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 2012  giugno 01 Venerdì calendario

Odora di sangue più che di nebbie il porto di Mac Orlan - Della rimpianta Belle Epoque non si contano le brutture

Odora di sangue più che di nebbie il porto di Mac Orlan - Della rimpianta Belle Epoque non si contano le brutture. Finisce che da rimpiangere resta ben poco. Nell’Europa di allora, pacifica e pacificata, si aggirano popoli affamati. Si salva l’arte, ma lo stomaco geme e va in rovina. La guerra non era scongiurata per niente: quella detta «la Grande» comincia nel 1914 e ne avremo fino al 1945, ma un finire storico non è che una temporanea chiusura del tempio di Giano. Il romanzo, tra metà XIX e metà XX è un testimone formidabile di mal di vivere per causa di fame. Ma poi, quando c’era da togliersi la fame, tutta l’alimentazione era necrofagica. Cibarsi di animali morti macellati era la regola. Non so se questo sia dovuto a una trascuranza dei narratori: non volevano far sapere che i loro famelici personaggi mangiavano anche cavoli e insalate? Fin dall’inizio, Il Porto delle Nebbie , di Pierre Mac Orlan (nome che vi prego di non pronunciare Mec Òrlan perché l’autore appartiene alla letteratura francese), mette avanti così la fame, che durerà per oltre cento pagine, del suo maleamato personaggio Jean Rabe: «La sua immaginazione, ossessionata dalla fame, non faceva che amplificare il piacere di mangiare una bistecca. Erano esattamente sette settimane che Jean Rabe non mangiava carne al sangue. Si nutriva, quando poteva, di patate fritte e di salsicce cotte nel grasso bollente». (Questa Carta è probabilmente autobiografica). Il protagonista di Fame, di Knut Hamsun, appena un giornale gli paga un articolo, si precipita a comandare una bistecca al sangue. Il più incisivo personaggio di quella triste Montmartre macorlaniana è un macellaio assassino, Isabel detto Zabel, che dopo aver ucciso e gentilmente decapitato un vicino per rubargli diecimila franchi, finirà ghigliottinato. Dopo il delitto, Zabel mangia mezza scatola di sardine e per il giorno dopo si ripromette portarsi a casa, dai mattatoi della Villette dove ammazza e ammazza, un buon boccone di carne fresca: una autentica dieta d’assassino, ma le vittime non mangiano meglio. Zabel fa una lunga riflessione sul proprio mestiere, intinto anche d’arte, di musica religiosa specialmente (particolare che servirà a Marcel Carné per una straordinaria sequenza del suo Quai des Brumes del 1938) che è per lo scrittore un momento di eccelsa bravura stilistica. Stralcio (dalle pp. 62-63): «Il sangue è un eccellente rivelatore della forza occulta che influenza il cervello degli idioti... Ogni venerdì ammazzo due buoi, due vitelli e tre montoni. Conosco il valore del sangue, i suoi riflessi, il suo odore, e le idee che si scontrano le une contro le altre fra le quattro mura del mattatoio. È il retrobottega del pensiero umano. Possediamo tutti, nel fondo oscuro del nostro pensiero, un mattatoio maleodorante». ( Un abattoir qui pue : la traduzione è di Cristina Földes; in italiano puzza è inusabile, perfino nel parlato). Continua ancora l’autoritratto di Zabel, che ha appena commesso un crimine, e seppellito la testa della vittima nella neve: «Qualche volta, ma raramente, il mattatoio ha un buon odore, perché tutti possediamo, lo sapete quanto me, un angolino in cui conservare ciò che resta in noi di un po’ pulito... Mi piace mettere le mani nella biancheria pulita e nei fiori secchi che profumano di camomilla. Quando torno dal mattatoio ho bisogno di sentire la freschezza nelle mani». Mi domando se non sia, tanto amore del bello e del pulito, un tratto di psicologia criminale, comune a più d’un facente scorrere il sangue, esemplificabile in massacro russo di Katyn, rappresaglia delle Ardeatine, matricidio di Novi Ligure, stragi di via San Gregorio, di Erba, della family di Charles Manson, del mostro di Firenze... oppure caratteristico del personaggio, che molto probabilmente Pierre avrà incontrato, tra Lapin