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 2012  giugno 06 Mercoledì calendario

Cosa sia stato, non saprei. Forse il freddo, inusuale a maggio. O forse il vento, che piegava le cime dei pioppi e dei faggi ululando tra i calanchi

Cosa sia stato, non saprei. Forse il freddo, inusuale a maggio. O forse il vento, che piegava le cime dei pioppi e dei faggi ululando tra i calanchi. O sarà stata la solitudine dei vecchi, seduti sotto un ficus smilzo, a contemplare il silenzio. Si faceva largo un sentimento: la sensazione di non essere in Calabria, Italia, ma in un qualche luogo remoto dell’Afghanistan, sperduto nelle pieghe del tempo. Ad Asadabad, nel Kunar, vidi donne e uomini scappare via alla vista dei forestieri; erano in un campo a rubar legname. A Monasterace Superiore, in una delle tante valli della Locride, i vecchi mi videro e senza un cenno si dileguarono. Restò, seduta, una vecchina sola: ma non era a lei che prestavo attenzione. Davanti a me c’era uno sfregio eclatante, sfacciato. Nella piazza principale, su un magnifico convento del XII secolo, c’era un balcone abusivo, in cemento armato, di almeno tre metri. Sorpresa dall’audacia dello scempio, chiesi: ma chi l’ha costruito quel balcone? La vecchina, fino ad allora quieta, fu come morsa da un ragno: «Cachi tu?». Mi scusi? «Prima cacavamo a culo all’aria. La merda la buttavamo da’ finestra. Bagnu non ce n’era e l’avimu costruitu fuori». Quello è il bagno? «Sissignora». Ma è illegale, no? «Ma che illegale e illegale! ’a casa è a mia. Me la sono comprata. La baronessa vendette il palazzo a nu cuginu du mio americano e io me l’accattai assieme a due famiglie per duecentomila lire nel ’56. Che vuoi?». Me la fa vedere dentro? «No. Che vuoi? Vattene alla casa tua». Racconto l’episodio a Maria Lanzetta, la sindaca di Monasterace, e lei arrossisce, di vergogna: «Mi viene una grande rabbia, rabbia da troppo amore». Ho preso un aereo per Lamezia Terme e ho attraversato i boschi primordiali di Serra San Bruno per incontrare questa donna, in testa tante domande. Come si fa a fare l’amministratrice di un territorio in cui se provi a fare cose, e sei onesta, ti fanno la guerra? Nella provincia più violenta d’Italia e d’Europa, Reggio Calabria, 5 omicidi ogni 100 mila abitanti, cinque volte la media nazionale? In uno dei Comuni più poveri d’Italia, 3.500 abitanti, reddito medio 5.579 euro all’anno? «È difficile», dice Maria Lanzetta. È una signora leggiadra di 57 anni, in giacca e gonna e ballerine blu. Gira con la scorta. Per dire l’ambiente, prima di partire le avevo chiesto se ci fosse un albergo, in paese: «No, l’hanno bruciato». Negli ultimi mesi hanno fatto la stessa fine le auto di diverse persone. Al sindaco di un altro Comune hanno incendiato la stalla ed è morto ustionato il cavallo. Alla Lanzetta hanno prima dato fuoco alla farmacia e poi sparato alla macchina, tre colpi nella notte. «Si bruciano le cose, qua. È abitudine diffusa», mi dice un ufficiale dell’Arma. Un’altra abitudine diffusa è l’epico mutismo. L’albergo in fiamme? Un cortocircuito, un incidente, un puro caso, non gettate fango. A tutto questo Maria Lanzetta ha provato a dire basta. Si è dimessa. E se oggi è ancora qui che combatte, è perché sono venuti a chiederglielo da Roma. Si è fatto vivo il leader del suo partito, Pier Luigi Bersani; è arrivata la ministra degli Interni Annamaria Cancellieri. E allora è rimasta, «per il rispetto che porto allo Stato». Ma nel suo cuore, si capisce, è finita, lo vedi che è lì a contemplare l’enormità della sconfitta. «Ero una sognatrice. Avevo