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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

LOVATELLI, IL CONTE «WINE TRAINER»


Gelasio Gaetani d’Aragona Lovatelli, 58 anni compiuti la scorsa settimana, apprezzato produttore di Brunello di Montalcino, conte, ma soprattutto superconsulente dei divi di Hollywood, cui insegna a scegliere e ad apprezzare i grandi vini, si racconta. «So che mi definiscono wine trainer ma mi piace pensare che sia per la lunga esperienza maturata in quarant’anni nel settore vinicolo...E pensi che non ho iniziato per passione, come accade a molti che si avvicinano a questo mondo così unico e magico, ma per destino...».
Destino?
«Quando avevo meno di vent’anni mio padre si trovò in una situazione economica difficile, davanti alla grande decisione: vendere o no l’antico feudo di famiglia che avevamo in Toscana, a Montalcino. Alla fine siamo riusciti a salvarlo. Col patto però che io restassi ad occuparmene. Le mie vere passioni, a quei tempi, erano umanistiche. Studiavo lettre e filosofia all’Università. Mi appassionava il cinema».
Il cinema? E il Brunello?
«Il mio sogno di gioventù non era di fare il vino. Volevo diventare regista».
Incontriamo il conte, discendente di una delle famiglie più antiche di Roma, nobiltà nera, quella legata ai Papi (fra i suoi antenati ne ha ben tre incluso Bonifacio VIII), al castello di Gabiano, nel cuore del Monferrato. Il maniero, imponente ma rimaneggiato negli anni Venti, è dei Marchesi Cattaneo Adorno e ha ospitato un’asta benefica di bottiglie storiche con un battitore d’eccezione, Gelasio appunto.
Ma che cos’è secondo lei il vino?
«Nonostante i super enotecnici che padroneggiano la scienza enologica, nonostante i grandi scienziati del vino che attraverso analisi sempre più precise sulle componenti dell’uva sono riusciti a portare il prodotto a qualità eccelse io continuo a credere che sia un prodotto emozionale, misterioso. Ed è proprio attorno a questo mistero del vino che si gioca la sua forza. Una volta era l’alimento dei contadini, un prodotto povero che testimoniava una cultura rurale in un’Italia sofferta. Fino a tutto il dopoguerra l’Italia era distante anni luce da quella d’oggi. Il made in Italy non sapevamo neppure cosa fosse. E il vino è sempre stato una bevanda povera che noi italici abbiamo da sempre nel nostro Dna. Da quando me ne occupo, e sono passati quarant’anni, posso dire di aver assistito a una trasformazione storica: da prodotto antico il vino si è trasformato in massima espressione di raffinatezza, eleganza e stile. Una sintesi del nostro essere italiani. Dimenticandoci naturalmente di quanto sta accadendo alla politica».
Ha imparato tutto da solo o ha avuto dei maestri?
«Ne ho avuti parecchi ma mi piace ricordare Luigi Veronelli. Fu lui il primo a intuire quel che sarebbe successo».
Insistiamo: cosa vuol dire fare il wine trainer e scegliere il vino per una grande star del cinema, ad esempio?
«I personaggi del cinema, in genere, non sono dei grandi cultori del vino. Soprattutto gli americani. Cercano le etichette conosciute. Il compito che spetta a noi gente del vino è quello di saper infondere in loro le nostre passioni. Io di preferenza consiglio le star che amano l’Italia. Come Sharon Stone».
Che vino beve la Stone?
«L’ho conosciuta una quindicina d’anni or sono. Allora beveva quasi soltanto i bianchi francesi, oggi acquista di preferenza vini toscani come il Chianti e il Brunello di Montalcino. Ma ha una vera passione per i bianchi friulani. Forse perché sono quelli che più si avvicinano ai bianchi della Loira e della Borgogna. Un altro divo che mi capita spesso d’incontrare e consigliare è George Clooney».
E lui che bottiglie compera?
«Beve quasi tutte le etichette famose. Stando sul Lago di Como, dove ha preso casa, ha però una preferenza per i vini del nord Italia. Ama le bonarde, i baroli, i barbareschi, le barbera... I vini robusti, insomma».
Noi in Italia diciamo di consumare vino da oltre 2000 anni.Ma il successo del settore, divenuto un modello in tutto il mondo è abbastanza recente. Come lo spiega?
«Coltiviamo la vigna da oltre venti secoli, ma il rinascimento del vino è recentissimo, inizia 35 anni or sono. Prima di allora non avevamo un vero mercato internazionale che era dominato dai vini francesi. È stata decisiva l’istituzione delle prime Denominazioni di origine controllata con la legge del 1964: non si poteva più fare un Barolo in Toscana o il Sangiovese in Piemonte. Nella realtà il successo non si deve tanto alle istituzioni italiane che sono sempre un passo indietro rispetto al mercato e alle sue necessità. A rivoluzionare il modo di fare il vino sono stati i grandi produttori italiani. Il più importante è stato Piero Antinori: aveva capito che in California per fare vini di qualità assoluta avevano cominciato a impiantare dei vitigni francesi, il cabernet franc, il sauvignon, il merlot. Producendo vini interessantissimi. Antinori cominciò a mischiare anche lui il cabernet con il sangiovese tradizionale: sono nati così il Solaia e i supertuscan.Dopo questi successi, però, siamo tornati a coltivare vitigni in purezza, come i sangiovesi, anche per differenziarci da un mercato mondiale capace di fare vini ottimi, grazie anche alle tecnologie, ma che alla fine sono un po’ tutti uguali. La nostra forza è l’enorme differenziazione dei vitigni unici che abbiamo nei nostri territori».
Mi indica le cinque etichette italiane che si sentirebbe di proporre sempre?
«Una è il Masseto prodotto all’Ornellaia dai Frescobaldi, un merlot meraviglioso: molto caro ma un grandissimo vino. Poi il Brunello dei Biondi Santi, un vino talvolta criticato per il loro modo antico di produrlo, ma capace di racchiudere in sé il fascino di una storia importante, anche se è un po’ caro. Poi ci sono le nuove scoperte come il Nero d’Avola prodotto in Sicilia da Arianna Occhipinti che ha pure un Frappato di grande raffinatezza, capace di ricordarmi il vino della Borgogna. E poi il Barolo di Conterno...».
E fra i bianchi?
«Mi viene in mente l’azienda del conte D’Attimis che a Maniago fa un grandissimo vino bianco».
Cosa pensa dell’investimento in vini? Lei lo consiglierebbe?
«È iniziato tutto in Francia dovei produttori hanno dato importanza prima di noi alle grandi annate, quando la qualità dei Bordeaux, dei premier cru, era di gran lunga superiore alle annate medie. Bottiglie capaci di arrivare alla maturazione – invecchiare è un termine negativo e preferiscon non usarlo – dopo tantissimi anni. Vini longevi con prezzi che ogni anno aumentavano in maniera esponenziale. E tuttora sono le bottiglie che si rivalutano di più».
E fra i vini italiani?
«Ce ne sono 5 o 6. Il Barbaresco di Angelo Gaja, i vini dell’Ornellaia, il Sassicaia, il Barolo di Mascarello, alcuni Brunelli di Montalcino. In Abruzzo il Montepulciano Valentini, talmente longevo che diventa buono dopo 25 anni».

Attilio Barbieri