Agile e la rue Saint Vincent, dove abitava all’acme del mal vivere di Belle Epoque. Ma io non sono che un criminologo dilettante. Certo, dal romanzo (che è di parecchi anni dopo, del 1927, e ha lo smodato privilegio di avere i miei stessi anni) non emanano odori di acqua e sapone né di freschezza relativa alle mani di tutte quelle ombre evocate. Ma per pensare più e meglio Parigi, prima e dopo, che fioriva di poesia, di musica, di vette dell’arte e del pensiero, bisogna vederla come un concentrato di sifilide e di collari di Venere, di delitti in ogni circondario, di bacilli di Koch, di bestiale antidreyfusismo-antisemitismo mai estinti, di tutto quanto renda dubbia ogni «freschezza nelle mani», fino a culminare nelle sfilate dei carri funebri per l’epidemia di spagnola, dopo la disperata vittoria del novembre 1918. Che cosa furono le trincee, se non mattatoi maleodoranti, dappertutto? Nella lingua l’espressione envoyer des troupes à l’abattoir (l’abbiamo anche in italiano) viene da quella voragine di sangue versato, che si riflette su tutto il secolo e condiziona il resto dei tempi. Oggi, dov’erano i mattatoi della Villette, è sorta una grandiosa Città delle Scienze, che attira le moltitudini turistiche, ma il luogo è irredimito e irredimibile, perché sotto scorre l’Ourq, dove finiva il sangue di milioni di animali macellati, e chi voglia davvero provare «freschezza nelle mani» non dovrebbe inoltrarsi tra le innumerevoli esibizioni tecnologiche in mostra senza aver mormorato una preghiera per tutte quelle perdute vite anonime sacrificate. L’edizione italiana Adelphi ha una stupenda veste, ma il contenuto del libro, pur nello straniamento prodotto dal Fantastico Sociale di Mac Orlan (ne parlo nella prefazione, da associare alla postfazione interessantissima di Francis Lacassin) è qua e là maleodorante. Non è lettura per ultrasensibili. Neppure il film era fatto per deliziare, ma segnò la grandezza creatrice di Carné. Le nazioni europee erano stanche, a leccarsi ancora le conseguenze terribili della Grande Guerra: Quai des Brumes arrivava tempestivamente non tanto per fomentare la pace, ma per denunciare il vuoto che soggiace ad ogni genere di combattimento. Il cast era formidabile, fatto per persuadere con più forza la nullità di ogni sforzo, e le censure nazionali fiutarono il pericolo di contagio. C’erano uno Jean Gabin d’apogeo, una Michèle Morgan inobliabile, un Michel Simon terrificante nel ruolo di Zabel, Pierre Brasseur, Le Vigan... La sceneggiatura di Carné-Prévert diede una dignità a figure eticamente ripugnanti, di umanità ventrale, che uccidono e sono uccise quasi sempre senza un perché, e vagano per cinque o sei strade di Montmartre come nomadi spettrali, nel soffio di un tragico non catartico. Nelly, nel romanzo, è una prostituta d’infimo rango, che puoi avere per una sardina, e ha per Rabe, soltanto, che non l’ama, un barlume di affetto che ricorderà come amore. E di colpo fa una strepitosa carriera di cortigiana e diventa «la grande Nelly», che commissionerà l’assassinio, per sbarazzarsene, di un protettore incomodo, facendo soldi a palate. Michèle Morgan, invece, ne fa una autentica amante, e Jean Gabin, per quanto disertore della Coloniale (viene dal Tonkino), ha la bontà, la tenerezza e l’intrepidezza dell’eroe, che per lei affronta un pericoloso malvivente e la sua banda, fino a salvarla dallo stupro del macellaio mentre la colonna sonora diffonde dal grammofono un corale di Bach che allontana qualsiasi traccia e odore di sangue. Nonostante la sua storia fosse stata nel film rivoltata visceralmente (l’azione stessa portata a Le Havre, in un porto e angiporto vero) Pierre Mac Orlan fu estremamente felice di quella rinnovata vita, che divenne una leggenda del cinema mondiale. Io direi al lettore italiano di vedere il film (purtroppo ormai nei modi impoveriti che sappiamo) dopo aver letto il tormentoso romanzo, e poi di ascoltare Bach senza sfondo di macelleria e di sognate bistecche al sangue. Le vie della catarsi sono senza fine.