Sandro Magister, l’Espresso 07/06/2012, 7 giugno 2012
GUERRA SANTA
C’è del metodo in questa follia. Da quando il maggiordomo di Sua Santità è finito in prigione, lo spettacolo è improvvisamente cambiato. Al centro della scena non c’è più la disputa sul contenuto delle carte trafugate. Ci sono i ladri. Intenti a tramare all’ombra di un vegliardo vestito di bianco. "Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non una grande banda di ladri?". La frase è di sant’Agostino, ma è stato Benedetto XVI a citarla nella sua prima enciclica, la "Deus caritas est" del 2005. Non sapeva che sette anni dopo sarebbe diventata questa l’immagine pubblica del Vaticano. Una cittadella devastata dalle ruberie, senza più un angolo inviolato, nemmeno quel "sancta sanctorum" che dovrebbe essere lo scrittoio privato del papa.
I trafugatori veri o presunti di carte vaticane dichiarano in coro ai giornali, sotto anonimato, che hanno agito così proprio per amore del papa, per aiutarlo a far pulizia. Ed è vero che nessuna delle malefatte messe a nudo nei documenti coinvolge la sua persona. Ma è ancor più vero che tutto ricade addosso a lui, inesorabilmente. Il papa teologo, delle grandi omelie, del libro su Gesù, è lo stesso che regna su una curia alla deriva, sentina di "egoismo, violenza, inimicizia, discordia, gelosia", di tutti i vizi da lui stigmatizzati nell’omelia della scorsa domenica di Pentecoste e in tante altre sue precedenti prediche inutili. È lo stesso papa che volle come segretario di Stato il cardinale Tarcisio Bertone e continua a tenerlo al suo posto nonostante ne verifichi l’inadeguatezza ogni giorno di più.
In Vaticano, oggi, il confine tra gli atti illeciti e quelli di puro malgoverno si è fatto molto sottile, quasi nullo. La prova clamorosa è di questi giorni. Il maggiordomo pontificio Paolo Gabriele era appena stato messo agli arresti per furto di documenti nell’appartamento papale, quando dentro e attorno all’Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana, si è consumato uno scontro di inaudita violenza, registrato con altrettanta brutalità prima in un comunicato ufficiale della stessa Santa Sede e poi in un documento interno deliberatamente fatto filtrare alla stampa, affinché il mondo sapesse che il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, era stato sfiduciato da tutti gli altri membri del consiglio di sovrintendenza della banca. Ed era stato sfiduciato, si è letto, per manifesta incapacità a svolgere il suo ruolo, per frequente abbandono del posto di lavoro, per ignoranza colpevole dei suoi doveri, per comportamento personale "sempre più bizzarro", naturalmente anche per sospetta diffusione di documenti riservati, insomma, per un totale di nove capi di accusa sul filo dell’insulto, messi ai voti e approvati uno per uno dal board di rinomati consiglieri: il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz della Deutsche Bank; l’americano Carl Albert Anderson dei Cavalieri di Colombo; lo spagnolo Manuel Soto Serrano del Banco di Santander e l’italiano Antonio Maria Marocco, notaio a Torino e ultimo cooptato. I primi tre, nel 2009, avevano dato un convinto sostegno alla nomina di Gotti Tedeschi a presidente dello Ior. E il sostegno l’avevano mantenuto fino a poco tempo fa, quando erano già aspri i contrasti fra Gotti Tedeschi e il direttore generale della banca, Paolo Cipriani, uomo forte della vecchia guardia. Da sei mesi i due non si parlano più.
Il comunicato con l’annuncio della sfiducia a Gotti Tedeschi terminava dicendo che il giorno dopo, venerdì 25 maggio, si sarebbe riunita la commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior, la sola che può rendere esecutiva la mozione dei consiglieri. La riunione in effetti c’è stata, ma senza alcun comunicato finale. Formalmente Gotti Tedeschi non è stato ancora destituito, e sta affilando le armi per dire le sue ragioni. Ma intanto il conflitto si è spostato dove più conta, dentro la commissione dei cardinali. Dove c’è Bertone che ne è il presidente, ma c’è Attilio Nicora che non è quasi mai andato d’accordo con lui, e c’è Jean-Louis Tauran che da ex ministro degli Esteri della Santa Sede non ha mai digerito l’affidamento della segreteria di Stato a un non esperto in diplomazia come appunto Bertone. Gli altri due cardinali della commissione vivono l’uno in India, Telesphore Placidus Toppo, e l’altro in Brasile, Odilo Pedro Scherer. Assenti giustificati.
Tra Bertone e Nicora l’ultimo terreno di scontro è stata la normativa introdotta nella Città del Vaticano per l’ammissione alla "white list" internazionale degli Stati con i più alti standard di contrasto al riciclaggio di denari sporchi (vedere articolo a pag. 42). La legge, la 127 nella numerazione vaticana, entrò in vigore il 1 aprile 2011, e contestualmente Benedetto XVI, con un motu proprio, dotò il Vaticano di un’Autorità di Informazione Finanziaria, presieduta da Nicora, con poteri di controllo assoluti su ogni movimento di denari compiuto da qualsiasi ufficio interno o collegato con la Santa Sede, Ior e segreteria di Stato compresi. Ma appena questa normativa fu varata, subito partì la controffensiva. Il management dello Ior, la segreteria di Stato e il governatorato obiettarono che con essa il Vaticano perdeva la sua sovranità e diventava una "enclave" di poteri esterni bancari, politici e giudiziari. Affidarono a un avvocato americano di loro fiducia, Jeffrey Lena, la riscrittura della legge, e l’inverno scorso, per decreto, ne fecero entrare in vigore una seconda stesura, che limitava i poteri ispettivi dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Nicora e Gotti Tedeschi giudicano la nuova legge 127 "un passo indietro" che costerà alla Santa Sede la non ammissione alla "white list".
