebbero comportato rischi gravissimi per la stabilità finanziaria dell’area.
La tutela della stabilità finanziaria è affidata in Europa alle autorità di regolamentazione e alle banche centrali. La vigilanza macro prudenziale è responsabilità del Comitato europeo per il rischio sistemico, nel quale le banche centrali svolgono un ruolo primario. L’Eurosistema ha l’obiettivo prioritario di salvaguardare la stabilità dei prezzi nel medio termine; contribuisce, secondo il Trattato, a preservare la stabilità del sistema finanziario. Quando questa è messa a repentaglio, anche la stabilità dei prezzi è a rischio.
La politica monetaria non può sanare tutti gli squilibri nell’area dell’euro, ma può contenere il contagio, evitare crisi sistemiche, attenuare le tensioni. Il suo contributo a sostenere i mercati e la liquidità resta essenziale; l’uscita dall’attuale assetto è oggi del tutto prematura.
Il sistema finanziario e l’azione di vigilanza
Dall’inizio della crisi le banche italiane hanno compiuto notevoli progressi sulla strada del rafforzamento patrimoniale; hanno fatto ricorso al mercato in circostanze difficili. Il rapporto di capitale “core tier 1” dei cinque maggiori gruppi bancari è cresciuto tra il 2007 e oggi da meno del 6 al 10 per cento; per le altre banche è rimasto stabile intorno al 10 per cento. Sulla base delle analisi dei rischi, la Vigilanza ha chiesto agli organi aziendali di adottare le opportune iniziative per mantenere o raggiungere livelli di capitale ben superiori ai minimi regolamentari. Il percorso verso Basilea 3 procede con regolarità.
In questi anni, la stabilità delle banche italiane è stata assicurata da un insieme di fattori: una bassa esposizione ai prodotti della finanza strutturata; regole e controlli di vigilanza volti a evitare l’assunzione di rischi eccessivi; una leva finanziaria contenuta nel confronto con altre banche europee; un peso elevato di strumenti di capitale effettivamente in grado di assorbire le perdite. Vi hanno contribuito l’assenza nel nostro Paese di una bolla immobiliare e il limitato livello del debito delle famiglie. Il sistema creditizio sta però subendo i contraccolpi di due forti recessioni in tre anni, delle tensioni sul debito sovrano.
La qualità del credito è peggiorata. Il tasso di ingresso in sofferenza dei prestiti concessi da banche italiane a residenti, inferiore all’1 per cento negli anni precedenti la crisi, ha toccato un picco del 2 per cento nel 2009.
La successiva discesa si è interrotta nella seconda metà dello scorso anno con il deterioramento della congiuntura; le nuove sofferenze sono tornate ad avvicinarsi al 2 per cento. Sono cresciuti anche i prestiti classificati tra gli incagli, quelli ristrutturati e quelli scaduti. Il peggioramento della qualità del credito ha interessato soprattutto i finanziamenti alle imprese.
(...) Fino al 2008 l’espansione dei volumi di credito ha sostenuto la crescita dei ricavi e dei profitti delle banche italiane, pur non tra i più elevati nel confronto internazionale. Da allora il calo dell’attività produttiva si è riflesso in un rallentamento degli impieghi e in un aumento del rischio di credito e delle perdite a esso associate. Anche non considerando le ingenti svalutazioni degli avviamenti effettuate da alcune banche, eventi eccezionali e non ricorrenti, gli utili si sono collocati nell’ultimo esercizio su livelli particolarmente bassi.
Per rafforzare il patrimonio è necessario accrescere l’autofinanziamento. Ma lo squilibrio attuale tra impieghi e raccolta stabile rende difficile in prospettiva il ritorno a un modello di crescita della redditività bancaria basato soprattutto sull’espansione dei volumi intermediati.
Sono necessari interventi incisivi dal lato dei costi operativi, la cui flessibilità è modesta in relazione alle condizioni di fondo del settore. L’attuale livello del costo del lavoro è difficilmente compatibile con le prospettive di crescita del sistema bancario italiano. Anche le remunerazioni degli amministratori e dell’alta dirigenza devono essere indirizzate all’obiettivo del contenimento dei costi.
Strategie ambiziose devono essere volte ad aumentare significativamente l’efficienza dei processi produttivi e distributivi, a valorizzare il contributo delle nuove tecnologie. Un’ampia diffusione di nuove modalità di accesso ai servizi bancari richiede di riconsiderare l’economicità dell’intera struttura distributiva. Alla fine del 2011 erano abilitati a effettuare operazioni bancarie online 14,3 milioni di conti bancari intestati a famiglie e 1,7 intestati a imprese, valori pari rispettivamente a 5 e 3 volte quelli registrati dieci anni prima. Tra il 2001 e il 2008 il numero degli sportelli è cresciuto di circa il 20 per cento; successivamente ha registrato solo una modesta flessione.