il mal d’Africa», ride. «Mi mancava il mare». Ciò che pensa e che dice è che non doveva tornare in Calabria, dopo la laurea a Bologna in Farmacia e due anni bellissimi a Milano, a far teatro alla Comuna Baires. Invece torna, nel 1987, con due bambini piccoli e l’illusione che sia possibile, a sud di Eboli, una vita ricca, normale. Torna e organizza festival del cinema, si appassiona al parco archeologico dell’antica Kaulonia, crede davvero che una civiltà possa risorgere dalle proprie ceneri. Nel 2006, il salto in politica con una lista civica: Indipendenza e Libertà. Stravince senza fare mai una promessa: «Odio le promesse, non le faccio mai. E sono in ansia perché ho detto a un vecchietto in carrozzella che gli avrei coperto la buca in mezzo alla strada e non sono ancora riuscita a farlo e mi sento male». La votano soprattutto le donne. Il suo primo atto è bizzarro: rinuncia allo stipendio. Il secondo, rivoluzionario. In un ambiente a lungo eden dei socialisti, degli appalti, dell’edilizia selvaggia, del lungomare con le villette dei notabili, al di fuori di ogni piano, dove la gente per cagare si costruisce il bagno deturpando un monastero medievale, Maria Lanzetta parla di regole. Combatte il malaffare. Cose basilari. Non esiste il protocollo degli uffici, e si mandano avanti solo le pratiche degli amici. Si prende il caffè a tutte le ore e i cittadini entrano e si siedono sulle sedie degli impiegati. Il Far West. E la convinzione che i conti si regolino con la forza, con il fuoco. Un signore che non vuole essere nominato, qui nessuno vuole essere nominato, mi dice che nella valle dello Stilaro le multe si fanno solo quando si è certi che dentro l’auto c’è un forestiero. «Un tipo ne ha trovata, una, sul vetro, e che ha fatto? È andato a bussare alla porta del vigile e ci ha gonfiato la faccia di schiaffi». Un altro signore mi spiega che in loco vige il costume di non pagare l’acqua: «La vogliamo a franchigia». E Maria che fa? Chiude i rubinetti a una ventina di famiglie morose. Blocca gli abusi edilizi, organizza concerti e letture, chiama all’ufficio tecnico, che controlla gli appalti, persone esterne, insomma combatte. Piccoli gesti legali e dunque sovversivi in un contesto anarchico. Poi, una notte, il primo choc. Non ne parla volentieri, credo sia una donna molto forte e molto fragile. La notte tra il 25 e il 26 giugno 2011 alle 3 del mattino quattro uomini s’intrufolano nella sua farmacia e le danno fuoco. La famiglia vive al primo piano dello stesso edificio. «Potevamo morire tutti. Qualcuno mi stava dicendo: non ci piaci». Siamo nel salotto di casa sua, tra i divani rossi, e i libri d’arte. Dal balcone, si vede la sua Panda blu, che reca i segni di più recenti minacce. «Lo scorso 30 marzo prendo la macchina vado in Comune parcheggio prendo le carte prendo la borsa mi cade il telefono e mi accorgo di questi buchi. C’è Totò, un amico, il presidente del Consiglio comunale, e gli dico ci sono dei buchi tondi sulla mia macchina chissà dove sono andata a sbattere. “Chiama i Carabinieri!”, mi dice». Erano fori di pallottole calibro 7,65. «Lì ho detto: adesso basta. Io non posso fare il sindaco. Ancora non sono convinta. Mi sono presa tre mesi di tempo per riflettere». Nessuno sa chi sia stato, lei dice che non ha idea, gli inquirenti dicono che non hanno idea. Gli unici che sembrano avere certezze sono gli altri. È da quando sono arrivata che si mormora, si dice, si scredita, si puntualizza, e soprattutto si esclude che il caso Lanzetta meritasse l’onore delle cronache nazionali. Me lo dice chiaro Cesare De