Tiziana Sabbadini, Vanity Fair n. 22 6/6/2012, 6 giugno 2012
All’ultimo piano di un palazzo in zona Colosseo, a Roma, ci sono due finestre: le sole in tutta la strada a esporre fiori
All’ultimo piano di un palazzo in zona Colosseo, a Roma, ci sono due finestre: le sole in tutta la strada a esporre fiori. Gerani rossi. L’appartamento è quello di Pierluigi Diaco, dove convivono, con gusto, quadri e mobili di epoche e stili diversi. Una porta a sinistra lascia vedere un grande letto allegramente sfatto. Nel salone, c’è un cartoncino sul pianoforte con scritto «Amore ti amo», e sul tavolo lunghissimo un vaso di peonie rosa. Accanto c’è seduto Diaco, che si può vedere ospite fisso a Domenica in, ascoltare su radio Rtl 102.5 in Onorevole dj, leggere sul Foglio nella rubrica «Il Piccolo Principe». Spazi che il giornalista, ultimamente, usa sempre più spesso per parlare di «trasformazioni», di «deragliamenti» dell’amore e del sesso. Nel corso delle telefonate che hanno portato a questa intervista, ha messo le mani avanti, ha detto di non voler fare come Cecchi Paone, perché «non sono il paladino dei diritti di nessuno», di non voler usare espressioni tipo «gay», «etero» o «coming out», e di non voler rispondere a domande dirette tipo «ma lei adesso con chi sta?», nel senso: con un uomo o con una donna? Nella chiacchierata che state per leggere, dove ha raccontato il suo personale «deragliamento», non userà neppure una volta nelle risposte la parola omosessuale. Ma alla fine, come dirà lui, «forse sono stato più chiaro così». Sul Foglio ha scritto di Tom Gabel, leader del gruppo punk Against Me!: sta per diventare donna e lo confessa alla moglie. «Mi ha colpito perché, in questa fase di un cambiamento che è stato sicuramente doloroso, ha detto: “Spero che le persone siano gentili con me”. Ecco: mi interessano le trasformazioni delle persone e mi piace che qualcuno cerchi la gentilezza, non i diritti». Perché non i diritti? «Ogni volta che parliamo di trasformazioni – che si tratti di sessualità, di politica o di religione – c’è sempre questa cosa dei diritti che pone la questione subito sul piano giuridico delle regole. Ma le regole ti costringono a giudicare la trasformazione, a stabilire se si tratti di una scelta etica oppure no. Ti pongono forzatamente di qua o di là, giusto o sbagliato». E invece? «Invece l’essere umano è fatto di ingredienti molto più sofisticati, su cui nessuno può legiferare». Le definizioni «omosessuale», «eterosessuale», «bisessuale» non le dicono nulla? «Non riesco a pensare che una persona possa essere la declinazione della propria sessualità: la dimensione erotica è molto più ricca, ci sono piaceri che sconfinano da una categoria all’altra. Io sono tante cose insieme, e sono stato tante cose». Continuo a non capire perché gli omosessuali, come i transgender, dovrebbero rinunciare a chiedere leggi che li tutelino. Come la legge sui matrimoni gay. «Basterebbe intervenire sul Codice civile, dove si dovrebbe parlare di persone e basta. Una legge specifica sui matrimoni sarebbe un errore di discriminazione, perché i diritti appartengono alle persone, non ai generi». Ha mai affrontato, in famiglia, questo tema dei diritti? «La mia generazione, quando si lascia andare a esperienze meno “regolari”, non riesce neanche a parlarne ai propri padri, madri, nonni e zii: come si può pretendere allora che partecipi a una battaglia per i diritti?». Lei come intende parlarne? «Voglio spiegare come sono arrivato qui. Raccontare il mio amore. E pretendere rispetto». Come è arrivato qui? «Leggendo. La morte della bellezza di Patroni Griffi mi dà la pelle d’oca. Poi Tondelli, Pasolini, Saba...». Autori omosessuali. E il romanzo di Patroni Griffi si concentra sull’attrazione fisica e sentimentale tra due ragazzi. «Però leggo anche il Vangelo. Sono cristiano, e la nostra fede è basata sul senso del peccato, ma siamo anche l’unica religione confessionale: dove c’è il peccato c’è il perdono. Ed è bellissimo». Quali sono i suoi peccati? «In tutto ciò che chiamo peccato ci sono le cose che mi piacciono veramente: quello che mi dà piacere, godimento. Parlo di amore, e non solo». Il suo amore chi è? «La mia vita sentimentale si basa su due impulsi fondamentali: la ricerca del padre, che ho perso a cinque anni, e la paura dell’abbandono. Per me, la ricerca del padre è la ricerca dell’incontro. Nella mia storia ho avuto diversi padri. Penso a Sandro Curzi, che aveva accettato il mio invito a un’assemblea del liceo e che, da quel giorno, ha cercato di farmi lavorare dove lui lavorava. Penso a Giuliano Ferrara (direttore del Foglio, ndr): intelligente, profondo, con la sua ginnastica intellettuale – quella di un uomo solissimo – mi ha insegnato a cercare una verità non precostituita. Sono padri intellettuali». E l’amore vero e proprio? «Questo è un periodo importante, per me. Non sto attraversando solo un viaggio sentimentale, come in passato. Credo di aver trovato la mia casa, il mio luogo, il volto che mi commuove e mi emoziona. Non me lo sarei mai aspettato». Perché? «Sono un malinconico, e per questo ho sempre cercato di riempire le mie giornate con emozioni forti. Avevo bisogno delle tensioni e dei conflitti che il lavoro mi dava. Ora, queste emozioni me le dà una persona. E ho capito quante cose belle mi perdevo, prima, perché ero troppo concentrato sul successo professionale, che vivevo come riscatto». Ha paura di perdere questa nuova condizione? «Molta paura. Penso che ogni giorno sia l’ultimo. Non sono abituato». In questo momento, vede la possibilità di formare una famiglia? «La mia possibilità di famiglia è da sempre nella dimensione allargata. Attorno a questo tavolo, da anni, due volte a settimana, siedono i miei amici, quelli che ho fin dai tempi del liceo e quelli incontrati nel tempo. Ho bisogno di cucinare con loro, parlare con loro, divertirmi, raccontare, ascoltare. Quelli famosi – come Alex Britti, Paola Turci o Niccolò Fabi – siedono vicino ai miei amici di scuola. Le faccio vedere una cosa (cerca nell’iPhone il film di una cena: stesso tavolo, tanti fiori e piatti, gente che canta, ndr). Ecco, era la sera dopo Sanremo, qui c’è Pierdavide Carone che ho conosciuto al Festival, lì c’è Chiara, la mia compagna di liceo. Ho anche cantato La notte di Arisa». Sembra un film di Ozpetek. «Sono i miei compagni di viaggio, quelli che sanno tutto di me». Lei ha voluto parlare per simboli, e sono simboli omosessuali. Però non ha mai detto un nome, né ha descritto con parole precise il suo amore. «I non detti nascondono la verità, e la verità è rivelata soprattutto quando non è rivelata del tutto. Forse sono stato più chiaro così. Il vocabolario è sempre troppo povero, non crede?». Tiziana Sabbadini