Alle aggregazioni tra banche non hanno fatto seguito snellimenti incisivi dell’articolazione societaria dei gruppi e una riduzione nel numero dei componenti degli organi amministrativi. I primi 10 gruppi contano complessivamente 1.136 cariche, escludendo le società estere; oltre 700 per le sole banche controllate. Anche tra gli altri intermediari si osservano spesso composizioni pletoriche, che deresponsabilizzano i singoli consiglieri e si riflettono negativamente sulla funzionalità degli organi collegiali. Questi assetti sono di per sé costosi e non giustificati dalle competenze professionali necessarie all’efficace gestione del gruppo o della banca. Il recente divieto di detenere cariche incrociate tra imprese del settore finanziario è un’occasione anche per intervenire sulla numerosità dei consigli di amministrazione.
L’attività delle banche nell’allocazione delle risorse deve trovare complemento in un più ampio sviluppo dei mercati dei capitali. Per le imprese, i bassi livelli di patrimonializzazione e la stretta dipendenza dal credito bancario quale fonte pressoché unica di finanza esterna rappresentano un elemento di fragilità nel breve termine, un freno alle potenzialità di sviluppo. Per non poche aziende le difficoltà di accesso al credito sperimentate dall’inizio della crisi dipendono anche da strutture finanziarie non equilibrate, con livelli di debito eccessivi.
Il capitale di rischio è lo strumento idoneo per finanziare l’innovazione. Vanno nella giusta direzione gli incentivi per aumentare le risorse patrimoniali delle imprese contenuti nelle misure adottate dal Governo per favorire la crescita. Il rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese richiede cambiamenti anche nei rapporti con le banche.
In Italia il 38 per cento dei prestiti alle aziende ha durata non superiore ai 12 mesi; la quota è del 18 per cento in Germania e in Francia, del 24 nella media dell’area dell’euro. La maggiore dipendenza dal debito a breve termine espone le imprese italiane a più elevati rischi di rifinanziamento, restringe l’orizzonte temporale degli investimenti. Nel nostro Paese, oltre la metà dei prestiti a breve termine è costituita da affidamenti in conto corrente.
La variabilità nell’utilizzo di queste linee di credito espone le banche a rischi di liquidità; è una delle caratteristiche che ne impedisce l’uso come attività da offrire in garanzia per il rifinanziamento presso l’Eurosistema.
La crisi ha indotto a rivalutare i benefici di una regolamentazione più stringente, in grado di evitare un ricorso eccessivo alla leva finanziaria, forme di raccolta volatili, investimenti in attività lontane dalla funzione creditizia della banca. Ha mostrato che un elevato rendimento del capitale ottenuto utilizzando la leva finanziaria non è sostenibile, è fonte di instabilità.
Le nuove, più rigorose regole elaborate dal Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria hanno l’obiettivo di contenere i rischi di crisi finanziarie. Possono imporre oneri agli operatori e al sistema economico nel suo complesso, ma sono tese a preservare le funzioni fondamentali dell’intermediazione, essenziali per lo sviluppo economico.
Livelli di capitale più elevati rafforzano la stabilità delle banche, la loro capacità di erogare credito anche in condizioni difficili. La coerenza tra dotazione patrimoniale e rischiosità dell’attivo si conferma un cardine dell’impianto regolamentare.
Basilea 3 entrerà in vigore all’inizio del prossimo anno. In Europa due questioni fondamentali riguardano la definizione del capitale e i margini di flessibilità consentiti alle autorità nazionali. L’Autorità bancaria europea dovrà garantire che gli strumenti patrimoniali che le banche potranno utilizzare a copertura dei rischi siano definiti coerentemente con la riforma. La possibilità per le autorità nazionali di imporre requisiti più stringenti di quelli minimi armonizzati su scala internazionale risponde alla percezione di differenze anche di rilievo tra i diversi sistemi bancari. Vi si dovranno associare una maggiore trasparenza e un confronto preventivo in sede europea; il ricorso a misure decise a livello nazionale non deve compromettere il funzionamento del mercato unico.
Ma le regole da sole non bastano. La Banca d’Italia si adopera per favorire l’adozione di prassi di supervisione e controllo intense e rigorose. Un elemento essenziale per garantire la stabilità del sistema è rappresentato dalle modalità di valutazione degli attivi ponderati a rischio, il denominatore dei coefficienti patrimoniali. All’interno dell’Unione Europea vi è un’elevata dispersione del rapporto tra attività ponderate per il rischio e attività totali. Le differenze dipendono dalla composizione dei bilanci e dai profili di rischiosità; incide l’eterogeneità nelle pratiche di supervisione. Anche dopo le ultime convalide di modelli interni di misurazione dei rischi, per i primi cinque gruppi italiani il rapporto supera il 50 per cento, ben al di sopra della media europea. È necessario portare a compimento in tempi rapidi la peer review delle modalità di calcolo delle attività di rischio in corso nel Comitato di Basilea e a livello europeo.