Leo, un ex amministratore socialista, l’uomo dei grandi appalti: «Se la Lanzetta è perseguitata dal crimine, io sono stato perseguitato dallo Stato!». È stato sindaco per 15 anni e oggetto di 14 procedimenti penali, ma mai una minaccia, una intimidazione. Il caso della prima cittadina, dice, «è una montatura politica del Pd. La ’ndrangheta non c’entra. Il nostro problema è che lei non sa amministrare». Di voci simili ne ho sentite parecchie e lette anche sulla stampa locale, che le rimproverano il delitto di lesa calabresità. «In Calabria non c’è speranza», mi dice un giovane collega. «Bisognerebbe recintarla tutta, e bombardarla, possibilmente con i calabresi dentro». Andando via, su per la Statale 106, tra i magnifici fichi di’India e le dune, mi tornava in mente l’ultima conversazione con la dottoressa. Eravamo nel suo salotto; lei si era fatta bella. Indossava un vestito, nero e viola, e anche un filo di fard sul volto vivo. Mi stava dicendo che con la sua storia, erano emerse tutte le altre storie. Di uliveti e aranceti tagliati, di vite in frantumi, di un male comune. «Non c’è famiglia in Calabria che non abbia subito cose di questo genere, ed è inaccettabile. Penso alle persone che hanno perso una parte di sé. Quello che ti lasciano i genitori, la campagna, il negozio, la casa, è sacro. Quando te lo bruciano, te lo devastano, ti entrano dentro, ti bruciano l’anima, e te la bruciano per sempre. La notte del rogo in farmacia, ci siamo contati. Eravamo sul marciapiede. Mia mamma, di 85 anni, mi ha detto: non dargliela vinta. Domani si riapre la farmacia. Prima di chiudermi in casa, erano quasi le cinque del mattino, già albeggiava, ho detto io vado un attimo al mare. Devo andare al mare, a guardare il mare, vado un attimo al mare e poi torno su. Quando ti vedi le cose tue distrutte, perché magari a qualcuno fa piacere venirti a mettere fuoco, ti pieghi in due. È dura vivere qui. Io mi metto a piangere per tre cose. Quando si parla di emigrazione, della storia dei partigiani e degli ebrei. Che poi in fondo se vai a vedere queste tre cose hanno un filo conduttore comune, si parla sempre di esodo, di sradicamento, di perdita». A volte il prezzo della resistenza è troppo alto. «Resistere tout court ormai non l’accetto, non ne vale la pena, resistere per resistere. Ti guardi indietro, io ho 57 anni, mi pento amarissimamente di essere tornata qui. La vita da un’altra parte te la costruisci tu come vuoi senza combattere contro cose di cui non ne capisci alla fine niente e non ne esci mai perché ti invischiano». Avrebbe voluto non essere tornata. «Avrei fatto la cosa giusta». Avrebbe vissuto un altro dolore, quello dell’esule. «Sì, lo so, ma avrei fatto la cosa giusta nei riguardi delle persone cui voglio bene. Qualunque cosa accada poi in fondo una si ritrova a essere quella che è. Qualunque cosa succeda è il titolo di un bellissimo libro su Giorgio Ambrosoli, scritto dal figlio Umberto. Giorgio Ambrosoli aveva detto qualunque cosa succeda e poi l’hanno ammazzato». Ha paura? «Non ho paura. È che mi piacerebbe fare altre esperienze. Dico spesso a delle amiche distrutte magari lasciate dal marito: beh, va beh, lascia la porta aperta, non si sa mai. Poi ho scoperto che da noi si lascia la porta aperta quando ci sono i funerali. È una vecchia abitudine. Vecchie credenze, che l’anima cammina. L’ho trovato molto poetico. Da allora alle persone care che hanno disagi dico: lascia la porta aperta, non si sa mai possa entrare un nuovo soffio di vita. Apriti alla vita, lascia la porta aperta. Me lo dico spesso». Imma Vitelli