Un primo responso delle autorità internazionali sulla normativa antiriciclaggio in vigore in Vaticano è atteso per luglio. E si vedrà a chi darà ragione. Intanto però in Vaticano è guerra. Al cardinale Bertone si rinfaccia anche la campagna da lui condotta nel 2011 per l’acquisto, con i denari dello Ior, del San Raffaele, l’ospedale d’avanguardia creato a Milano da un discusso sacerdote, don Luigi Verzé, precipitato in una voragine di debiti. All’inizio Gotti Tedeschi appoggiò l’offerta d’acquisto, ma molto presto passò tra gli oppositori, tra i quali c’erano i cardinali Nicora e Angelo Scola, neoarcivescovo di Milano, e lo stesso Benedetto XVI, contrarissimi all’acquisto non solo per il coinvolgimento diretto della Santa Sede in un affare mondano troppo lontano dai suoi fini spirituali ma anche perché nel San Raffaele e nell’annessa università si praticano attività e si impartiscono insegnamenti in plateale contrasto con la dottrina cattolica, e non possono certo essere sostituiti in blocco medici, scienziati e professori.
Alla fine Bertone si è arreso e il San Raffaele è stato acquistato da un imprenditore italiano di prima grandezza nel settore della sanità, Giuseppe Rotelli. Ma per l’esuberante segretario di Stato, il sogno di creare un polo ospedaliero cattolico sotto il controllo e la guida del Vaticano è duro a morire. Come prova l’altra sua impresa fallita: la conquista del Gemelli, il policlinico romano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore divenuto famoso nel mondo per aver ospitato e curato Giovanni Paolo II.
Per la conquista del Gemelli c’era un passaggio obbligato: il controllo dell’istituto fondatore e promotore dell’Università Cattolica, il Toniolo, a sua volta controllato dalla Conferenza episcopale italiana e tradizionalmente presieduto dall’arcivescovo di Milano. Il Toniolo era da anni l’obiettivo di un arrembaggio, che mirava ad estromettere con ogni mezzo i suoi esponenti più legati al cardinale che fu presidente della Cei fino al 2007, Camillo Ruini. L’attacco che nel 2009 colpì Dino Boffo, membro del Toniolo e direttore del quotidiano della Cei "Avvenire", con accuse di omosessualità poi riconosciute false dallo stesso giornale che le aveva pubblicate, fu il momento più feroce di questa lotta. Bertone non lo difese. Peggio, il direttore del giornale edito dalla segreteria di Stato vaticana, "L’Osservatore Romano", Giovanni Maria Vian, investì di critiche Boffo, in una spietata intervista al "Corriere della Sera", proprio nel momento cruciale dell’attacco contro di lui. Non ci sarebbe stato bisogno, oggi, di leggere le accorate lettere scritte da Boffo in quel frangente, comparse tra le carte trafugate al papa. La dinamica sostanziale dei fatti era già allora sotto gli occhi di tutti.
L’operazione San Raffaele, l’attacco a Boffo, la tentata conquista del Gemelli, la pretesa di Bertone di scavalcare la Cei nel ruolo di guida della Chiesa in Italia. Tutto si tiene. Nel 2010 l’incontenibile segretario di Stato, vantando un presunto mandato di Benedetto XVI, addirittura intimò per iscritto al cardinale Dionigi Tettamanzi di lasciare la presidenza del Toniolo. L’arcivescovo di Milano si inalberò. E Benedetto XVI diede ragione al secondo, dopo aver chiamato davanti a lui entrambi i contendenti. Anche questo carteggio è stato trafugato e reso pubblico. Ma anche qui la storia era già nota. Oggi la presidenza del Toniolo è pacificamente passata al successore di Tettamanzi sulla cattedra di Milano, il cardinale Scola.
In una lettera pubblica ai vescovi di tutto il mondo, nel 2009, Benedetto XVI ammonì: "Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri". Aveva ripreso queste parole da san Paolo. Perché anche nella cristianità delle origini c’erano contrasti feroci. E anche con Gesù, tra gli apostoli, c’era chi si azzuffava per posti di potere e c’era chi protestava contro lo sperpero dell’unguento prezioso versato sui piedi del Maestro, invece che "venderlo e dare il ricavato ai poveri". Benedetto XVI ha la finezza e l’umiltà di non identificare mai se stesso con Gesù. Ma di associarsi a lui sì. Lo scorso 21 maggio, al brindisi di un pranzo con i cardinali, ha concluso fiducioso: "Siamo nella squadra del Signore, quindi nella squadra vittoriosa". Ma che fatica, quando tutto gli gioca contro, anche "mascherato col bene". Subito prima, ai cardinali aveva citato sant’Agostino: "Tutta la storia è una lotta tra due amori: amore di se stesso fino al disprezzo di Dio; amore di Dio fino al disprezzo di sé". E aveva aggiunto: "Siamo in questa lotta e in essa è molto importante avere degli amici. Per quanto mi riguarda, io sono circondato dagli amici del collegio cardinalizio, mi sento sicuro nella loro compagnia". Anche padre Federico Lombardi ha garantito, il 29 maggio: "Non c’è nessun cardinale tra gli indagati o i sospettati". Ma senza scomodare i gendarmi, non tutti i cardinali "amici" giocano in squadra come il papa si aspetta.