La natura d’impresa degli intermediari finanziari non va messa in discussione: interventi pubblici che comprimono l’autonomia imprenditoriale delle banche e la concorrenza nei mercati hanno di regola comportato, anche nella storia italiana recente, elevati costi dell’intermediazione e diffuse distorsioni nell’allocazione delle risorse.
La recente istituzione di un Osservatorio sul credito può contribuire ad accrescere le informazioni sul finanziamento dell’economia. L’attività di questo istituto non deve creare le condizioni per interferenze esterne nelle valutazioni svolte dagli intermediari sul merito di credito della propria clientela.
(...) I controlli sugli intermediari finanziari non bancari si sono intensificati alla luce di un diffuso deterioramento della qualità del credito. Anche in questo settore, riserviamo particolare attenzione alla correttezza formale e sostanziale dei rapporti con la clientela (...).
L’Europa e l’Italia
Se si guardasse all’area dell’euro come a un’entità unitaria, nella forma ad esempio di uno Stato federale, non emergerebbero allarmi sulla tenuta del suo impianto monetario e finanziario, pur nella preoccupazione per le ripercussioni della crisi su ciclo economico, intermediari e mercati. Ma una unione politica in Europa ancora non c’è. Questo rende alla lunga l’unione monetaria più difficile da sostenere; sono necessari passi avanti concreti nella costruzione europea; va definito un percorso che abbia nell’unione politica il suo traguardo finale, scandendone le singole tappe. Ricordando le parole di Tommaso Padoa-Schioppa alla vigilia del changeover dalla lira all’euro: «L’insidia è di credere che l’euro sia l’ultimo passo, che l’Europa unita sia ormai cosa fatta. Chi più fortemente volle la moneta unica, la volle perché aiutasse a compiere altri passi, non perché fosse l’ultimo». Si devono rammentare le ragioni originarie fondamentali del progetto europeo, anche in sfere che trascendono l’agire economico.
(...) Nell’ultimo triennio, sotto la spinta delle tensioni sui mercati, sono stati fatti passi importanti per rafforzare la governance dell’area. Ma i processi decisionali, condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell’unanimità, sono ancora lenti e farraginosi. Serve un cambio di passo.
Nell’immediato, servono soprattutto manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica: se i governi, le autorità europee, la stessa Banca centrale europea valutano positivamente i progressi compiuti dai paesi in difficoltà nel risanamento finanziario e nelle riforme strutturali, ne deve seguire un loro impegno attivo a orientare in tal senso anche le valutazioni dei mercati. I differenziali attuali di rendimento dei titoli pubblici non sembrano tener conto di quanto è stato fatto: alimentano ulteriori squilibri, determinando una redistribuzione di risorse dai Paesi in difficoltà a quelli percepiti più solidi; impediscono il corretto operare della politica monetaria unica; sono fonte di rischio per la stabilità finanziaria, un ostacolo alla crescita.
Vanno resi più efficaci sul piano operativo gli strumenti di assistenza finanziaria agli Stati in difficoltà. Va prevista la possibilità di agire tempestivamente sui mercati dei titoli e di effettuare interventi diretti a favore degli intermediari, con procedure più flessibili, meno penalizzanti per i paesi beneficiari che rispettino le regole dell’Unione. Deve essere possibile utilizzare in modo incisivo le risorse, significative, già stanziate dagli Stati membri. È nell’interesse di tutti.
Anche sulla crescita economica l’Europa stenta. Sebbene le leve per rianimarla siano soprattutto in mano alle autorità nazionali, l’avvio immediato di progetti comuni e cofinanziati di investimento, con particolare attenzione ai Paesi più deboli, può costituire un importante segnale per i cittadini e per gli investitori che oggi guardano soprattutto alle scarse prospettive di sviluppo di singoli Stati o regioni.
La disponibilità di maggiori risorse comuni e anche l’istituzione da più parti proposta di un fondo ove trasferire i debiti sovrani che eccedano una soglia uniforme, da redimere gradualmente in tempi e modi ben definiti, sostanziano una forma di unione fiscale che non può essere disgiunta da regole cogenti, da poteri di controllo e intervento.
L’azzardo morale di chi fida sull’aiuto altrui per perseverare nelle cattive politiche del passato va evitato con una forte pressione politica e normativa, esigendo il rispetto degli impegni concordati, sulla base di programmi ambiziosi ma allo stesso tempo realistici. Sta ai Paesi in difficoltà attuare quelle riforme che permettano di ricuperare competitività e ridurre gli squilibri accumulati, coi tempi e la gradualità appropriati, ma senza sconti di ambizione.
