GIANNI RIOTTA, La Stampa 1/6/2012, 1 giugno 2012
Sikh, romeni e musulmani L’immagine simbolo del sisma - Ogni terremoto ha una sua immagine, che rimane per sempre, nel ricordo e nella storia
Sikh, romeni e musulmani L’immagine simbolo del sisma - Ogni terremoto ha una sua immagine, che rimane per sempre, nel ricordo e nella storia. Di Messina, 1908, stima delle vittime tra 90 e 120.000 morti, abbiamo vecchie pellicole color seppia con i marinai russi della flotta del Mediterraneo, agli ordini dell’ammiraglio Livtinov, che con le corazzate Slava e Cesarevic e l’incrociatore Makarov portano i primi soccorsi. Del Belice, 1968, ricordiamo Cudduredda, la bambina di Gibellina che, estratta viva dalle macerie, muore in braccio a un vigile del fuoco piangente, il cronista Sergio Zavoli a due passi. L’Irpinia ci scuote con il grido di denuncia dei ritardi nei soccorsi del presidente Pertini, il Friuli per l’ordinata ripresa, l’Aquila con il frontone del Palazzo del Governo demolito, metafora dell’Italia smarrita. Se dovessi scegliere un’immagine tra quelle che ho visto in giro per San Felice, Mirandola, Cavezzo, Medolla, nella Bassa Modenese, penserei ai sikh, gli operai venuti dal Punjab a lavorare da noi, seguaci della religione fondata nel XV secolo dal Guru Nanak Dev Ji, con i loro turbanti, persuasi che la fede in un dio supremo, e una vita laboriosa e onesta, siano destino dei giusti. Hanno pregato insieme per un loro compagno caduto in un capannone. O i ragazzi rumeni che chiedono alle telecamere: «Inquadrateci, poi diteci quando andiamo in onda e così mamma vede che siamo vivi». O i maghrebini: saldatori, vetrai, manovali che, incrociando le schede telefoniche, provano a rassicurare casa. Meriterebbero di andare nell’album di una tragedia tutti i 17 morti, i 350 feriti, i 15.000 sfollati che il Fato ha tolto a una routine bonaria di dovere, famiglia, benessere. I tecnici del business biomedicale, il secondo del pianeta, che al telefono raggiungono i clienti in tutto il mondo, valvole cardiache, strumenti per la dialisi, rassicurando che presto la produzione ripartirà. Sanno che milioni di malati, in cinque continenti, hanno bisogno dei loro prodotti, sanno che in sei mesi possono perdere il mercato a vantaggio dei concorrenti, sanno che tantissimi in Italia vivono dei frutti della valuta che importano. Chiamano Los Angeles, Pechino, Melbourne dalla tenda in via Libertà di Cavezzo, dal campo di calcio di Mirandola, dalla roulotte: «Tutto ok, gli ordini partono prestissimo, davvero tutto a posto qui, business as usual…» e controllano i figli sul prato. Ho visto gli anziani, con la cannula dell’ossigeno, in cerca di farmaci mentre il dottor Borelli di Medolla, farfallino al collo, si sgola per far arrivare una farmacia mobile. Chi ha bisogno di un catetere, chi soffre il caldo della tenda, chi deve andare in ospedale per le piaghe. Nessuno si lagna, generazione Giobbe. Gente come il giornalista Carlo Marulli, tra i fondatori del quotidiano «Il Foglio» a Bologna nel 1975, con gli intellettuali del Mulino, Pedrazzi e Gorrieri, poi alle riviste della satira, Il Male, Cuore, e ora in campagna nella Bassa, che dai tweet @carlomarulli illustrati con irriverenza dai baffi di Stalin, sfollato con una figlia piccola, nota come sembrino «allegri i parchi pieni di tende», con gli anziani a chiacchierare e i bambini, felici di non avere scuola, a contendersi le altalene. Un’illusione di festa, certo, una sagra paesana che la dignità emiliana tiene moltissimo a rappresentare davanti ai forestieri, ma la tragedia incombe nella domanda che è diventata saluto: «La casa è su?». «La casa è su» vuol dire la vita riprenderà presto, «la casa non è su» allunga la precarietà. La comunità tiene insieme tutti: lacrime, sorrisi, pacche sulla schiena. Forse la crepa più profonda, su cui noi dinosauri dell’informazione e pronipoti del web dovremmo insieme riflettere, con umiltà, è quella che divide la realtà in Emilia dalla sua rappresentazione nei media. Parata sì, parata no del 2 Giugno sui siti: in Emilia nessuno ne parla. Un pensionato mi ha detto: «Senta, al massimo, visto che non vogliono a Roma le Frecce tricolori che a me piacciono tanto, perché non le mandano qui a sorvolare l’Emilia, a salutarci, il 2 giugno? Mi promette di farlo sapere al presidente Napolitano?». Mantenuto, signor Guido. Capannoni sicuri o no: in Emilia tutti son certi che ora non son più sicuri, ma, come dicono al Genio Civile, «prima li testavamo contro il vento, il solo rischio, erano a norma delle leggi che esistevano, chiaro adesso non vanno più bene». Potete eccepire a questa logica? Non nella Bassa. Forse la foto che simboleggia insieme la Bassa, l’Emilia e l’Italia 2012 è quella della Rocca Estense a San Felice sul Panaro. Capolavoro dell’ingegnere militare Bartolino da Novara, così d’avanguardia che nel 1404 sa trasformare in arma strategica perfino gli argini del Po. Tre crepe, una da destra, una da sinistra, la terza dal basso, la lacerano senza rimedio. Ogni scossa la fa tremare. Da lontano i curiosi si chiedono come stia in piedi. «Sembra il vaso dei fumetti di Tom e Jerry - dicono tutto crepato, appena lo tocchi va in pezzi». Invece, finora, resiste, simbolo delle coscienze che la circondano. Potrebbe essere domani, 2 giugno, simbolo della Repubblica italiana, ricca di genio, antica di storia, maestosa per bellezza, spaccata dalle crepe della corruzione, dell’egoismo, dell’ingiustizia, scossa dalla rissa politica, eppure in piedi, bellissima.