Sta ai Paesi più forti aiutare questo processo non ostacolando il riequilibrio, realizzando progressi strutturali che favoriscano la domanda.
Deve essere contrastata la pericolosa tendenza alla rinazionalizzazione dei sistemi finanziari. In primo luogo, devono essere a tutti i costi evitate misure che, prese in buona fede ma con un’ottica puramente nazionale, impediscano di fatto l’operare del mercato unico e della politica monetaria comune. Va accelerato il passaggio verso un sistema uniforme di regole e sorveglianza sul settore finanziario, in particolare nell’area dell’euro. Di pari passo occorre considerare l’istituzione di meccanismi di garanzia e assicurazione comuni, in grado di rasserenare i risparmiatori, prevenire il panico e fughe destabilizzanti di capitali. Progressi rapidi nella costituzione di un fondo europeo per la risoluzione delle crisi bancarie contribuirebbero a ridurre l’incertezza sui mercati.
L’Italia ha importanti compiti da svolgere. Li ha già iniziati, su tre fronti diversi ma interconnessi: un settore pubblico che tenga i conti in ordine, non sprechi, agevoli l’economia; un sistema bancario solido ed efficiente; un sistema produttivo che sappia e possa innovare, competere e crescere.
La critica alle banche di essere disattente alle esigenze dell’economia non è corretta: sono esposte in misura rilevante nei confronti delle famiglie e delle imprese meritevoli di credito, anche se in difficoltà; possono continuare a sostenerle. Tuttavia, al di là del breve termine, la tensione tra il livello degli impieghi e la stabilità della provvista finirà inevitabilmente per riflettersi sull’attività di intermediazione. La capacità di offerta dei sistemi bancari va ripensata. Allo stesso tempo, la revisione della normativa sul capitale, l’azione di supervisione e le pratiche di mercato spingono le banche verso un più attento controllo dei rischi; impongono profitti più bassi ma più stabili di quelli del decennio precedente la crisi. Gli azionisti bancari devono esserne consapevoli.
Da tempo era chiara in Italia l’urgenza di due azioni di politica economica obbligate e interrelate: mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile e credibile; rianimare la capacità di crescita dell’economia attraverso incisive riforme strutturali. Il governo le ha intraprese entrambe.
La prima azione è stata rapida, decisiva: secondo le previsioni correnti il disavanzo pubblico sarà quest’anno ben al di sotto del limite del 3 per cento; l’anno prossimo sarà vicino al pareggio strutturale e il debito pubblico inizierà a scendere in rapporto al Pil, grazie anche al completamento della riforma previdenziale; il saldo primario è in forte e crescente avanzo; la spesa corrente diversa dagli interessi diminuisce in termini reali da due anni.
Si è però pagato il prezzo di un innalzamento della pressione fiscale a livelli ormai non compatibili con una crescita sostenuta. L’inasprimento non può che essere temporaneo. La sfida si sposta: occorre trovare, oltre a più ampi recuperi di evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale. Se accuratamente identificati e ispirati a criteri di equità, i tagli non comprometteranno la crescita; potranno concorrere a stimolarla se saranno volti a rimuovere inefficienze dell’azione pubblica, semplificare i processi decisionali, contenere gli oneri amministrativi. I margini disponibili per ridurre il debito anche con la dismissione di attività in mano pubblica vanno utilizzati pienamente.
La seconda azione, quella delle riforme strutturali, ha incontrato maggiori e più diffuse resistenze, ma ha comunque già conseguito importanti risultati; ha aperto un vasto cantiere, i cui lavori vanno proseguiti, con energia accresciuta e visione ampia, dall’istruzione alla giustizia, alla sanità. L’impegno è a sfoltire e razionalizzare le norme, a non far salire la spesa pubblica complessiva; le priorità di spesa possono però essere riviste a parità di saldo di bilancio, ad esempio a favore dell’istruzione e della ricerca. Uno sforzo finanziario aggiuntivo il Paese può chiederlo ai suoi imprenditori, perché rafforzino il capitale delle loro imprese, nel momento in cui viene loro assicurata una semplificazione dell’ambiente normativo e amministrativo in cui operano: ne beneficeranno gli investimenti, si irrobustirà la struttura produttiva, migliorerà il rapporto con le banche.
L’azione di politica economica può anche svolgersi in sequenza, un dossier alla volta, ma è bene che siano comunicati e ribaditi con nettezza il disegno complessivo e la posta in gioco. Tirarci fuori dallo stretto passaggio che attraversiamo impone costi a tutti. Sono costi sopportabili se ripartiti equamente e con una meta chiara. Il percorso non sarà breve.
La società italiana non può non confrontarsi con un mondo cambiato, che non concede rendite di posizione. Al tempo stesso, la politica deve assicurare la prospettiva di un rinnovamento profondo che coltivi la speranza, vada incontro alle aspirazioni delle generazioni più giovani.